Francesco Siciliani è stato non soltanto il più grande organizzatore musicale italiano del dopoguerra, a suo modo erede della tradizione impresariale ottocentesca, ma anche una personalità di assoluto spicco e di rilievo mondiale (Siciliani è morto il 18/12/1996). Si deve a lui gran parte dell’opera di sprovincializzazione della nostra cultura a partire dagli anni Cinquanta, sotto il profilo sia del repertorio – tanto di quello di un patrimonio storico dimenticato quanto di quello contemporaneo – sia della scoperta degli interpreti più adatti a farlo rivivere: dove il nome di Maria Callas è solo la gemma di una fulgida corona.
Il segreto di Siciliani era di essere egli stesso in primo luogo un artista in potenza: vuoi per talento, vuoi per formazione e studio. Avrebbe potuto essere un pianista o un compositore se la curiosità intellettuale, di forte impronta umanistica, non lo avesse spinto a non precludersi il piacere della scoperta al di fuori di una sola specializzazione professionale. Amava gli artisti, per i quali aveva un fiuto particolare, pressoché infallibile; ma sotto sotto sapeva coglierne con ironia i lati meno gradevoli, quel misto di infantile e di megalomane che è proprio dell’interprete musicale. Li ammirava e insieme li guardava con sospetto. Soprattutto, sapeva manovrarli come nessuno.
Aveva elevato a sistema, fino a farsi un nome proverbiale, il principio della sospensione: non dire mai né di sì né di no. Naturalmente sapeva benissimo fare le sue scelte e influenzarne i risultati, ma in modo che la decisione sembrasse sofferta, incerta proprio per la sua importanza, da ultimo fatale. D’altra parte sapeva convincere come pochi della bontà dei propri consigli, correndone fino in fondo il rischio, salvo ritirarsi in disparte qualunque ne fosse l’esito: che era sovente splendidissimo, e che lui dimenticava subito per passare al successivo. Uno stratega così fine, con una psicologia alquanto complicata, alla cui radice vi era una componente cattolica fortissima e inquieta, era però anche capace di passioni inesauste, di implacabili fedeltà a un’idea o a un autore; allora Siciliani diventava una sorta di missionario a cui l’altrui convincimento non bastava mai, giacché c’era sempre qualcos’altro da aggiungere per approfondirlo e rafforzarlo.
Vedeva le cose della musica a trecentosessanta gradi, senza preclusioni: fu uno dei precursori del restauro stilisticamente corretto di capolavori del passato (per esempio negli anni gloriosi della sua direzione del Maggio Musicale Fiorentino) e nello stesso tempo avallò operazioni di tutt’altro segno, quando servissero, in altre condizioni, a gettare almeno il primo seme di un riconoscimento (un caso su tutti: i primi Ugonotti della Scala, orrendamente tagliati ma con una compagnia di canto mai più udita né udibile). Non per niente dette il meglio di sé quando fu a capo dei massimi teatri italiani, prolungando quell’esperienza teatrale, che più rispecchiava la sua natura insieme aristocratica e popolare, nell’invenzione delle esecuzioni in forma di concerto durante le stagioni pubbliche della Rai: dove per primo affermò prassi esecutive oggi del tutto normali. Il suo sostegno alla musica contemporanea italiana fu caloroso: anche qui, benché sapesse benissimo distinguere, non disdegnò di sostenere qualche causa persa, impartendo la sua ecumenica benedizione anche a chi sarebbe stato presto travolto dall’impietosa falce della storia. Molte di più, però, furono le cause fortissimamente volute e vinte.
Il fascino dell’uomo nasceva dalle multiformi facce del suo ingegno e del suo sapere, ma aveva anche qualcosa di misterioso, di speciale. Dovunque e con chiunque fosse, sapeva attirare su di sé l’attenzione senza mai farsi platealmente notare, come un burattinaio che silenziosamente e nascostamente regga i fili di un mondo ora comicamente folle ora tragicamente serio: personaggio carismatico d’altra epoca e d’alto rango, di una cultura e di un’umanità scomparse.