La Scala si prepara al rito di Sant’Ambrogio con l’opera di Spontini che secondo la tradizione valse all’intraprendente composiotre il plauso dell’Imperatore francese e il trionfo alla prima ma che non ebbe una fortuna duratura. Scenografo e tenore dell’edizione 1954 rievocano i prestigiosi protagonisti di allora e la suggestione di un allestimento consegnato alla leggenda in una serata fastosa
Quando arrivò a Parigi nel gennaio 1803, Spontini si lasciava alle spalle una vita già avventurosa e inquieta, ma come compositore non poteva ancora contare su affermazioni importanti. Aveva allora poco piú di ventotto anni. Gliene sarebbero bastati appena quattro per conquistarsi con La Vestale un posto di assoluto rilievo nella capitale francese, e quindi nel mondo musicale europeo. Già nel maggio 1805 era stato nominato da Giuseppina Bonaparte «Compositore della Camera dell’Imperatrice», in grazia di una sagace intraprendenza piú che di insigni prove musicali: quasi tutte fin qui rivolte a teatri e generi minori, in voga sfarzosa nella Parigi del grande sogno napoleonico.
Decisivo fu l’incontro con Etienne de Jouy, librettista non eccelso ma figura di spicco della cultura accademica francese: fu lui a proporre a Spontini il soggetto de La Vestale. Composta, stando alle cronache, in soli tre mesi di lavoro e ultimata prima dell’estate del 1805, la nuova partitura venne sottoposta come di prammatica al giudizio della commissione dell’Accademia Imperiale di Musica, e in quella sede bocciata: non tanto, o non solo, per il suo stile inconsueto («troppe note»: come Gluck, come Mozart), quanto per una serie di intrighi invece del tutto consueti negli ambienti teatrali di ogni tempo e luogo, ma particolarmente in uso a Parigi. Lo «straniero» Spontini faceva paura, il suo astro era in ascesa: e la costellazione dei compositori e dei funzionari di palazzo si ribellava.
Si racconta che, per intercessione di Giuseppina, Napoleone in persona volesse rendersi conto del carattere dell’opera e se ne facesse eseguire i pezzi principali nel febbraio 1807. Di questo episodio, in realtà alquanto dubbio, una fonte riporta perfino la reazione entusiasta dell’Imperatore: «La vostra opera abbonda in motivi nuovi; la declamazione è vera e si accorda col sentimento musicale; ci sono delle belle arie, delle idee d’un effetto sicuro; un finale trascinante; vi assicuro che otterrete un gran successo e sarà meritato». Di chiunque fosse, si trattò di un giudizio illuminato, determinante. Le prove poterono finalmente iniziare e, pur fra reiterate interruzioni e complicazioni (nell’agosto 1807 un uragano danneggiò gli scenari già pronti in magazzino), avverarono la profezia: la prima rappresentazione, il 15 dicembre 1807 all’Académie Impériale de Musique, fu un trionfo, solennizzato dalla presenza dell’Imperatrice Giuseppina, alla quale erano stati dedicati il libretto e la partitura.
Spontini, che già durante le prove aveva ritoccato sensibilmente la musica, appoggiando Jouy perché venisse mantenuta la soluzione «lieta» con il gran ballo finale (della tragedia catarsi che a Wagner dispiaceva, ma che l’autore impose perfino, a Dresda) ne sorvegliò le fortune non solo a Parigi, dove La Vestale ebbe accoglienza duratura (il 4 gennaio 1830 vi toccò la duecentesima replica). In Italia, nella traduzione di Giovanni Schmidt, giunse per la prima volta 1’8 settembre 1811 al Teatro San Carlo di Napoli, protagonista Isabella Colbran. Ma già nel 1817 alla sua prima apparizione a Firenze, un critico accusò Spontini di «avere abbandonato le tracce dei nostri maestri e di aver voluto sostituire alla musica facile, toccante ed espressiva un freddo, spinoso e monotono calcolo di proporzioni armoniche». Era il primo sintomo di quel pregiudizio che avrebbe accompagnato La Vestale per oltre un secolo e mezzo, in Italia come in Francia e in Germania; dove neppure la reverenza di Wagner bastò a farla sopravvivere. Curioso destino di un’opera salutata all’inizio dal consenso popolare, esaltata dai compositori piú aperti al nuovo (come Berlioz e Liszt), e poi retrocessa a rappresentare, nell’opinione corrente, un documento d’epoca (il gusto «Impero») o di uno stile non inteso (quello neoclassico). Ma se la battaglia fu perduta nel fluttuare delle mode, intatta rimase la sua vera sostanza musicale: un idealismo pervaso da slanci drammatici nei quali il pathos dei contrasti ha gli accenti piú nobili della classicità, le proporzioni dell’ordine estetico. Non solo un modo di essere e di sentire bensi anche di trasfigurarsi nella creazione, imponendole un’eloquenza piena, grandiosamente feconda.
da “”Il Giornale””