La nostra perduta tra i cipressi

L

Ronconi mette in scena a Monaco un “”Trovatore”” fuori dalle convenzioni: e la critica lo stronca

A Monaco è andato in scena (e ci resterà per qualche tempo, anche al festival estivo) un nuovo Trovatore diretto da Giuseppe Sinopoli: Luca Ronconi regista, scene di Margherita Palli e costumi di Gabriella Pescucci. I cantanti erano Julia Varady (Leonora), Wolfgang Brendel (Conte di Luna), Hardy Dworchak (Ferrando), Stefania Toczyska (Azucena), Dennis O’Neill (Manrico): compagnia eterogenea e con molti limiti, ma fortemente motivata dalla direzione e dalla regia. Alla critica tedesca lo spettacolo non è piaciuto, qualcuno ha parlato addirittura di cosa miserabel, squallida. Il pubblico si è diviso a metà, dando tuttavia l’impressione di esser rimasto deluso soprattutto dalla mancanza di quei requisiti che in Germania sono ritenuti essenziali per l’opera italiana e per Verdi in particolare: la platealità dei gesti, la sfrenatezza dei comportamenti scenici e vocali, l’immediatezza esibita di reazioni viscerali, elementari, secondo l’immagine che i tedeschi continuano ad avere non solo del melodramma ma anche degli italiani, anche in positivo. E invece tutto questo non c’era. O se c’era, come nella prestazione di qualche cantante non a caso cresciuto pure lui con quest’idea, come Brendel, non si armonizzava col resto, e diventava parodia di un luogo comune, cosa ridicola. Ritorcendosi dunque contro quell’immagine e ferendola al cuore. Che qualcuno osasse contraddirlo nelle sue aspettative, complicare anziché semplificare, riflettere anziché celebrare, offendeva il pubblico, o almeno quella parte di esso più intransigentemente abitudinaria. Curiosamente, si ammetteva e anzi si apprezzava che Sinopoli desse alla parte orchestrale un’importanza e una dignità speciali, che non si limitasse ad accompagnare secondo gli stereotipi dello stile d’opera, che insomma caricasse la partitura di significati pregnanti e di una presenza continua, quasi sinfonica.

Perché l’orecchio dell’ascoltatore, qui, è avvezzo dalle frequentazioni del repertorio tedesco ad accettare che ciò possa accadere. Ma fino a un certo punto. Non fino al punto di ribaltare i rapporti con la convenzione. Sul palcoscenico, luogo di un’immaginario che vuole conferme alle sue attese, non è ammesso.

Se si è partiti dall’ambiente e dalle sue reazioni è perché l’operazione di Ronconi riceveva proprio da esso un’evidenza particolare, che forse altrove non sarebbe stata la stessa. Oggi si tende sempre più a considerare una messa in scena come un fatto disgiunto dalle condizioni in cui si realizza, quasi fosse un oggetto astratto che si può calare in qualsiasi “”contenitore””. Il teatro come contenitore è del resto uno dei principi del lavoro di regia moderno. Che esso sia in contrasto con la storia dell’opera, con le ragioni stesse per cui nacque e si affermò, è uno dei motivi che rendono sempre più problematico il nostro confronto con l’interpretazione scenica, e quest’ultima sempre più tendente all'””attualizzazione”” da un lato, all’astrazione dall’ altro.

L’illusione di rendere attuale l’opera ambientandola in epoche e abiti moderni o rispettivamente contemporanei all’epoca in cui l’autore la creò (Ronconi stesso lo ha fatto spesso, in parte anche nella Tetralogia di Wagner) ha un fondamento non soltanto nella nevrosi tipica del nostro tempo (il risultato è comunque schizofrenico, più o meno consapevolmente) ma anche in un problema reale: noi ci stiamo allontanando sempre più dalle condizioni originarie in cui l’opera in quanto genere aveva le sue radici e il suo senso. Questo distacco storico è aggravato dal fatto che nel Novecento si è perduta del tutto quella continuità che esisteva invece nel passaggio dell’opera dal Seicento al Settecento, e dal Settecento all’Ottocento: con grandi trasformazioni, certo, ma in una linea di evoluzione che rispecchiava le esigenze del presente. L’opera, per sua stessa natura, è nata come prodotto del giorno, specchio di un’epoca; ma a differenza di una poesia o di un quadro, che possono essere avulsi dal tempo e che mantengono la propria identità ovunque, l’opera non esiste al di fuori della sua realizzazione scenica. E proprio questa contingenza si scontra col fatto che si sia creata una frattura tra la nostra epoca – incapace di continuare la tradizione in una linea di evoluzione con il passato – e la sostanza convenzionale – nel senso di equilibrio tra cause ed effetti – di cui l’opera è fatta. E inutile giocare sull’equivoco: il mondo del melodramma è stato liquidato dall’arte del nostro secolo e per recuperarlo non basta sempre e solo l’immediatezza o la fedeltà alle tradizioni, reali o simboliche che siano. L’importanza storica di Wagner consiste proprio in questo: che egli per primo intuì come l’opera, per sopravvivere, dovesse sospendersi nel mito, superare la contingenza del presente e divenire universale, fuori dal tempo, in un legame incondizionato, assoluto della musica con la poesia e il dramma.

Col Trovatore di Monaco Sinopoli e Ronconi hanno dato una risposta molto decisa a questi interrogativi: hanno affrontato l’opera – il genere prima ancora che questa in particolare – ricercandone per così dire una “”seconda natura””. Dando per avvenuto che l’immediatezza sia andata perduta, l’hanno smontata dal suo piedistallo, trasportata in una laboratorio e sottoposta a indagine per capire come fosse fatta; poi l’hanno riportata sul palcoscenico e hanno provato a vedere come funzionasse dopo la ricostruzione. Con una certa drasticità si potrebbe supporre che la domanda fosse: ma perché continuiamo a occuparci di questa roba, perché il pubblico continua a entusiasmarsi di storie tanto complicate e assurde, in fondo perfino banali e senz’altro orride? Bastano la musica, le melodie suadenti, l’energia ritmica, lo slancio retorico e quant’altro a spiegarlo? Diciamo la verità: oggi un caso come quello del Conte di Luna, fuori dalla finzione, darebbe vita a un processo per stupro e omicidio volontario di cui si parlerebbe per mesi in televisione e che diventerebbe poi un film; il mistero del bambino scomparso di cui narra Ferrando all’inizio dell’opera andrebbe pari pari a Chi l’ha visto. È lecito dimenticare queste cose quando si va al Trovatore, non averne coscienza? Basta dire che la musica è tanto bella, che il dramma avvince e noi ci commuoviamo? Sì, tutto questo è vero: ma nel senso che noi evadiamo dalla nostra realtà per entrare in un altro mondo, nel luogo di un altrove. E allora, dal momento che abbiamo perduto l’immediatezza, dobbiamo cercare, se vogliamo, di capire perché questo mondo ci avvinca ancora oggi, perché lo troviamo bello: indagare la sua “”seconda natura””. E fino a quando continuerà a interessarci, se non lo apprendiamo? L’opera del Settecento ci è già in larga misura estranea: non lo sarà presto, per chi verrà dopo di noi, anche quella dell’Ottocento?

Naturalmente la vera domanda era invece un’altra: che cosa fa del Trovatore un capolavoro? Rinunciando ad accontentarsi di presentarlo così com’è, come ancora spesso si fa ed appare bellissimo, Sinopoli e Ronconi lo hanno trattato come fanno gli archeologi di fronte a un reperto del passato: lo hanno osservato a fondo catalogando un valore, un significato. Anzi, molti valori, molti significati. È lecito questo atteggiamento? Anche qui occorre sgombrare il campo dagli equivoci: per capire un’opera che appartiene al passato è necessario riannodare i nessi che ne costituiscono il significato. Ci sono ancora interpreti, Muti per esempio, nei quali questo lavoro di scavo si presenta alla fine miracolosamente realizzato nell’immediatezza di una “”prima natura””, come se davvero il cordone ombelicale che ci lega alla nostra tradizione operistica non si fosse mai spezzato. Ma sono casi, oggi, più unici che rari. Abbado è riuscito a fare qualcosa di stupefacente con Rossini, cogliendone la vertigine del gioco surreale in un’astrazione sublime. Sinopoli sceglie un’altra strada: quella del distacco, dell’obiettività, diciamo pure dell’analisi dei meccanismi e delle funzioni, della lucidità senza emozione. Il lavoro di cesello sui particolari, per esempio, mira a concentrare nella singola scheggia il riflesso prezioso dell’insieme. Che le strette e le cabalette trattenute nel loro slancio e nella loro vitalità possano risultare, quasi a contrario, piene di tensione, Sinopoli lo dimostra non solo concettualmente. Ora, che questo avvenga come se si trattasse di un reperto di cui cogliere il senso può sembrare una limitazione, ma non lo è se da quel reperto si trae un significato che ci emoziona (l’emozione può essere il risultato di una riflessione).

Per Ronconi Il Trovatore (vedi il riquadro qui accanto) è un teorema delle passioni allo stato puro, una matematica dei sentimenti impossibili o sbagliati. Ciò che lega i personaggi fra loro è un filo indissolubile di contrasti insanabili e di pulsioni interiori che li spezzano in due. E quando questo filo si scioglie, la catastrofe li accomuna nella morte: essi muoiono insieme per non aver saputo vivere né come individui né l’uno in rapporto all’altro (sulla scena Leonora muore sullo stesso letto dove giace Azucena, nella pietà di un cordoglio che è anche estrema riunificazione delle utopie; il Conte di Luna segue Manrico nel luogo del supplizio, e scompare nell’ombra fuori della scena; con ardita metafora il dentro e il fuori si rispecchiano in un unico destino di morte: i due fratelli sono vestiti allo stesso modo). Due idee stanno alla base della visione di Ronconi. La prima è la rappresentazione del melodramma, e del Trovatore in particolare, come un mondo irreale, di sogno, nel quale a sognare non siamo solo noi che vi assistiamo ma soprattutto i personaggi stessi. E proprio questa labilità delle passioni di fronte alla realtà segna il loro destino e genera il dissidio: allo spettatore è affidato il compito di rivivere il destino dei personaggi e di decantare il dissidio. Si capisce, finalmente, che Leonora non solo sia promessa al Conte ma forse lo ami, di un amore tutto terreno; l’apparizione di Manrico “”bruno le vesti ed il cimier, lo scudo bruno e di stemma ignudo, sconosciuto guerrier””, provoca in lei lo shock di un amore invece puramente ideale, un fulmine a ciel sereno che colpisce non tanto per un uomo quanto per un’idea dell’amore (forse addirittura letteraria, alla maniera della Tatiana dell’Onieghin). Questo trapasso psicologico è reso visibile da Ronconi quando, dopo la narrazione del suo fulmineo innamoramento fatta a Inez e la rievocazione lirica della cavatina “”Tacea la notte placida””, al risuonare della romanza di Manrico e poi alla sua apparizione, che la riporta dal sogno alla realtà, Leonora si getta nelle braccia del Conte, quasi a cercare protezione da un contrasto che già s’intuisce tragico. E il suo dramma sta tutto nell’inconciliabilità dei due sentimenti, o meglio nell’incapacità di trasferire su Manrico il sentimento che prova per il Conte, e viceversa. Ciò spiega il comportamento di Leonora nel seguito dell’opera, fino all’ultimo sacrificio con cui tenta invano di vincere la contraddizione. La sua risolutezza è dettata dall’ansia di liberarsi da ciò che l’opprime. In ogni istante Leonora vive l’amore per Manrico come pura utopia: “”sei tu dal ciel disceso, o in ciel son io conte””, comunque non siamo sulla terra. Cosa che Ronconi sottolinea facendo sì che Manrico si materializzi improvvisamente, in quel punto, da dietro un altare, come fosse davvero sceso dal cielo: lo stesso altare in cui, poco dopo, non si celebreranno nozze terrene. E che quell’altare sia poi addobbato di lumini, come fosse una tomba (la tomba dell’amore che non può realizzarsi), lascia già intuire l’esito funesto. Che si intuisce perché già è nei personaggi.

La seconda idea è far muovere costantemente i personaggi come nell’ombra, in ambienti oscuri, soffocanti, senza uscita. Unico elemento rischiarante è il fuoco, simbolo della passione e della purificazione. E la chiave di tutto sta in una recitazione bloccata, inerme, come di chi vorrebbe agire e non può. Sono i contrasti che si agitano nell’intimo dei personaggi a provocare questo blocco: forze opposte che si annullano, e costringono all’immobilità anche quando dentro brucia il fuoco di sentimenti laceranti. Azucena, che per Ronconi non è una vecchia strega ma una ancor giovane e seducente zingara, sente la sua sete di vendetta come una realizzazione, forse inconscia, del suo amore per Manrico: che non ne sia la vera madre, e possa avere per lui una passione, qui è evidente (perfino il calcolo della differenza d’anni come risulta dal libretto lo consentirebbe). E Manrico, a sua volta, ha con lei un rapporto ambiguo, contrastante, lasciando intuire un legame quasi fisico che vorrebbe, ma non può, trasferire più naturalmente su Leonora. Non fosse per la ribalda forzatura di Brendel, anche il Conte di Luna manifesterebbe uno spessore tragico tutt’ altro che spregevole, se è vero che la sua gelosia è soprattutto ansia inappagata d’amore. Che cosa si agita nell’inconscio di questi personaggi? E lì, nei sentimenti più profondi che sembrano poter venire alla luce solo sotto forma di menzogna, illusione, finzione, la spiegazione di tutto: anche del fatto che l’unica via d’uscita da una paralisi quasi totale dei movimenti è data da scatti improvvisi e violenti, da velleitarie accensioni, da rapide quanto inutili decisioni, regolarmente nefaste. Cosa che fra l’altro spiega perché “”Di quella pira”” sia un atto liberatorio che coinvolge nel suo irresistibile effetto drammatico tanto i personaggi sulla scena quanto il pubblico. Gesto epico che appartiene da sempre all’immaginario melodrammatico.

I famosi cipressi ronconiani che si ergono come fantasmi sullo sfondo non sono solo un autocompiacimento estetico, ma l’emblema luttuoso di un quadro che incornicia l’opera come se noi la rivedessimo da lontano, a cose già avvenute. In questo senso la distanza che si crea fra noi e lo spettacolo ci aiuta a metterne a fuoco l’immagine, e a riappropriarci delle sue figure, della sua dinamica sottratta al passare del tempo per divenire memoria e coscienza, riconquista di una verità. Quel che ci è stato proposto non è solo una realizzazione del Trovatore. E una lettura in controluce della nostra perduta ingenuità nei confronti del melodramma.


Musica Viva, n.4 – anno XVI

Articoli