Johannes Brahms – Sinfonia n. 3 in fa maggiore op. 90

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Nel 1883, l’anno in cui compone la Terza Sinfonia, Brahms è all’apice della fama e della maturità creativa: scomparso Wagner nel febbraio di quello stesso anno, egli è considerato unanimemente il maggior musicista tedesco vivente. Dalla sua parte sono schierati non soltanto gli estimatori di vecchia data, come l’ampia cerchia di Clara Schumann e quella di Hans Richter, Joseph Joachim e quant’altri, ma anche neofiti insospettabili come Hans von Bülow, il quale nel 1879 scriveva a un’amica, la contessa von Char, che «dopo Bach e Beethoven egli è il più eminente, il più grande dei compositori». Perfino la sciocca contesa con Anton Bruckner, il suo dirimpettaio viennese, fomentata da partiti avversi più che dalla volontà dei compositori, si è placata: il mondo sembra finalmente sorridere a Brahms, sí da addolcire la proverbiale ombrosità del suo carattere. La prima esecuzione della Terza Sinfonia, avvenuta a Vienna il 2 dicembre 1883 con i Filarmonici diretti da Hans Richter, fu un trionfo, una consacrazione che stupì lo stesso autore, da sempre diffidente verso i cori di osanna profumati d’incenso. Per lui la Terza aveva un solo difetto: quello di essere diventata, subito, «sfortunatamente troppo celebre». Frase tipica della sua ironia; questa volta però non scontrosa bensì permeata di un’intima, consapevole soddisfazione.

Frutto di un Brahms talmente contento di sé da canticchiare per strada, nel corso delle passeggiate quotidiane a Wiesbaden, dove la Sinfonia nacque tra l’estate e l’autunno dell’83, i temi del lavoro – fra i quali quel motivo di tre note, fa-la bemolle-fa, che l’apre ripetendo secondo la nomenclatura alfabetica tedesca (F-a-F) le iniziali del motto giovanile “”Frei aber Froh””, libero ma felice – la Terza apparve più matura e organica rispetto alle prove precedenti. Scavalcando un momento preziosamente anomalo com’era stata la Seconda, Brahms con essa sembrò esser tornato agli intenti che avevano determinato la fisionomia della Prima, salutata da Hans von Bülow come la «decima di Beethoven»; rifondendo però quanto in quella poteva esservi stato di sperimentale e di costruttivamente dimostrativo in una superiore, più personale sintesi formale e stilistica. Al rispetto anche esteriore per gli schemi classici si univano una disinvoltura, una sicurezza assoluta nella manipolazione sinfonica dei materiali tematici in tutte le loro potenzialità. Ciò dava piena logicità alla compresenza nelle strutture tradizionali di elementi eterogenei derivati dal patrimonio liederistico come dal corale protestante: attestati coerentemente in uno sviluppo che non era meno teso e consequenziale per essere frequentemente oscillante fra impennate e ristagni, sí da conferire organicità e reciproca corrispondenza a tutte le sottili vibrazioni affettive via via proposte da un itinerario espressivo che qui, più forse che in qualunque altra delle quattro Sinfonie di Brahms, si fa sismografo sensibilissimo della percezione musicale, diario intimo di mille esperienze impalpabilmente sfumate.

Per quanto sia difficile ricondurre a un’unica istanza espressiva un’opera tanto composita dal punto di vista delle cifre stilistiche ed emotive in essa armoniosamente e organicamente conviventi, la Terza Sinfonia si configura come una creazione musicale intrisa di tragico fatalismo, di pathos e di eroismo sublimati nelle categorie della musica assoluta: crogiolo dove si fondono, in continuo ed equilibrato ma inquieto divenire, le esigenze espressive più diverse, ciascuna simboleggiata via via da diverse proposte tematiche, e soprattutto dalle diverse connotazioni ritmiche, armoniche, timbriche conferite nel corso della composizione a quelle proposte tematiche. Le imponenti, drammatiche misure iniziali del primo movimento, Allegro con brio, avviano esplosivamente l’esposizione di un materiale motivico come sempre in Brahms straordinariamente denso e nutrito, strutturato in modo da influenzare profondamente ma non univocamente tutto il decorso del movimento. Se ne differenzia nettamente il secondo tema principale, tenero e cullante quanto il primo è appassionato nel suo poderoso ondeggiare: ma la relazione fra i due motivi è mantenuta più nei termini dell’analogia che del contrasto grazie alla presenza di numerose proposte secondarie, tutte collegate ad ambedue i temi da intime relazioni di struttura, e che tendono a evidenziare più i lati comuni che non gli elementi di diversità. E in questa maniera procede tutto l’intenso tessuto compositivo del primo tempo, serrato e compatto fino alla ricomparsa, dopo molti ritorni sospesi, dell’inciso iniziale nella chiusa, con accenti placati che assumono carattere e ruolo

rasserenanti.

Nell’Andante che segue, Brahms sembra dapprima indirizzarsi verso toni di contenuta partecipazione psicologica, con l’elegante lirismo di un tema tutto nordico, dalle movenze malinconicamente popolareggianti. Ma questo motivo incontra successivamente sottili modificazioni espressive, di pari passo con le manipolazioni formali determinate da un attento e approfondito uso della variazione, ancora una volta ricomponendo un orizzonte emotivo particolarmente ricco e complesso. Il ruolo di epicentro espressivo e psicologico, tradizionalmente assegnato, nella grande forma, al tempo lento, viene qui prolungato nel terzo tempo che, pur rispettando l’architettura formale dello Scherzo, stabilisce una compartecipazione con l’Andante nel creare un blocco di due movimenti dedicati alla riflessione lirico-elegiaca, e addirittura in questa direzione lo scavalca. Il tema che apre il Poco allegretto, in do minore, cantato dai violoncelli a mezza voce, è una gemma ineguagliata dell’invenzione melodica brahmsiana, fecondo tuttavia di sviluppi imprevedibili. Specialmente inatteso è l’episodio centrale del “”Trio””, che viene a interrompere l’incedere nostalgico e meditativo di questo terzo tempo con un andamento di danza stilizzata presago addirittura di Mahler. Il ritorno della sezione principale delimita la costruzione perfetta e armoniosa di questo movimento, tanto più generoso espressivamente quanto più la sua intensità lirica si cela dietro forme eleganti e concise, sfumate quasi pudicamente dall’impiego impercettibilmente variegato del timbro.

Aspirazioni epiche sembrano ritornare nell’avvio del Finale, Allegro: dalle nervose curve del primo tema al corale sommesso che lo segue da presso, alla cantabilità espansiva della terza idea, si propone in breve spazio un materiale motivico densissimo, che dà vita a sviluppi incessanti, nell’incalzare di spunti, variazioni, trasformazioni e intrecci. Un divenire che spesso si fa aspro, drammatico, sempre più finalizzato a un’esigenza costruttiva monumentale in grado di governare il corso degli eventi musicali in funzione di nuove elaborazioni compositive.

Alla risoluzione dei contrasti che nella forma sonata classica è scopo principale della conclusione si sostituisce qui quasi un trarre le conclusioni di un lungo dialogo a più voci, per sospenderlo da ultimo in assorta contemplazione: di cui è simbolo il ritorno del tema iniziale del primo movimento, nella dissolvenza delicatissima e solenne al tempo stesso della chiusa.


Christian Thielemann / Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Gestione autonoma dei concerti – Stagione sinfonica 1993-94

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