L’universo di Stockhausen
Le sette opere di Karlheinz Stockhausen ospitate dal 43° Maggio Musicale Fiorentino e distribuite nell’arco di due «Eventi teatrali» (Michaels Jugend e Sirius) e due «Incontri» comprendenti musica elettronica, vocale, strumentale, musica suonata e danzata, abbracciando un orizzonte assai esteso della sua produzione, offrono un quadro quanto mai completo ed esauriente della personalità di uno dei maggiori protagonisti della musica contemporanea. Si va infatti da un’opera giovanile (del 1956), ma assai importante storicamente come Gesang der Jünglinge (il primo frutto maturo uscito dal neonato studio per la musica elettronica di Colonia, in cui Stockhausen tentava per la prima volta di combinare i suoni elettronici prodotti dai generatori con un materiale pre-esistente, la voce di un fanciullo elaborata e modificata in studio), fino al recentissimo Michaels Jugend (1979), atto a sé stante della vastissima composizione intitolata Licht (Luce) che, summa delle sue ultime esperienze di «teatro totale», vedrà la luce, è proprio il caso di dirlo, l’anno venturo alla Scala. Fra questi due estremi: un’opera capitale dell’indagine sulle moderne risorse timbriche ed espressive del pianoforte (Klavierstück IX, 1954-61); ancora un ardito e fascinosissimo tentativo di piegare la musica elettronica a nuove soluzioni stilistiche e associazioni esistenziali (la «musica universale» di Telemusik, 1966); un’opera dello Stockhausen più esoterico e apparentemente naïf , in realtà ferreo creatore di processi formali a più dimensioni (Harlekin, 1975); e, infine, due composizioni, fra loro intimamente legate, dello Stockhausen mistico, teso a racchiudere nella musica i caratteri dei tipi umani e dei segni zodiacali (Tierkreis, 1975-76), e poeta-musicista dell’universo, che interroga le stelle per rendere con i suoni i simboli eterni di quell’armonia cosmica che tutto governa (Sirius, 1975-77).
Un fatto balza subito agli occhi: la vastità e la varietà, la fertilità e l’originalità degli interessi umani e compositivi di Stockhausen, senza riscontro in nessun altro musicista contemporaneo. Gli stessi aggettivi sopra usati (esoterico, naïf, mistico, e altri se ne potrebbero aggiungere), sono riduttivi, e rischiano di portare fuori strada, per almeno due motivi: anzitutto, Stockhausen è il musicista meno etichettabile e in un certo senso anche meno storicizzabile fra quanti hanno operato sulle macerie del linguaggio tradizionale, partendo dall’unico dato sicuro rappresentato dal serialismo, più o meno integrale, di Webern. Se si osserva a ritroso la sua ormai lunga carriera, ci accorgiamo che nel momento stesso in cui una fase si definiva (e Stockhausen stesso ha sovente celiato nel parlare di queste fasi: quella della musica seriale, della musica elettronica, della musica spaziale, della musica statistica, della musica aleatoria, della musica rituale, e così via), essa poteva dirsi superata, o comunque inserita in un più vasto e unitario processo di trasformazioni. In secondo luogo: Stockhausen è un musicista che come pochi incarna l’ansia di ricerca, di sperimentazione del nuovo, di superamento della crisi dei linguaggi passati o presenti, senza per questo rinunciare a sentirsi legato ai valori della tradizione. Ciò significa anzitutto: azione capillare sul linguaggio, sulla forma, sullo stile, sulle leggi della costruzione sonora, sulla necessità logica dei processi deduttivi e associativi, in un contesto che si è andato ampliando fino a comprendere, contrapposti o mediati, eventi sonori quanto mai eterogenei.
Stockhausen ha sempre condotto questa sua ricerca senza pregiudizi, senza preventive scelte o esclusioni di campo, inoltrandosi (sovente aprendo e dissodando) in ogni possibile terreno di applicazione: quello della musica elettronica, forse il più importante quanto a risultati, ma anche quelli della voce, degli strumenti antichi e moderni, ultimamente anche del teatro e della danza, giungendo così a prefigurare una sorta di azione drammatico-musicale (od opera d’arte totale) in cui ogni tipo di espressione concorra, potenziata, a svelare il mistero dell’uomo e dell’universo: in musica, del tempo e dello spazio. Michaels Jugend è un momento esemplare di questa odierna attività com-positiva di Stockhausen.
Quanto al rapporto con la tradizione, valgano per tutte queste parole bellissime tratte da un’intervista del 1968: «Per me, ‘tradizione’ non è ciò che viene ‘prima’: ‘tradizione’ è tutto ciò che mi raggiunge, che ha già una forma. Il mio compito è quello di osservare tutto questo su un piano più alto, come qualcosa che non si scompone in mille particolarità, ma che anzi conserva un’unità, che riguarda tutti gli uomini. Per me, il concetto di ‘umanità’ non è soltanto un veicolo: esso determina veramente la nostra odierna esperienza. E ciò si ripercuote immediatamente nella musica. Si avverte che la musica cerca di aprirsi sempre di più. La volontà di integrare è l’espressione di questa coscienza».
Integrare: rendere intero, compiuto. Non sorprende che un atteggiamento così chiaro e aperto abbia attirato su Stockhausen gli strali dei materialisti e dei profeti del negativo. «Stockhausen al servizio dell’imperialismo» è il titolo di un libercolo, pubblicato anche in italiano (mentre, guarda caso, ancora mancano da noi le traduzioni dei suoi quattro volumi di Testi e dei più seri saggi stranieri sulla musica contemporanea), in cui sono racchiuse tutte le tesi, alla moda, di socio-politica della musica. Le accuse di universalismo utopistico, interclassismo politico, fini colonialistici, pluralismo livellatore, individualismo e misticismo integralista (e si potrebbe continuare all’infinito) addirittura si sprecano; di fronte a tanta acrimonia barricadera, Stockhausen risponde con pacatezza e lucidità, senza mai perdere di vista le ragioni della musica: «Le esperienze dell’esplorazione del cosmo ci hanno oggi fortemente mutati. Ci accorgiamo che la nostra concezione monistica, che cioè la terra sia il centro della coscienza, è relativa. E molte persone pensano già, senza che per questo si debba supporre che si sbaglino, ad altri esseri nel cosmo, che si trovano a un altro stadio evolutivo. Anche prescindendo da come siano in realtà quelle esperienze, questa relatività si è radicata nella nostra coscienza. In arte essa si esprime nel fatto che si è meno interessati a scrivere una musica propria, cosa che è meno importante, e invece si tende a scrivere una musica che mostri la disposizione a creare un mondo musicale molto più aperto, in cui le diverse apparizioni pluralistiche possano trovare il loro posto in un mondo integrato. Oggi è diventato di estremo interesse comporre una polifonia di stili. Prima si è pensato a una polifonia di voci, o anche di piani armonici. Questa era una tecnica simbolica. Ma io adesso vedo la polifonia come una concezione qualitativamente più determinata: come polifonia di stili, di tempi, di spazi» (da una intervista del 1968, a proposito di Telemusik).
I1 periplo di Stockhausen, una natura di musicista nato e di vero compositore, fino all’ultima goccia di sangue, un puro prodotto della grande tradizione tedesca, è veramente, nel bene come nel male, l’immagine dell’artista contemporaneo. L’arte, che un tempo fu artigianato, oggi diventata industria, richiede non soltanto serietà e puntiglio, ma anche una rigida organizzazione e divisione del lavoro, conoscenza e sfruttamento di tutte le moderne tecniche di comunicazione. Per questo Stockhausen è creatore, interprete (a capo di una schiera di fedeli, parenti e amici, uniti dagli stessi ideali) e illustratore, critico della propria opera. Ma quel che più conta è che di fronte ai problemi della odierna ricerca musicale, egli non abbia mai cercato soluzioni in campi estranei; pur senza vedere nella musica un’arte assoluta, astratta e fine a se stessa. Perché il fine della musica è l’uomo, l’uomo sulla terra, l’uomo nell’universo.
Molte altre cose si potrebbero dire di lui, dei suoi umori, della sua così discussa immagine pubblica e privata; oppure, più seriamente, delle sue opere, dei suoi metodi di composizione, delle tappe della sua evoluzione, di certi centri ricorrenti (quale l’aspirazione a un teatro totale, simbolico e disciplinato) intorno a cui ruotano, come i soli e le lune e i pianeti, le scelte fondamentali di una attività febbrile e inesauribile, che teme solo (mostruoso, superbo egoismo) di dover essere interrotta da accidenti esterni: una malattia, un viaggio indesiderato, un’intrusione inattesa. Fatti che, a ben guardare, sono l’ulteriore riprova di una fede assoluta nel dovere e nel valore creativo dell’uomo come individuo proiettato nell’universo, di un umanesimo cosmico inteso come testimonianza di valori umani, da affidare all’amore per la musica (in ogni tempo e spazio) e per la vita. Non in un proclama, ma nel lavoro di tutti i giorni, nella coscienza di ciò che un tempo felice si chiamava una missione da compiere e che oggi, in un mondo disintegrato e senza più equilibrio, è diventato un compito gravoso, anche in musica: «Bisogna inventare ancora tanta forte musica nuova e dare ad essa più tempo e spazio per poterla accostare agli antichissimi fenomeni già esistenti, se si vuoi trovare un equilibrio fra il nuovo e il già fatto, o, diciamo, fra ciò che ci è sconosciuto e ciò che ci è più o meno noto. Equilibrare i diversi strati della coscienza, questo è il nostro compito, il nostro nuovo compito».
Karlheinz Stockhausen / Markus Stockhausen, Annette Meriweather, Suzanne Stephens, Boris Carmeli
Ente autonomo del Teatro Comunale di Firenze, 43° Maggio Musicale Fiorentino