Due saggi del critico tedesco su Ludwig van Beethoven e la musica del XIX secolo
Carl Dahlhaus è stato quasi un mito per la musicologia degli anni Ottanta, tanto quanto Adorno nei Sessanta e gli strutturalisti in quelli Settanta. La sua fortuna si spiega col fatto che Dahlhaus ha rappresentato in modo sistematico l’esigenza della storiografia musicale di emanciparsi da influenze esterne per cercare i propri strumenti di lavoro solo in se stessa, senza tuttavia negarsi agli studi interdisciplinari. Da questo punto di vista il suo pensiero si differenzia sia da Adorno, che partiva da basi filosofiche e ideologiche, sia dagli strutturalisti, che trapiantavano in campo musicale i modelli dell’analisi letteraria. Con Dahlhaus, invece, la musicologia afferma il suo nuovo rango di scienza indipendente e moderna, con una forte personalità.
Non solo con lui, naturalmente. Ma lo studioso tedesco, erede di una tradizione sistematica che si opponeva alle tendenze oggettivamente analitiche della musicologia di scuola anglosassone, ha dato un contributo importante alla definizione di un metodo storico-critico che, pur fondandosi sul linguaggio specifico della musica, prendeva in esame tutti gli aspetti del fenomeno musicale in sé e in rapporto ai grandi temi della cultura. Nel teorizzare questo metodo, forse anche più importante dei risultati stessi, Dahlhaus individuava almeno tre punti di osservazione principali: la storia delle idee, ossia la ricostruzione di tutte le motivazioni estetiche e culturali connesse a una determinata creazione, la storia della ricezione e quella della composizione vera e propria: l’una tesa a collocare l’opera d’arte nell’orizzonte d’attesa della sua epoca, e non solo di questa, l’altra a spiegarne i processi linguistici, formali e da ultimo stilistici.
Le recenti traduzioni di due lavori capitali come La musica dell’Ottocento e Beethoven e il suo tempo – da noi uscite postume, dopo la morte dell’autore avvenuta nel 1989 – offrono molteplici spunti di riflessione sull’approccio di Dahlhaus alla storiografia musicale. In entrambi i casi l’inquadramento cronologico va inteso, per usare una sua espressione tipica, come «mera facciata». Per Dahlhaus l’indagine di un’epoca della storia della musica non si esaurisce nella trattazione dei fenomeni che si sono prodotti nell’arco di tempo preso in esame — la nozione di Ottocento in musica presuppone confini flessibili, che si possono estendere fino al 1914 – ma cerca soprattutto, com’egli scrive, di «delineare il sistema di collegamenti da cui nasce l’interdipendenza delle strutture e dei processi storici della composizione, di quelli sociali e della storia delle idee». Perciò Dahlhaus non procede seguendo un’evoluzione che a lui pare negata dai fatti stessi ma ricostruendo il mosaico di singoli problemi posti da una forma, un genere o una destinazione speciale della musica. E la ricomposizione dell’insieme si ha solo dopo che ogni singolo aspetto è stato analizzato e messo in relazione con elementi concomitanti di diversa origine e provenienza.
Né troppo diverso è il caso di Beethoven e il suo tempo, in assoluto il libro più importante e rappresentativo di Dahlhaus. Già nell’impatto metodologico. Nel primo capitolo – Opera e biografia – Dahlhaus disconosce il principio su cui si basano le monografie tradizionali: che cioè sia possibile trattare di un autore – e proprio Beethoven ne dovrebbe essere l’esempio probante – affrontando la materia nel suo complesso sulla traccia della classica suddivisione tra vita e opere.
In questo lavoro il discorso sul metodo non solo è continuamente presente ma s’intreccia anche con la presa in esame, in una analisi per così dire circolare, dei problemi fondamentali toccati da Beethoven, per dare all’espressione artistica elevata a modello di vita una risposta sempre più personale e contrastante con la sua epoca. E basta leggere alcuni altri capitoli – Individualità dell’opera e stile personale, Ingegno e genio, Forma quale concezione – per rendersi conto che la storia secondo Dahlhaus è manifestazione di temi particolari, anche ‘astratti, nella realtà più generale e condizionata dell’opera d’arte, e non semplice analisi di un corso rettilineo di opere ed eventi (il suo disprezzo per la consueta suddivisione della produzione di Beethoven in tre periodi distinti è totale).
Entrambe le traduzioni sono frutto di un lavoro molto accurato e paziente di Laura Dallapiccola, vera specialista nel rendere il pensiero di Dahlhaus e la sua scrittura sovente assai intricata e pesante. Di fatto, questi due libri sono pietre miliari nel cammino di rinnovamento del discorso musicologico, anche nei limiti di posizioni discutibili ed estreme.
Carl Dahlhaus, «La musica dell’Ottocento», La Nuova Italia, pp. 433, lire 45.000 – «Beethoven e il suo tempo», Edt, pp. 266, lire 38.000
da “”Il Giornale””