Un compositore che parla non soltanto alla mente ma anche al cuore
L’appellativo, di “Seconda Scuola Viennese”” comunemente adottato per la cerchia che fa capo a Schönberg, il Maestro, estendendosi ai suoi due più eminenti allievi, Alban Berg e Anton Webern, ha la pretesa di definire non soltanto un luogo geografico e culturale ma anche una linea di continuità all’interno della produzione musicale novecentesca. Inevitabilmente esso finisce per stabilire un parallelo con i musicisti della scuola viennese classica fiorita circa un secolo avanti, ossia con la triade formata da Haydn, Mozart e Beethoven.
Ma in che senso è possibile intendere questo parallelo, posto che esso non abbia semplice valore storicistico?
Se, per pura ipotesi, volessimo trovare dei punti di contatto fra le singole figure che costituiscono le due triadi, quasi a volerla concatenare per mezzo delle note comuni, a Schönberg dovremmo far corrispondere Haydn, a Webern Mozart: nei primi due è simile il ruolo di seminatori di terreni inesplorati che avrebbero dato frutti copiosi verso la creazione di un nuovo stile musicale (Haydn riduce le levigate raffinatezze delle galanterie settecentesche alla misura organica di una matura classicità, così come Schönberg distilla dal sentimentalismo romantico un ordine linguistico ed espressivo più controllato ed autonomo); ad accomunare i secondi due è invece l’astrazione di questi stessi principi in funzione di valori tanto individuali quanto assoluti, che si riflettono nella tagliente asciuttezza, concisione e inesorabilità di creazioni risolte automaticamente in adeguata perfezione.
A tentare il paragone tra le note mancanti delle due triadi, ossia tra Berg e Beethoven, la dissonanza a prima vista sembra molto più marcata. A ben guardare, però, volendo continuare il nostro ipotetico giuoco, è possibile individuare alcune corrispondenze che aiutano forse a comprendere la posizione storica di Berg nell’ambito della “nuova scuola”” e del suo tempo.
Non si allude soltanto a riferimenti ideali, o anche compositivamente assai precisabili, alle più folgoranti intuizioni dell’ultimo Beethoven (la Lyrische Suite, per esempio, è una sconvolta appendice agli ultimi Quartetti del Titano, sotto forma di trasognata meditazione e contemplazione), bensì a un atteggiamento più generale nei confronti della musica, sia come espressione di una urgenza interiore che fatica a incanalarsi negli argini precostituiti, sia come tensione verso un’identità formale che sfugge nel momento stesso in cui viene intravista e sottratta allo scorrere del tempo.
L’ossessione quasi maniacale verso il problema della forma che caratterizza Berg nelle sue opere mature, a partire dalla fine dell’apprendistato con Schönberg, reca evidenti tracce dell’eredità beethoveniana. Ciò va inteso, come è del resto ovvio, nella diversità delle rispettive situazioni storiche e ambientali; le quali però presentano per molti versi corrispondenze simmetriche. Il superamento delle convenzioni linguistiche e formali e ancor più delle barriere fra i generi quale si riscontra nelle opere del tardo stile beethoveniano rivive sotto nuova e più problematica luce nella produzione novecentesca di Berg: esso è anzi il centro della creazione compositiva di Berg.
Questo centro si irradia verso direzioni molteplici tendenti a dare al problema della forma una risposta totalizzante e onnicomprensiva: Berg ingloba nelle sue opere, con una progressiva e ben calcolata espansione, tutte le forme possibili della tradizione musicale classica al fine di riconnetterne le fila ricostruendo l’identità stessa dell’atto creativo. Che questa identità si presenti come qualcosa di perduto, di confusamente lontano e in controluce, ma nello stesso tempo come un valore irrinunciabile, acuisce il senso tragico della nostalgia di Berg per la compiutezza organica, e diviene materia su cui esercitare la propria sensibilità e capacità espressiva.
Ora, questo modo di porsi criticamente e creativamente di fronte all’atto conrpositivo inteso come rivelazione di un mondo tanto individuale quanto universale discende direttamente da Beethoven ed è una conseguenza della svolta drastica da lui operata nel ben ordinato fluire di una solida coscienza delle convenzioni e dei limiti da rispettare.
La ricerca di una libertà formale più ampia perché fondata su una superiore consapevolezza di ciò che è necessario esprimere, nient’affatto aperta sul caos dell’informale ma semmai tendente a recuperare tutte le possibilità costruttive a disposizione del compositore e dunque anche gli stili storici preclassici, come fa Beethoven — caratterizza la personalità di Berg in senso beethoveniano: là sono le radici del suo immane sforzo di ricostituire l’immagine complessiva della musica, fondendo in uno passato e attuale.
L’uso continuo che Berg fa delle forme della musica strumentale nelle sue opere teatrali, sforzandosi di racchiudere scene intere negli argini della Forma-sonata, dello Scherzo, dell’Invenzione, della Variazione, è l’esatto corrispettivo, per così dire all’inverso, dell inclusione delle voci e del coro nella Nona Sinfonia: una restaurazione dell’identità della musica come storia e come essenza, che tiene conto anche delle virtualità beethoveniane progressivamente bruciate con radicale coerenza dal genio di Wagner nell’estetica e nella prassi del dramma musicale.
Se Lulu, stante l’affermazione di Berg stesso, non è altro che una rivisitazione al femminile dell’archetipo mitico di Don Giovanni, ma senza trasfigurazione finale, Wozzech rappresenta il capovolgimento in senso negativo e fortemente interiorizzato del Fidelio: al cammino verso la luce e la salvezza è subentrata la discesa senza remissione verso l’abisso della colpa e della distruzione, all’ideale utopico della libertà e della fratellanza universale l’obiettiva registrazione di una brutalità disumana.
Ma Berg, per quanto disperato e tragico possa apparire il suo assunto, non mira affatto a un nichilismo senza speranza. Alla cruda realtà di un dramma che rivela senza infingimenti la situazione angosciosa dell’uomo contemporaneo, egli oppone la capacità della musica di restituire non soltanto il pathos commosso della pietà ma anche la forza costruttiva di un ordine che dà forma e concretezza alla rappresentazione, elevandola a simbolo di un’alta, superiore coscienza morale. E lo sbocco lirico, quel canto spiegato che continuamente preme per venire alla luce nel fitto intrico delle voci del tessuto musicale, costituisce il momento di saldatura fra emozione espressiva e assetto formale.
Solo attraverso il processo di elaborazione formale Berg costruisce l’itinerario dei significati creativi della sua opera di compositore. La nostalgia della forma appare così lo specchio della sua più intima aspirazione: ridare alla musica un’immagine d’identità per mezzo di strutture architettoniche dotate di plastica autonomia. Ed è una nostalgia che, anche quando si tinge di malinconia e di rimpianto, non rinuncia mai a guardare in faccia con coraggio le cose da dire, a scandagliare i più riposti nascondigli dell’anima, ad esprimere solidarietà e calore per la vita dell’uomo e fede nella capacità liberatrice dell’arte.
Cogliere queste relazioni nella musica di Berg non è sempre agevole, ma equivale a scoprire un grande compositore che parla non soltanto alla mente ma anche al cuore: nei modi e nelle forme che all’arte del Novecento forse sono le uniche veramente consentite.
da “La Gazzetta di Parma”