Johannes Brahms – Sestetto n. 2 in sol maggiore per archi op. 36

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Nel catalogo della musica da camera di Brahms, dominata dalla presenza del pianoforte, la produzione per archi soli occupa uno spazio importante, anche se non così cospicuo come accadeva ancora in Haydn, Mozart e Beethoven. Si tratta di sette opere in tutto, composte nell’arco di poco più di trent’anni, dal 1859 al 1890, e disposte secondo un ordine nient’affatto casuale né condizionato da sollecitazioni esterne, ma anzi tipicissimo del modus operandi di Brahms nella costanza del suo procedere per coppie di lavori dello stesso genere e organico. La serie è inaugurata da due Sestetti per due violini, due viole e due violoncelli, rispettivamente op. 18 e op. 36, in si bemolle maggiore e in sol maggiore; prosegue con i due Quartetti dell’op. 51, nati quasi contemporaneamente nel 1873, e si conclude, dopo un isolato terzo Quartetto (op. 67, del 1874-75), con un’altra coppia di Quintetti per due violini, due viole e violoncello, questa volta a maggiore distanza di tempo, op. 88 (1882) e op. 111 (1890). Ognuno di questi lavori pone e risolve, in sé e in rapporto al suo gemello, questioni formali e musicali strettamente connesse con l’organico scelto; e non è certo un caso che la più classica di queste fòrme, quella centrale del Quartetto per due violini, viola e violoncello, abbia avuto bisogno di un terzo fratello, quasi sintesi di una tesi e di un’antitesi che, per quanto non intese dialetticamente, erano implicite, e non solo per amor di simmetria, nella riflessione compositiva di Brahms, fin dall’inizio.

Al tempo della composizione del primo Sestetto, nel 1859, il musicista ventiseienne aveva al suo attivo soltanto poche pagine, scritte all’ombra di colui che lo aveva additato al mondo della musica come il nuovo, grande protagonista, Schumann: ma da quell’incontro folgorante erano nati soprattutto dubbi e complessi, facilmente attecchiti in un’indole tanto ipercritica verso se stessa quanto consapevole del proprio individuale valore. Un tentativo sinfonico fallito, poi trasformato nel Primo Concerto per pianoforte e orchestra op. 15, aveva rinviato a tempi più maturi l’approccio con la grande forma sinfonica, preparandone l’avvento con una serie di composizioni da camera e orchestrali (le due Serenate op. 11 e op. 16) che avevano il compito dichiarato di esplorare progressivamente il terreno della musica strumentale, sempre più dilatandone i confini. Si spiega così, in apertura di un primo lungo e nutrito gruppo di composizioni da camera, la scelta del sestetto formato dal raddoppiamento dei tre strumenti ad arco violino, viola e violoncello, un organico che, se non aveva alle spalle tradizioni pesanti (a parte Boccherini, l’unico compositore di una certa fama a pubblicare un’opera di questo tipo era stato Louis Spohr), offriva possibilità di combinazioni e di timbri assai ricche e impegnative: però concentrate e omogenee in un ambito ben precisato, all’interno del quale muoversi con libertà.

Il secondo Sestetto, scritto a Lichtenthal nei pressi di Baden-Baden tra il settembre 1864 e il maggio 1865, chiude questa fase di apprendistato e ne costituisce insieme il culmine, sfruttando anche l’esperienza fondamentale di due Quartetti e di un Quintetto con pianoforte nati nel frattempo e riverberandosi su quella invece fiammeggiante del particolarissimo Trio op. 40 per violino, corno e pianoforte; poi, dopo oltre cinque anni di quasi esclusiva frequentazione, Brahms avrebbe provvisoriamente abbandonato i generi della musica da camera per puntare decisamente verso la mèta suprema, ancora lontana ma non più

irraggiungibile, della Sinfonia.

Nel Sestetto op. 36 gli aspetti prettamente compositivi e per così dire chiaramente autocoscienti nei riguardi della creazione (da questo punto di vista si riscontra un deciso passo in avanti rispetto al primo Sestetto op. 18) s’intrecciano con riferimenti autobiografici legati alla vita sentimentale, intima di Brahms. Fu lui stesso a ricordare che nel Sestetto in sol maggiore si trova un’eco dello stato d’animo prodotto da un’infelice storia d’amore di alcuni anni prima, quando durante l’estate del 1858 trascorsa a Göttingen il giovane maestro si era invaghito di Agathe von Siebold, al punto da pensare perfino al matrimonio; fallita la relazione, inevitabilmente, era rimasto a lungo il rimpianto di quel tenero, delicato trasporto. Se ne trova traccia esplicita nel secondo tema del primo movimento, allorché il primo violino e la prima viola espongono a più riprese un motivo ben caratterizzato le cui note (la-sol-la-re/si-mi) non sono altro che la trascrizione nella notazione alfabetica tedesca del nome della fanciulla amata, A-G-A-D/H-E. Simili crittogrammi musicali erano stati una passione di Schumann e soprattutto di sua moglie Clara, che li prediligeva quant’altri mai: e chissà che Brahms, che Clara addirittura venerava, non abbia voluto sommare qui il ricordo di due amori impossibili, abbinandoli con sottile cinismo nel gioco delle trasposizioni e delle allusioni.

Riferimenti biografici a parte, proprio il primo movimento, Allegro non troppo, è una delle creazioni sonatistiche più grandiose del primo Brahms, segnata da già magistrale libertà di scrittura, sicuro ed elegante controllo dello stile, ricchezza nell’armonia e abbondanza di proposte melodiche spesso memorabili. Alla presentazione dei temi, costruiti su principi antitetici più beethoveniani che schumanniani (dinamicamente incisivo il primo, condotto sul moto ascendente e discendente di un accordo spezzato; distesamente lirico il secondo, esposto per la prima volta dal primo violoncello e subito ripreso dal primo violino, con la germinazione della sequenza indicata), segue uno sviluppo serrato con reiterate modulazioni, che suggerisce l’impressione di una vasta spaziosità armonica. Sorprendente, e non solo perché viene al secondo posto ribaltando l’ordine consueto, è lo Scherzo (Allegro non troppo), in tempo binario e nel modo minore: col suo tono arcaico e quasi malinconico (trattenuto anche nel tempo inusitatamente non veloce) esso si allontana dal genere convenzionale addensandosi di intenzioni contrappuntistiche, per lasciare solo nel Trio in maggiore ( Presto giocoso) libero sfogo a un’eccitata estroversione, di netta marca tzigana nei ritmi e nei colori. Collocato al terzo posto, l’Adagio è concepito, come nel primo Sestetto, in forma di tema con variazioni (cinque, più una coda) e nel relativo minore, con modulazione a mi maggiore nell’ultima variazione, definitivamente confermata nella enigmatica coda: la tecnica della elaborazione dei motivi, presupposto di quella “”variazione integrale”” in cui Brahms eccellerà nelle sue opere più tarde, è qui sviluppata al sommo grado, con dovizia di soluzioni severe e speciale timbratura espressiva, soprattutto quando l’eloquio si sposta, velandosi, verso il registro grave di viole e violoncelli.

Nel Finale (Poco allegro) Brahms combina la forma di rondò con elementi della forma-sonata, slanciandosi in un turbinio di brillanti proposte strumentali dichiaratamente virtuosistiche: solo adesso il primo violino (non si dimentichi che il dedicatario ideale di questo come dell’altro Sestetto era il grande violinista Joseph Joachim, loro primo esecutore) assume fino in fondo il ruolo di guida, riassestando quell’equilibrio sereno di soave dolcezza che in molti momenti la composizione sembrava aver abbandonato per scrutare gli orizzonti brumosi del dolore e della nostalgia.


Quartetto di Fiesole, Piero Farulli, Andrea Nannoni
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Gestione autonoma dei concerti – Stagione di musica da camera 1993-94

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