Quello di una pianista che non suona più da sola in recital da tempo immemorabile e che continua tuttavia a essere un mito è un caso alquanto singolare. Stiamo parlando di Martha Argerich, la gran señora della musica, una delle personalità più intrigano e ineffabili che sia dato incontrare. Impossibile intervistarla: «Un’intervista? E per dire che cosa? Amo suonare il pianoforte. Ma non mi piace essere una pianista. Davvero non voglio esserlo, anche se è la sola cosa che più o meno so fare», dice. Parrebbe un ragionamento complicato, e invece non lo è. Anche perché tutto quello che Martha (così la chiaman tutti) là e dice ha la naturalezza della semplicità. Ma mai della banalità. La prima cosa che sembra stupirla è di essere al centro dell’attenzione, anche se è ben consapevole di avere un appeal fuori del comune, da sempre.
Un fascino incomparabile, di donna e artista al tempo stesso. Ma tutto quello che è stato costruito intorno al suo personaggio pare non riguardarla, e non interessarle affatto. Per esempio, la fama di essere una pianista che non sai mai se suonerà, una specie di detentrice dei record delle cancellazioni e delle rinunce all’ultimo minuto, come il suo grande maestro Arturo Benedetti Michelangeli. Bizzarria o che altro? Ma anche di questo Martha non sembra rendersi conto. «Non ho mai obbligato nessuno a invitarmi. Non ho mai disdetto un impegno per la semplice ragione che non firmo mai contratti. E quindi non mi sento costretta a suonare se non me la sento. È semplice, no?». In realtà non è così semplice. Il mito non sarebbe tale se non sottintendesse qualche mistero, di quelli che invitano a elucubrare. Martha è un personaggio complesso, una sorta di scatola cinese che a ogni apertura rivela una sorpresa: apparentemente forte, energica, tutta d’un pezzo, nasconde timidezze, insicurezze, nevrosi e contraddizioni che la rendono inesplicabile. Un misto di leggerezza e gravità insondabile, molto attraente, allo stato naturale, tutt’altro che artefatto.
BRAVISSIMA DA SUBITO. Forse proprio per questo una delle carriere più folgoranti che si ricordino (vincitrice a sedici anni del concorso di Ginevra e del Busoni a Bolzano, a ventiquattro del leggendario Chopin di Varsavia) si è venuta sviluppando per successive sospensioni e arresti. Conseguenza, le une e gli altri, non soltanto di un’idea della musica che evidentemente non si esauriva neí trionfi del successo, ma anche di una concezione della vita che reclamava i suoi spazi e le sue libertà. L’equilibrio parve spezzarsi per richiedere più avanzate motivazioni. Argerich, un nome che da solo riempiva le sale di tutto il mondo, dominava il mercato discografico e il jet-set della pubblicità, scomparve a poco a poco senza essere mai del tutto dimenticato, per riapparire poi in una nuova veste, quasi con umiltà e discrezione: frutto non di un conto, ma di un’intima necessità.
La decisione di rinunciare a esibirsi da solista (contraddizione in termini per un pianista) non fu mai annunciata, avvenne di fatto. Non più recital con gli autori che l’avevano resa famosa (Chopin, Schumann e Ravel su tutti), ma presenze limitate alla musica da camera, ai concerti con orchestra, e sempre ed esclusivamente con partner con cui si fosse instaurato, se non un connubio nella vita privata, almeno una stretta consonanza personale.
«Ho un grande bisogno di compagnia quando sono su un palcoscenico. Suonare da sola mi fa sentire isolata, esclusa, ed è una sensazione dura da sopportare. Forse dipende dal fatto che a Buenos Aires da bambina non sono mai andata a scuola, mi esercitavo da sola per ore e ore, senza giocare con i miei coetanei. E di questo ho sofferto molto nell’infanzia. Fare musica con altri mi risarcisce dì queste mancanze, mì dà un feeling speciale».
UN CLUB DI AMICI. Da queste esperienze è nata una specie di consorteria, di club esclusivo, del quale sono entrati a far parte nel corso del tempo artisti eccentrici e altrettanto estrosi come il violinista Gidon Kremer e il violoncellista Mischa Maisky, compagni di vita del pari un po’ nevrotici come il pianista Stephen Kovacevich e il compositore Alexander Rabinovitch, presenze rassicuranti come il pianista Nelson Freire e il direttore d’orchestra Charles Dutoit, suo ex marito. Tutte parti dell’esistenza di Martha stessa, quasi elementi vitali indispensabili al suo continuare a fare musica. Che trova proprio in questi giorni una specie di consacrazione ufficiale nel Progetto Martha Argerich, sorto a Lugano nell’ambito di Lugano Festival: per una settimana, dal 23 al 30 giugno, la Argerich suonerà tutti i giorni spaziando attraverso un repertorio vastissimo (con alcune prime esecuzioni mondiali) in compagnia di artisti rinomati (i fratelli CapKon, Nigel Kennedy, Dora Schwarzberg, Mikail Pletnev e Lilya Zilberstein, per citarne solo alcuni), presentando nel contempo una rassegna di giovani pianisti scelti da lei stessa. Un’iniziativa di eccezionale rilievo, di cui la Argerich è di nome e di fatto la protagonista assoluta. E c’è da credere che solo per sentirla suonare in tale concentrazione di eventi accorreranno in molti da ogni parte del mondo.
Si direbbe dunque che la Argerich rifugga l’isolamento e la solitudine che sovente attanagliano il grande concertista e non senta il richiamo smisurato dell’ego che altrettanto spesso ne nutre le ambizioni. Eppure si conoscono pochi artisti che abbiano la sua personalità, il suo temperamento, il suo carisma: un insieme di brillantezza, comunicativa, eleganza, senso poetico, umorismo, freschezza, magnetismo, genialità. E, trasferite nelle misure dell’arte, civetteria e femminilità in grado supremo, unire a una bellezza proverbiale, zingaresca e selvaggia, miracolosamente rimasta intatta con il passare degli anni (61 appena compiuti, e tranquillamente dichiarati). Questa donna vulcanica e mercuriale che sembra fatta per farsi adorare disse una volta: «La mia vita è un casino, credo di non essere nata per l’amore. Ogni volta che ti danno il caviale, ti tolgono il pane». Le sue relazioni burrascose si sono sempre intrecciate con le vicende della vita artistica (tre figlie femmine da due compagni-artisti diversi), ma sono rimaste come avvolte in un alone di felicità impalpabile e riservata. Eppure afferma di non aver mai sentito attrazione per uomini con i quali non avesse una consanguineità artistica: protrattasi e sviluppatasi anche una volta finita la passione, come se quella fosse la realtà più vera di un destino. E scorgi un filo di amarezza, di fatalismo nelle confessioni di un essere in fondo fragile e indifeso: così va la vita, ed è difficile. Ma è della vita, più che dell’arte, che ama parlare nei rari momenti nei quali, in modo del tutto informale, si sbottona. Ancora sull’ossessione della solitudine: «Meglio male accompagnati che soli». Sulla carriera: «Non amo né le critiche né gli elogi». Sulle aspettative del pubblico: «Volete che suoni come un porcellino o come un cavallo pazzo?». Sul denaro: «Ne ho avuto pochissimo, poco e molto. Non è cambiato nulla». Sulla vita in generale: «Deve essermi mancata qualche prova per giungere a capirla». Sulla vecchiaia: «Mi piacerebbe diventare una vecchia piuttosto ridicola». E intravedi in questo inquieto manifestarsi del talento appeso a un filo e minacciato dal disordine una strana voglia di normalità.
SEMPRE SENZA BRIGLIE. La ragazza partita dall’Argentina alla conquista del mondo e rimasta sempre un po’ quella fanciulla senza briglie in crisi con se stessa e con la vita parla con entusiasmo, illuminandosi, degli incontri che l’hanno segnata artisticamente e umanamente. Anche se ormai appartengono al passato, e in molti casi sono legati a pensieri tristi, di persone scomparse. «Horowitz? La cosa migliore che sia mai arrivata al pianoforte». Ricorda Dino Ciani, morto prematuramente a trentatré anni, come «una persona di una sensibilità estrema, cristallina, che metteva quasi paura». Ma i suoi maestri, anzitutto, che cosa le hanno insegnato? «Qualcosa dì più importante che a suonare materialmente il pianoforte. Friedrich Guida era un artista che guardava oltre, un genio della curiosità e della ricerca, l’ho ammirato per questa sua insaziabile voglia di sperimentare, di scoprire il senso nascosto della musica. Da Arturo Benedetti Michelangeli avrò avuto sì e no quattro ore di lezione. Ma stando a lungo con lui ho imparato la musica del silenzio». C’è poi la fedeltà verso amici oscuri conosciuti qua e là per il mondo, ma rimasti nel suo cuore generoso, e quella per grandi artisti con i quali ogni nuovo incontro è una gioia. Come Abbado. «Claudio, come sta Claudio? E’ terribile quello che gli è accaduto. Ma ha dentro di sé una tale energia che supererà anche la malattia. Lui è fortissimo». Suoneranno insieme il Concerto per pianoforte e orchestra di Ravel, un loro cavallo di battaglia fin dai tempi della gioventù, il 29 agosto a Bolzano, per Bolzano Estate: un altro appuntamento da non perdere assolutamente.
Martha, come Abbado, ama circondarsi di giovani. Il numero di pianisti che chiedono di studiare con lei è ovviamente altissimo, e lei non sa dire di no: li riceve e li ascolta, soprattutto li illumina con la sua presenza. Ma neppure attorno a questa corte di ammiratori estasiati che la chiamano per nome e che pendono dalle sue labbra per carpire un segreto v’è traccia di affettazione: tutto avviene con spontaneità, e in mezzo a una buona dose di improvvisazione e di confusione. L’atmosfera è elettrizzante, ma non sapresti dire perché. Assoluta mancanza di metodo, di regole, di schemi, un pianoforte e via, succeda quel che deve succedere. Se la luce non si accende, è inutile continuare. Ma se la fiammella si agita, ecco che l’impulso si trasmette quasi violentemente e provoca una catena di reazioni inimmaginabili. La scintilla può scoccare da un nulla, e di lì allungarsi in una scia luminosa che accende il pezzo e trascina via con sé sulle ali della musica. A volte sembra che una carica di energia positiva si comunichi direttamente all’allievo, e l’allievo suoni come spinto da un fluido misterioso che proviene dal fatto che lei sia lì ad ascoltare. Momenti magici di un attimo fuggente: chissà se riusciranno poi a sedimentarsi in qualcosa di definitivo fuori da quelle condizioni.
SEMPLICEMENTE BELLA. Per Martha Argerich si sono usati gli epiteti più diversi: inafferrabile, indomabile, inaccessibile, impenetrabile, capricciosa, impossibile. Mai però una volta che qualcuno li abbia caricati di significati negativi: comunque si comporti, la signora resta sempre capita e amata, anche dal pubblico e dagli organizzatori. Il che è singolare in un mondo basato, come quello della musica, su interessi pressanti, attese fanatiche e calendari che non danno scampo. Se la Argerich annulla un concerto, è grave, ma per così dire giustificato: avrà avuto le sue buone ragioni, e sono ragioni che non si discutono, sono ragioni forti, incorruttibili. Non v’è ombra di calcolo quando succede, è nella natura imprevedibile delle cose. E non conta che in ballo ci siano cachet favolosi (è ben pagata, questo sì) e sale esaurite da mesi. Anche perché può accadere esattamente il contrario, ossia che accetti di programmare un concerto a poche settimane di distanza se ci sono le condizioni giuste e un amico, o un gruppo di amici, da aiutare o accontentare; in tal caso può suonare anche per compensi puramente simbolici, e nei luoghi più ignoti. Per il piacere di fare musica insieme, è chiaro, ma anche perché il concerto, quel concerto, rientra nella sfera più piena di un’intima convinzione: che possa essere un momento nel quale la vita acquista valore e dia una sensazione di felice complicità. Per quanto Martha Argerich sia lontanissima dal modello del pianista intellettuale, e sia semmai un caso sensazionale di emotività trascesa in consapevolezza intuitiva dello stile, c’è in tutti i suoi atti un ragionamento d’affetti che non è affidato alla casualità. E questo si percepisce anche quando suona, collegando fantasticamente il frammento alla totalità.
Cogliere il punto centrale cli questo mistero significa capire il fenomeno Martha Argerich. La bellezza che si sprigiona dalla sua figura, la tecnica favolosa di cui è in possesso, la naturalezza del suo fare musica, ispirato e scapricciato, sono soltanto la superficie di un’anima che non mette in mostra queste doti per farsene bella, ma le indirizza verso un senso poetico di precarietà e di fragilità intimamente vissuto e trasfigurato. Se compito dell’arte è fare domande senza dare risposte definitive, Martha fornisce risposte ad altre domande, all’infinito, determinando però quel momento magico nel quale una risposta esiste ed è bellissimo sentirsela dire compiutamente. Forse questo paradosso è possibile soltanto in un’arte per sua definizione riproduttiva come la musica, nella quale l’interprete è il tramite tra ciò che è fissato sulla carta una volta per tutte e ciò che viene ricreato ogni volta in modo diverso. Ma di questo paradosso Martha Argerich è la dimostrazione vivente. Un’incarnazione nella metafora artistica dell’«eterno femminino» che trae verso l’alto, o più semplicemente la pianista predestinata che non volle farsi regina, per rimanere una donna normale, ma non qualsiasi.
diario, a. VII, n. 24