La regia, un viaggio oltre

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Un reportage eccezionale dal Teatro dell’ Opera di Stoccolma: Ingmar Bergman, al lavoro sull’opera “”Le Baccanti””, parla di teatro, di interpretazione, del suo difficile rapporto con la musica, di tragedia greca e di Shakespeare, di ossessioni trasfigurate e di sogni infiniti

Bergman, prologo al teatro

“”L’impossibile è troppo attraente, e io non ho niente da perdere. Non ho nemmeno niente da guadagnare, a parte il gentile plauso di qualche giornale. Un plauso che i lettori dimenticano dopo dieci minuti, e io dopo dieci giorni. La verità della nostra interpretazione è del resto legata al tempo in cui viviamo. Le nostre rappresentazioni teatrali sono certo scomparse in una misericordiosa penombra, ma singoli momenti di grandezza o di miseria sono tuttora illuminati da una dolce luce. I film invece rimangono e testimoniano la crudele variabilità della verità artistica. Poche rocce si levano sui sassi sgretolati delle mode. In un attimo di rabbiosa perspicacia mi rendo conto che il mio teatro è degli anni Cinquanta e i miei maestri sono degli anni Venti.

Questa consapevolezza mi rende attento e impaziente. Devo separare le idee assorbite con 1’abitudine dalle esperienze importanti, fare a pezzi vecchie soluzioni senza obbligatoriamente sostituirle con nuove””.

Bergman e il vecchio poeta

“”Euripide, il costruttore di drammi, è vecchio ed esiliato in Macedonia. Scrive Le Baccanti. Furibondo, costruisce il suo muro accostando blocco a blocco: le contraddizioni si scontrano con le contraddizioni, la pietà con la bestemmia, la quotidianità con il rito. Si è stancato di moraleggiare, comprende che il gioco con gli dei è definitivamente perduto. I commentatori hanno parlato di stanchezza del vecchio poeta. Al contrario. La massiccia scultura di Euripide rappresenta uomini, dei e mondo in un movimento spietato e insensato sotto un cielo deserto. Le Baccanti testimoniano it coraggio di spezzare le forme””.

Bergman e l’opera

“”Nel corso della mia vita professionale non ho realizzato molte opere liriche. II motivo è spiacevole: il mio amore per la musica non è corrisposto. Sono torturato da un’assoluta incapacità di tenere a mente o riprodurre una successione di suoni. La riconosco subito ma ho difficoltà a collocarla e non sono in grado di cantarla o fischiettarla. L’imparare a memoria un pezzo musicale per me è faticoso come scalare una montagna. Per giorni me ne sto seduto con registratore e partitura, a volte questa incapacità è paralizzante, a volte solo ridicola. Eppure la mia rappresentazione sorge dalla musica. Non posso seguire un’altra via””.

“”Le Baccanti””

Bergman ha riadattato il testo di Euripide per ricavarne un’opera destinata a rappresentarsi in prima mondiale al1’Opera di Stoccolma. Ha chiesto al cornpositore svedese Daniel Bortz, quarantanove anni, una solida carriera alle spalle come artista volontariamente appartato, di scrivere una musica che realizzasse con mezzi classici la sua visione della tragedia: che alternasse canto, recitazione e commento orchestrale. Sono trent’anni esatti che Bergman non lavora in un teatro d’opera: Il flauto magico fu infatti concepito fin dall’inizio come film per la televisione (da pagina 51 la sua rievocazione). Nel 1961 aveva messo in scena La carriera di un libertino, e una rara fotografia dell’epoca lo ritrae stralunato assieme a un impassibile Stravinsky nel manicomio dell’ultima scena. Qualche anno prima, a Malmö, aveva rappresentato La vedova allegra, trattata come una commedia brillante di stampo cinematografico. La musica ha sempre affascinato Bergman, ma l’opera e qualcosa di diverso dal teatro in cui ha sempre lavorato. “”In teatro – dice – il rapporto è diretto fra me e il testo, fra gli attori e il testo, fra me e gli attori. Se questo triangolo si chiude, se durante il lavoro si crea il clima giusto, si pongono le basi per una buona realizzazione. Nell’opera è diverso: 1’elemento principale è la musica, e il fatto di non conoscere la musica è qualcosa che mi trattiene. Qui il lavoro del regista deve avvenire non solo sul testo, ma sulla musica, che e i punto di arrivo. E il lavoro sui cantanti è olto piu difficile. Ho sempre desiderato mettere in scena Le Baccanti. Molti anni fa, quando lavoravo a Malmö avevo pensato a una regia con protagonista Max von Sydow. Poi qualche anno fa avevo trovato 1’attrice giusta per realizzare ilprogetto al Dramaten, Lena Olin, ma per varie circostanze ho dovuto rinunciare. Avevo intanto stabilito che la figura di Dioniso dovesse essere interpretata da una donna. Molto più tardi ho compreso che non potevo rappresentare questa tragedia senza la musica. La musica è essenziale allo svolgimento del rito dionisiaco. E il linguaggio che rappresenta atti, concetti e stati d’animo che la parola da sola non puo esprimere””.

Il compositore

“”Bergman – spiega Börtz –  mi ha illustrato passo per passo la sua idea della tragedia, indicandomi che tipo di intervento dovesse avere la musica. Io ho cercato di tradurre in suoni con la mia sensibilità le sue idee, le sue visioni, servendomi di mezzi tradizionali: la grande orchestra con largo uso delle percussioni e qualche passo registrato su nastro per l’orgia delle Baccanti. E’ stato Bergman a volere che il canto si alternasse alla recitazione, con o senza accompagnamento di musica. II coro delle Baccanti e formato da tredici voci soliste variamente combinate, che frammentano o intensificano il canto e si riuniscono nei punti culminanti come un vero coro””. Una musica funzionale, dunque, ma che si mostrerà capace con un ampio spettro di gradazioni di aderire perfettamente alla drammaturgia ricreata da Bergman sulla scena. La vocalità ricorda Strauss e l’espressionismo, la partitura ha qualche prestito da Stravinsky e Orff; il declamato e arioso è incisivo, l’orchestra alterna sonorità esplosive a suggestive rarefazioni; ma 1’atmosfera è personale, il gusto sempre controllato e improntato a una forte, convincente concretezza. La qualità del risultato dimostra che per uscire dalla crisi dell’opera contemporanea un progetto è essenziale anche per la musica.

La protagonista

“”Una sera – continua Bergman – andai all’opera e vidi Sylvia Lindenstrand in una rappresentazione della Carmen. Il suo talento era straordinario: una voce scura di mezzosoprano con un temperamento e una sensualità naturali. Ho capito subito di aver trovato l’interprete giusta peril mio progetto. Quando lo avviammo, Sylvia aveva gia deciso di pensionarsi dal teatro per cantare solo in concerto. Sono riuscito a convincerla a fare un’eccezione. Per me un’idea comincia a realizzarsi solo quando trovo gli interpreti adatti. Posso avere molte idee, ma finchè non trovo le persone giuste non parto neppure. E’ sempre stato così. Il regista che pretende a tutti i costi di realizzare le sue intenzioni senza avere gli interpreti giusti per farlo si espone sicuramente a figuracce. Questo l’ho capito sulla mia pelle, tutte le volte che ho creduto, per qualche attimo, di essere onnipotente””. Prima un attore, poi un’attrice, infine una cantante: Dioniso in figura di donna, perche? “”E’ Euripide a rappresentarlo come un giovane di bellezza femminea, con i lunghi capelli biondi che gl scendono sul dorso inanellati. Ha negl occhi i lampi scuri del vino e le grazie languide di Afrodite. Non è solo un travestimento. Dioniso è 1’essenza del mondo femminile, il mistero che attrae e che dà protezione, calore, vita. E che distrugge. Così lo vedeva Euripide, e io sono d’accordo con lui””.

Prova in teatro

Bergman prova Le Baccanti nella sala del Teatro dell’Opera di Stoccolma. Manca una settimana alla prima. Tutto è già in movimento da due mesi: solisti, orchestra, tecnici, assistenti. E tutto ruota attorno a Bergman. Lo spettacolo è ormai pronto, mancano soltanto le luci: elemento essenziale di una regia che non vuole scene costruite e grandi arredi. Più che in altri spettacoli, qui la luce e tutto. Bergman 1’ha definita cosi: “”dolce, pericolosa, sognante, viva, morta, chiara, nebbiosa, calda, violenta, nuda, improvvisa, cupa, primaverile, dall’esterno, dal1’interno, verticale, obliqua, sensuale, smorzata, delimitante, velenosa, rasserenante, luminosa. La luce””.

Come lavora Bergman? Quel che colpisce prima di tutto è il silenzio. Un silenzio quasi innaturale in teatro, soprattutto quando siano impegnate molte persone. Ma è un silenzio carico di concentrazione e di curiosità. Pare quasi che tutti siano in attesa di vedere che cosa fara il grande silenzio. Un silenzio quasi innaturale in teatro, soprattutto quando siano impegnate molte persone. Ma è  un silenzio carico di concentrazione e di curiosità. Pare quasi che tutti siano in attesa di vedere che cosa farà il grande Bergman. Ma Bergman non ha atteggiamenti eclatanti. L’organizzazione è tale che tutti sanno già quello che debbono fare. Le istruzioni sono date tutte sottovoce, con calma, con tono di preghiera, quasi invocando protezione. Agli attori e ai cantanti si rivolge spesso scherzando, come per togliere la tensione; o meglio per togliere quel che vi è di negativo nella tensione non finalizzata alla prestazione artistica. “”Per molti anni, prima che diventassi Bergman, mi hanno accusato di pretendere troppe prove. Io sono stato sempre estremamente rapido, ho imparato a esserlo agli inizi della mia carriera nel cinema. Prima di diventare regista sono stato sceneggiatore: la sera mi davano un soggetto e in una notte dovevo stendere il copione. Se penso che tutto Il settimo sigillo è stato girato in poco più di due settimane, ancora oggi mi meraviglio di come abbia fatto. Ma in teatro è un’altra cosa. Nel cinema si tratta di arrivare a girare una buona scena. Quando è fatta, tutto è finito. In teatro deve essere creato il clima che permetta agli attori di sentire lo spettacolo sulla propria pelle, perchè ogni sera lo spettacolo ricomincia, e cambia. Perchè non sia una cosa ripetitiva, nè approssimativa, occorre creare una dimensione di vita, o meglio di sogno. Gli attori debbono entrare in quel mondo, sentirsi a casa loro e reincarnarsi come se dovessero rivivere in esso. Ogni volta una nuova vita, un nuovo sogno. A questo servono le prove. A fortificare questo clima. A volte mi dicono: ‘Ma, Ingmar, che te ne fai di tante prove, lo sai perfettamente quello che vuoi, gli attori sanno già perfettamente quello che devono fare, e allora?’. Non sono un pazzo, e neppure mi diverto a fare il difficile. Chi dice così non sa che cos’e il teatro. La naturalezza è una conquista””. Alle prove di Bergman l’impressione è che in effetti tutti siano perfettamente consapevoli di quello che stanno facendo, ma temendo che un nonnulla possa far cadere tutto l’edificio pazientemente costruito. E c’e di più. Questa volta c’e di mezzo Dioniso, e Bergman ha paura. Dice che il dio della follia va trattato con dolcezza e con attenzione: deve essere propizio, non deve essere tentato, non deve negarsi. E davvero sembra che Dioniso sia lì, ad ascoltare, a decidere se la sua apparizione avverrà. Teatro come culto, teatro come rito.

La parrucca di Dioniso

In questa atmosfera magica non sembra esserci posto per 1’improvvisazione. E all’improvviso accade l’imprevisto. Sylvia ha avuto solo ora la parrucca che porterà in scena, così importante per il suo personaggio: i suoi bei capelli naturali castani non bastano. Quando Dioniso scioglierà i suoi capelli biondi darà inizio alla seduzione di Penteo, con la forza ambigua del suo erotismo. Per la prima volta, dunque, Sylvia si trova nelle condizioni definitive. Ma via via che la scena capitale va avanti, i capelli le si appiccicano sul viso, forse il sudore, forse il trucco: e mentre canta lei li scaccia e li scuote come per liberarsi da un fastidio. Bergman, seduto al tavolo di regia al centro della platea, comincia ad agitarsi. Ferma tutti, con gentilezza.

Sale in palcoscenico. Non lo aveva mai fatto prima, perchè non ce n’era stato bisogno. Prende sottobraccio Sylvia, le ravvia i capelli, la guarda negli occhi e le parla. Forse vuole ipnotizzarla? Ma no. Vuole solo insegnarle come un dio tratterebbe quei capelli senza rompere l’incantesimo. Sylvia lo ascolta, prova a rifare quello che Bergman le ha fatto vedere, lisciando e accarezzando con sensualità i suoi capelli. Quando la scena riprende, l’impaccio è diventato gesto cosciente integrato nell’azione: un mezzo di seduzione in più. L’improvvisazione ha risolto l’inciampo, tutto torna alla perfezione. C’e un modo divino, non solo femminile, anche di riordinare, di giocare con i capelli per colpire al cuore. Il fantasma di Dioniso approva. Forse quello era 1’ultimo trabocchetto che aveva teso. Ora sara propizio.

La rivelazione

Quando si alza il sipario la scena è una scatola vuota, grigia, al centro della quale alcune pietre delimitano un cerchio magico, 1’altare del dio e il luogo del rito. Entra Dioniso, in abiti neri maschili, i capelli raccolti (non è ancora venuto il momento di scioglierli); percorre la scena vuota come un regista alla ricerca del suo spazio, indossa il mantello rosso del travestimento e intona il prologo: “”A questa terra dei Tebani io, Dioniso, figlio di Zeus, vengo…””. Poi chiama a se il seguito delle Baccanti che entrano come una compagnia di attori girovaghi, trascinando un carro di Tespi da cui estraggono gli arredi per comporre la scena: paramenti e tappeti rossi che gia annunciano il sangue. E come se la tragedia antica rivivesse nel suo farsi, nel suo costituirsi di elementi per il dramma. E si capisce che cosa dovesse essere una tragedia ai tempi di Euripide: non più un modo di purificarsi attraverso la catarsi, ma una spietata operazione di analisi su di sè e sul mondo. Così almeno è per Bergman. Non solo tragedia, ma anche commedia. Tiresia è un travestito che porta occhiali neri solo metaforicamente da sole e assomiglia a un imbroglione più che a un indovino: è il primo a non prendere sul serio le sue profezie. Cadmo, invece, un vecchio che si illude di ritrovare la giovinezza partecipando idealmente ai riti delle Baccanti, forse anche per riconquistare Agave, la figlia che 1’ha abbandonato per andare sul Citerone: e quanto più doloroso sarà allora alla fine doverle mostrare la verità dello scempio compiuto da lei stessa sul proprio figlio. Padri, madri e figli, ancora una volta, al centro di un dramma imperscrutabile, universale. E poi la commedia ridiventa tragedia. Quando Tiresia è costretto a riconoscere 1’evidenza, si toglie la sua ridicola parrucca, gli occhialini neri e si ricompone sul serio: in quel momento non può piu barare sulla sua chiaroveggenza.

Penteo, il miscredente, appare all’inizio vestito di scuro come Dioniso, ma con stivali e canottiera nera da giovane arrabbiato, con i lunghi capelli raccolti e 1’orecchino d’oro: nel suo materialismo si crede forte, ed è solo brutale. Ma quando si traveste da donna per spiare le invasate, la sua dolcezza, le sue lunghe chiome bionde e il suo volto hanno una straordinaria rassomiglianza con quelli del dio. Così la tragedia accresce la sua ambiguità, il mistero. Dioniso non rappresenta un nuovo equilibrio che risolva i conflitti, ma è una forza implacabile e distruttiva. La passione dell’irrazionale, che per Bergman ha da sempre irresistibili tratti femminili, svela una potenza oscura che irrompe nel mondo e detta le sue leggi in modo incondizionato. La rivelazione del dio e il momento in cui il teatro spalanca 1’abisso dell’orrore e del sublime: Dioniso improvvisamente appare dall’alto in abito splendente da uno squarcio di luce sul fondo della scena – quasi deus ex machina al negativo – per rivelare la sua identità e compiere la vendetta annientando non solo chi non ha creduto in lui ma anche Agave e le Baccanti, i suoi strumenti di punizione. E qui 1’anima femminile si sdoppia: mentre Dioniso abbatte il fantasma della sua messaggera sulla terra, le Baccanti si velano il volto per nascondere il pianto, eAgave dà al suo lamento i toni increduli di un ultimo, straziante congedo. Ora sa la verità. Questa doveva essere l’ironia tragica, prima che divenisse, come tante altre cose, solo un modo di dire banale.

Sarcasmo e pietà

“”Mentre lavoravo alle Baccanti, il pensiero correva anche a Shakespeare, e a Re Lear in particolare. Prima di lui nessuno come Euripide aveva osato guardare tanto a fondo, senza fingere, nell’anima umana: con sarcasmo e con pietà. Quando il coro dice: ‘Cos’e mai la saggezza? Quale il dono più bello degli dei ai mortali? Calcare la mano sul capo ai nemici, forse. Bello è ciò che è caro’, ebbene, in queste parole c’è un sarcasmo feroce, quasi un furore cieco. I1 vecchio poeta si vendica mettendosi dalla parte del dio, dopo aver riconosciuto di aver perso 1’impari battaglia. Ma il dio si vendica su di lui, calpestandolo e lasciandolo nell’abbattimento e nella solitudine. Dio si vendica sempre sugli uomini che si sono ribellati. E gli uomini a loro volta si vendicano con l’odio, torturandosi e torturando””. L’anima del dio è la donna. Ma quando quest’ anima si rivela e tutto sembra compiuto, allora le cose cambiano: subentra a poco a poco un’altra visione. II servo che ha assistito alla terribile punizione di Penteo racconta ciò che ha veduto; e termina il suo racconto con queste parole: “”La cosa più bella, 1’acquisto più saggio per gli uomini è essere moderati e onorare gli dei”” . E si inginocchia di fronte alla morte. Per Bergman “”questa e 1’altra faccia della tragedia: alla furia e alla ribellione subentrano la pietà e la tenerezza, la solidarietà e le lacrime che lavano il sangue. Forse Euripide ha voluto dire che l’egoismo è la vera condanna dell’uomo, la generosità la sua salvezza. E sono le donne a capirlo: solo una madre è in grado di dare la vita e di uccidere il figlio. Solo le donne alla fine possono piangere, e reagire alla tristezza per farci sentire che la pietà è il dono piú prezioso per il nostro riscatto””. Il racconto del servo è affidato a Peter Stormare, l’attore del Dramaten che con Bergman è diventato famoso, nell’Amleto. “”Sì, Stormare mi assomiglia, è non soltanto nel fisico ciò che io ero da giovane, un ribelle che lottava contro i mulini a vento e che si dimenava insensatamente per non affogare. Ciò che Stormare recita nella tragedia io allora non lo sapevo ancora, forse l’ho imparato solo adesso””.

Bergman non lo dice, ma sono state le donne della sua vita a insegnarglielo.

Det var detta vart spel ville visa

La lingua svedese, nell’ultima battuta dell’opera, sembra così lapidaria e intensa come il greco. O forse è soltanto l’immaginazione e il fascino di una lingua sconosciuta, che scolpisce parole ricche di suggestione e di mistero. Dopo il lamento di Agave e il tenero duetto di addio con il padre, la musica tace: è un invito a dimenticare, e insieme a ricordare per sempre. Ora le Baccanti sono sole, abbandonate: il sogno è finito. Si alzano, si dispongono sul proscenio in una schiera compatta, per sentire e far sentire la loro vicinanza. Intonano su una melodia purissima, trasognata, l’esodo. Poi, una di loro si avanza e sussurra, par-lando: “”Det var detta vart spel ville visa””. Significa, alla lettera: “”Era questo che volevamo far vedere””. Nell’originale di Euripide suona diversamente: “”Così si è compiuta questa vicenda”” . Ma quello che Bergman voleva far vedere era proprio ciò che andava oltre il compiersi della vicenda: il significato morale del compianto e della pietà, la ricomposizione di un ordine interiore sulle rovine delle passioni e delle idee. Solo il teatro, solo la musica possono trasfigurare le ossessioni, i sogni e la realtà in un mondo ideale di figure e di immagini che diano un senso, ancora una volta, al destino e alla vita. Questo ha voluto dirci Bergman, questo mostrarci. Quando finiranno i sogni, per lui finirà la vita, finirà il teatro.

 

 

Dalla seconda parte dell’autobiografia di Ingmar Bergman, da poco uscita in Svezia e in Germania con il titolo Bilder (Immagini) e ancora inedita in Italia, pubblichiamo il capitolo che si riferisce al Flauto magico (traduzione di Sergio Sablich).

 

Avevo dodici anni quando vidi per la prima volta all’Opera di Stoccolma Il flauto magico. L’allestimento era pesante e goffo. Il sipario si alzava per una breve scena e calava subito di nuovo. Nella sua fossa l’orchestra si annoiava.

Dietro il sipario si sentiva far fracasso, martellare e costruire. Dopo una pausa infinitamente lunga il sipario si alzava per la scena successiva.

Mozart compose Il flauto magico per un teatro con fondali e quinte mobili che rendevano possibili cambi di scena fulminei. All’Opera di Stoccolma attrezzature di questo genere esistevano ancora ma non venivano utilizzate. La rivoluzione scenografica degli anni Venti aveva lasciato conseguenze nefaste. La scenografia doveva essere pluridimensionale, ogni scena era costruita, fissa, e non era agevole cambiarla.

Ho cominciato a frequentare regolarmente il teatro dell’opera nell’autunno del 1928. I posti laterali di terza galleria costavano relativamente poco. Perfino meno del cinema. Sessantacinque centesimi l’opera, settantacinque il cinema. Divenni un frequentatore d’opera assiduo.

A quel tempo avevo già il mio teatro di marionette. Le rappresentazioni si basavano soprattutto su ciò che si poteva trovare nella collezione di teatro della biblioteca per l’infanzia “”Saga””. Prendevano parte all’impresa quattro soci, pressappoco coetanei. Io e mia sorella eravamo impiegati fissi, la mia migliore amica e la sua migliore amica normali collaboratori. Si trattava di un grande teatro di marionette con un grande repertorio. Facevamo tutto noi: marionette, costumi, scene e luci. C’era un palcoscenico girevole, una botola e un fondale circolare. La scelta dei programmi divenne sempre piú raffinata. Andavo alla ricerca di drammi con luci eleganti e frequenti cambi di scena. Era del tutto naturale che Il flauto magico accendesse la fantasia del direttore del teatro.

Una sera il direttore vide Il flauto magico e decise di rappresentarlo. Purtroppo il progetto non andò in porto, perché l’acquisto di un’incisione discografica in qualche modo completa si rivelò troppo caro per le nostre finanze.

Da allora Il flauto magico mi ha accompagnato per tutta la vita. Nel 1939 fui assunto all’Opera come assistente alla regia. Nel 1940 ci fu la ripresa del vecchio, pesante allestimento. Come assistente alla regia stavo nella cabina luci a sinistra del palcoscenico nella prima quinta di scena. Vi lavoravano un uomo anziano, che veniva chiamato “”l’ufficiale dei pompieri””, e suo figlio. Sembravano tutti e due cresciuti in quello spazio bislungo fra le molte leve di comando. Il mio compito consisteva nel seguire la musica con lo spartito in mano e dare gli attacchi per gli effetti luce.

Qualche tempo dopo passai al Teatro Municipale di Malmö. Sul palcoscenico grande venivano date ogni anno almeno due opere, e io spinsi con tutte le mie forze perché venisse rappresentato Il flauto magico. Mi ero messo in testa di fare io stesso la regia. Forse sarebbe andata così se il teatro non avesse ingaggiato per una stagione un regista d’opera tedesco vecchio stampo. Era sulla sessantina e nel corso della sua lunga carriera aveva allestito quasi tutto quanto avesse a che fare con l’opera. Naturalmente Il flauto magico fu assegnato a lui: una rappresentazione elefantiaca e statuaria, con pesanti scene costruite. Per me fu una delusione doppia.

Ancora un altro ricordo si associa al mio amore per Il flauto magico. Da ragazzo ero un vagabondo. Un giorno di ottobre me ne andai a piedi fino a Drottningholm per vedere il teatro del castello. Per qualche motivo la porta d’ingresso al palcoscenico era aperta. Entrai e vidi per la prima volta il teatro barocco che era stato appena restaurato. Ricordo perfettamente che per me fu un’esperienza magica: il chiaroscuro, il silenzio, il palcoscenico.

Nella mia fantasia ho sempre visto Il flauto magico racchiuso in questo spazio d’altri tempi, in questo raccolto teatro di legno dall’acustica meravigliosa, con il suo palcoscenico dolcemente digradante, i suoi fondali e le sue quinte. Qui si trova la nobile magia dell’illusione teatrale. Niente è, tutto è come se. Nel preciso momento in cui si alza il sipario tra palcoscenico e pubblico viene stipulato un patto: adesso immaginiamo insieme. E’ dunque naturale che il dramma si svolga nel teatro barocco e con il macchinario originale e impareggiabile del teatro barocco.

Il seme fu gettato alla fine degli anni Sessanta. Da alcuni anni l’orchestra della radio svedese dava concerti pubblici nel “”circo”” a Djurgarden. Per i musicisti non era certo uno spazio comodo. Ma per la musica era meraviglioso, con una buona acustica sotto la cupola. Una sera accompagnai a un concerto l’allora direttore dei programmi musicali della radio, Magnus Enhörning. Nell’intervallo conversammo amichevolmente e io buttai là che quello sarebbe stato il luogo adatto per l’Oedipus Rex di Stravinsky. “”Allora facciamolo””, ribatté. Avevo dietro alle spalle la messa in scena della Carriera di un libertino. Inoltre avevo allestito La vedova allegra al Teatro Municipale di Malmö: questa era tutta la mia esperienza con il teatro musicale.

Ernhörning mi chiese se non avessi qualche altra opera da proporre. Sento ancora la mia voce dire: “”Voglio fare Il flauto magico. Voglio fare II flauto magico per la televisione””. “”Allora facciamolo insieme””, rispose Ernhörning. E così si mise in moto un complicato apparato burocratico. Alla televisione calcolarono che la produzione del Flauto magico sarebbe costata la cifra astronomica di mezzo milione di corone. A parte questo, l’ambiente dei mass-media, che dopo il sessantotto era diventato militante e antielitario, aveva posto ferocemente in discussione la cultura borghese e soprattutto l’opera. In questa situazione una produzione operistica così costosa non era affatto una cosa semplice. Senza l’inesauribile entusiasmo di Magnus Ernhörning Il flauto magico non sarebbe mai stato realizzato. Era instancabile, una vecchia volpe. Conosceva i trucchi del mestiere e seppe trovare i canali giusti.

Per prima cosa ci occorreva un direttore. Interpellai Hans Schmidt-Isserstedt, un vecchio amico. Con accento inimitabile mi rispose: “”No, Ingmar, non me la sento di fare ancora una volta tutta questa fatica!””. Era il modo giusto per esprimere una delle difficoltà del Flauto magico: musicalmente è terribilmente complicato, così che il direttore raramente viene ripagato dei suoi sforzi.

Mi rivolsi allora a Eric Ericson, che ammiravo e rispettavo come direttore di coro e di oratori. Mi disse di no, con decisione. Ma io non mi detti per vinto. Aveva tutto quello che potevo desiderare: il calore nel far musica, la passione per gli uomini e – soprattutto – una sensibilità per le voci che aveva sviluppato nella sua straordinaria carriera come direttore di coro. Alla fine accettò.

Poiché dovevamo fare Il flauto magico non in teatro ma davanti ai microfoni e alla macchina da presa non avevamo bisogno di grandi voci. D’altro canto dovevamo avere voci calde, sensuali, personali. Inoltre era per me della massima importanza che gli interpreti fossero giovani e che sentissero come cosa per loro naturale i rapidi capovolgimenti dalla gioia al dolore, dal sentimento alla passione. Tamino doveva essere un bel giovane. Pamina una fanciulla graziosa. Per tacere di Papageno e Papagena. Inoltre ero fermamente convinto che anche le tre dame dovessero essere giovani e allegre e virtuose: dolci, amanti del rischio e con un talento da commedianti nate, ma calde, sensuali. I tre geni dovevano essere monelli, e così via.

Dopo un certo tempo disponevamo della nostra compagnia molto nordica. Cantanti e musicisti si incontrarono per una prima prova. Esposi quello che volevo cercare di mettere in rilievo: l’intimità, l’accento umano, la sensualità, il calore, la vicinanza. Gli artisti risposero con entusiasmo.

L’idea fondamentale era di avvicinarsi il piú possibile agli esseri umani della fiaba. Gli incantesimi e le meraviglie sceniche avvengono quasi di passaggio: all’improvviso l’atrio di un tempio, all’improvviso nevica, improvvisamente il muro di una prigione, e improvvisamente viene la primavera.

Mentre giravamo ci rendevamo conto che c’era stata una lunga gestazione. Mai lavoro di regia si svolse con tanta facilità: le soluzioni facevano la fila per presentarsi spontaneamente. Non si trattò in alcun senso di un parto forzato o di un’idea che mi fosse venuta solo perché volevo dimostrare di essere un regista capace. Fu un periodo creativo, innalzato e sostenuto giorno e notte dalla musica di Mozart.

Una delle scene centrali dell’opera è quella che precede le prove di Tamino e Pamina. L’insegnante di pianoforte di Käbi Laretei, Andrea Vogler-Corelli, aveva attirato la mia attenzione sul suo significato inequivocabile. Nella mia autobiografia Lanterna magica sta scritto: “”Daniel Sebastian nacque con taglio cesareo il 7 settembre 1962. Käbi e Andrea Vogler lavorarono instancabilmente fino all’ultimo momento. La sera successiva al parto, quando Käbi si fu addormentata dopo sette mesi di tormento, Andrea prese dalla libreria la partitura del Flauto magico. Io parlai della messa in scena che sognavo e Andrea cercò il corale cantato dai due Armigeri dagli elmi infuocati. Sottolineò la stranezza del fatto che il cattolico Mozart avesse scelto un corale ispirato a Bach per comunicare il messaggio suo e di Schikaneder. Indicò le note e disse. ‘Questa dev’essere la chiglia della barca. È difficile pilotare il Flauto magico. Senza chiglia non è possibile. Il corale bachiano è la chiglia’ “”.

Il film fu montato a Farö. Quando la copia di lavorazione completa della colonna sonora fu pronta, demmo la prima assoluta del film nel mio laboratorio di allora. Invitammo collaboratori, vicini, figli e nipoti. Era una sera di fine agosto con un magico chiaro di luna sul mare. Bevemmo champagne, accendemmo lanterne colorate e qualche bengala.

Ingmar Bergman

Musica Viva, n.1 – anno XVI

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