Wolfgang Sawallisch sta per iniziare la sua ultima stagione come Music Director dell’Orchestra di Filadelfia. Considerato un conservatore, un custode della grande tradizione musicale europea, ha avuto modo di osservare dall’America un altro panorama: quali le differenze?
«Credo di aver vissuto nella mia carriera una serie di cambiamenti quali nessuna altra epoca ha presentato. Quando ho cominciato, nella provincia tedesca, subito dopo la guerra, la città, il teatro, la sala da concerti nei quali lavoravi e a cui eri legato da un rapporto pressoché esclusivo erano tutto il mondo: una famiglia allargata, dove si parlava e si coltivava la stessa lingua. In un certo senso anche nei miei vent’anni a Monaco, come direttore del teatro, era la stessa cosa: un repertorio consolidato, una compagnia stabile, uno stile di vita che dava l’accento personale a una tradizione. Monaco era Monaco in quanto si distingueva da ogni altro teatro. Poi le cose sono cambiate».
Da quando?
«Dall’inizio degli anni Ottanta. Diciamo che la critica, il pubblico, i media hanno cominciato a fare pressione perché Monaco si aprisse a esperienze più internazionali. Io stesso ho cercato di seguire questa richiesta, che a volte condividevo, altre no. Mi sono sforzato di capire».
Con quali conseguenze?
«Ho avuto la netta sensazione che un’epoca si fosse chiusa. E che ne cominciasse un’altra. Per mia scelta personale, ho deciso di non dirigere più opere ma solo concerti».
A Filadelfia.
«Sì, principalmente a Filadelfia. Qui la situazione era opposta: una lunga, tenacemente radicata vocazione internazionale, di tipo cosmopolita e multietnico, che voleva mantenere la propria identità. Con un orgoglio fortissimo di differenziarsi dalle altre orchestre».
È vero che oggi le orchestre tendono ad assomigliarsi?
«Sì e no. Ci sono orchestre che hanno raggiunto un livello standard internazionale, riferito alla perfezione dei dischi, e che oggi tecnicamente sono molto progredite, ma non hanno una spiccata personalità; e altre che desiderano invece preservare la loro tradizione, e dunque la loro personalità».
Che cosa fa la differenza?
«In primo luogo la scuola. Filadelfia, per esempio, coltiva i suoi ricambi, che provengono da ogni parte del mondo, attraverso una scuola preparatoria nella quale insegnano i musicisti stessi dell’orchestra, e che tramanda di generazione in generazione il “suono” tipico di quest’orchestra, che si deve all’impronta datale da Leopold Stokowski. È davvero un suono inconfondibile. Lo stesso accade con i Wiener Philharmoniker, che hanno anche una tradizione, storica e una sala unica al mondo. Altre orchestre possono rispecchiare con un lungo lavoro la personalità del loro direttore, come per esempio i Berliner prima con Furtwängler e poi con Karajan. Ma oggi non sono molti i direttori disposti a fare questo tipo di lavoro. Anche perché sono le orchestre stesse a non volerlo. I meccanici di una volta sono stati sostituiti dai piloti, e ognuno vuole correre, magari una corsa, con i piloti ritenuti migliori. Ai miei tempi si diventava piloti solo dopo essere stati a lungo meccanici: Kapellmeister, come lei sa, era quasi un diminutivo».
In questi anni, che cosa è cambiato nelle tournées?
«Oggi si fanno molte più tournées, perché la fama di un’orchestra e di un direttore dipendono dalla risonanza internazionale. Sono momenti di verifica, di affermazione, di prestigio, non di scoperta o di ricerca. Magari di confronto. Nelle mie prime tournées in Giappone o in Sud America, trent’anni fa, il pubblico veniva ad ascoltare le musiche, che per loro rappresentavano spesso una novità assoluta: anche Mozart. Trasmettevamo semplicemente un messaggio. Oggi, invece, il pubblico conosce dai dischi tutte le musiche che vuole in ogni tipo di interpretazione: e viene anche per fare un confronto. Le orchestre, i direttori, lo sanno e debbono stare al gioco».
Le piace questo gioco?
«Lo trovo stimolante. A me interessa fare bene la musica, ma in questi casi si crea una specie di complicità con l’orchestra , si stabilisce una doppia verità, per noi e per il pubblico. Noi sappiamo se siamo stati bravi. Serve a crescere».
Che cosa significa per Lei globalizzazione?
«Questa parola in tedesco non esiste. Mi sono familiarizzato e nutro rispetto, talvolta ammirazione per altre culture. Non credo che si possano tagliare le proprie radici, ma neppure imporle. In America ho trovato spirito di competizione, non voglia di omologazione».