Niente più dell’opera incompiuta di Arnold Schoenberg Moses und Aron può rappresentare all’estremo la problematica del sacro nella musica del Novecento. Moses, dopo il drammatico colloquio con Aron nella quinta scena dell’atto secondo, sconfitto e abbandonato da colui che avrebbe dovuto render viva in immagine l’“idea”, vede con assoluta evidenza che l’immenso compito affidatogli da Dio non è stato risolto. Rimasto solo, prorompe in una delle più disperate invocazioni che la storia dell’opera ricordi: “Dunque mi sono fatto un’immagine, falsa come soltanto un’immagine può essere! Dunque sono sconfitto!… O Parola, Parola, tu, che mi manchi!”. L’evidenza della mancanza della parola nell’ultima invocazione di Moses esprime non già una generica impossibilità di cogliere e dar forma a un pensiero inesprimibile e irraffigurabile, bensì, molto più tragicamente, l’ambiguità e l’impotenza del linguaggio sia empirico sia ideologico (e dunque anche del linguaggio musicale nella sua totalità) a contatto con la realtà del mondo e degli uomini. Con la sua incomunicabilità e incompiutezza musicale (il testo del terzo atto, non musicato, scioglie il dilemma in modo affatto estrinseco), Moses und Aron è la rappresentazione più drammatica e paradigmatica dello scacco storico inferto dalla coscienza critica del Novecento al linguaggio e alla forma intesi come veicoli di definizione e di comunicazione, come mezzi totalizzanti di esperienze divenute ormai contraddittorie e inconciliabili. Questa lacerante crisi di identità, vissuta da Moses (e autobiograficamente da Schoenberg stesso) nel dissidio irrisolto fra purezza del pensiero e traduzione dell’idea in immagine e azione, è un tema grandioso, non soltanto religioso: rivelatore, traslatamente, di risonanze intrinseche all’arte tutta del Novecento.
L’urgenza della rappresentazione del sacro ne rimane tuttavia un elemento distintivo, che senza sciogliere il nodo gordiano si riaffaccia in sempre nuove incarnazioni. E proprio la sua presenza nell’opera contemporanea lo rivela significativamente. Si può notare come essa si impregni di spinte centrifughe rispetto alla tradizione eurocentrica nell’opera di musicisti di confine (come per esempio Arvo Pärt), o indulga verso il recupero di una sorta di purezza originaria, che è anche decantazione e purificazione del linguaggio verso una elementarità pregna però di sostanza. Nell’opera riassuntiva di Olivier Messiaen, Saint-François d’Assise, il senso del sacro viene trasmesso, e in parte rappresentato, da una rarefatta trascolorazione di impulsi puri (la scena centrale della predicazione agli uccelli, per esempio), nella quale il sacro viene per così dire inscenato non in un intreccio di situazioni drammatiche ma come una serie di eventi sonori risolti musicalmente con la riduzione alla pura essenza di timbri irrelati. Ed è da questo tipo di visione astratta che nasce la rappresentazione intuitiva del sacro. Essa si tinge in altri casi di connotati marcatamente spiritualistici e “primitivi” (vedi la compositrice finlandese Kaija Saariaho), per tornare a intrecciarsi con un linguaggio elementare (eventualmente “minimalista” nei compositori americani, ma in grado di affrontare anche temi universali come nell’epopea gandhiana Satyagraha di Philip Glass), non disdegnare il ricorso alle formule della musica popolare (intesa nella più vasta accezione anche di contaminazione dei linguaggi) e individuare l’espressione del sacro nella semplice rappresentazione di immagini evocative illuminanti (la recentissima opera di John Adams El Niño sulla natività, elaborata su richiami biblici, gospel e testi mistici spagnoli). Il ritorno a una semplicità originaria, primordiale (rispecchiato dalla riduzione del linguaggio a sua volta in elementi di immediata comprensibilità) è in una qualche misura la chiusura del cerchio aperto dalla concentrazione spasmodica delle complesse stratificazioni seriali di Schoenberg.
La sacralizzazione del mito moderno della “religione dell’arte” (la cosmogonica utopia dei Giorni in Karlheinz Stockhausen) e la laicizzazione del sacro (dove “sacro” non significa necessariamente più liturgico, ecclesiastico, religioso, ma semmai implica una nozione assai ampia di spirituale) sono le espressioni di un movimento pendolare che attraversa tutta l’arte del Novecento. Se ne possono trovare le premesse nell’abolizione di quella distinzione fra i generi che era rimasta in vigore fino alla fine dell’Ottocento, provenendo da radici lontane nel tempo. I grandi oratori dell’Ottocento, così pervasi dallo spirito dell’opera, segnano in un certo senso l’estremo limite delle possibilità concesse alla rappresentazione non drammatica del sacro. Il passo successivo sarà compiuto da Richard Wagner, la cui produzione si chiude simbolicamente (ma è già una simbologia al quadrato) con un’opera che mette in scena il sacro (in questo senso si tratta di una “sacra rappresentazione”) celebrandone l’epifania in una sorta di comunione mistica onnicomprensiva: Parsifal, naturalmente. Che è l’essenza stessa del sacro come valore e conquista di una totalità alfine ricostituita. Nell’immane percorso che separa la settima maggiore ascendente dissonante del Preludio dalla calma espansione dell’accordo perfetto di la bemolle maggiore alla fine, il “sacro”, da contenuto, diviene forma, si teatralizza in perfetta simbiosi di realtà e finzione, afferma se stesso come anima che pervade e unifica il mondo e la trascendenza: il “sacro” diventa così una qualità intrinseca alla musica stessa, che la rende capace di elevare lo spirito all’assoluto.