Il Concerto per violino di Sibelius
Nel periodo della sua formazione Jean Sibelius si era dedicato seriamente allo studio del violino, tanto che intorno ai vent’anni non aveva ancora rinunciato del tutto alla carriera di concertista, presentandosi in pubblico come componente del Quartetto d’archi del Conservatorio di Helsinki. L’abbandono definitivo dell’attività di solista in favore di quella di compositore non cancellò comunque mai la sua predilezione per questo strumento, il solo al quale significativamente dedicasse lavori di genere concertante: una diecina di brevi pagine in tutto, fra le quali spiccano le delicate e classicheggianti Humoresques op. 87 e 89, composte negli anni della prima guerra mondiale, e un unico pezzo di ampio respiro, appunto il Concerto in re minore op. 47.
Sibelius lo compose fra il 1903 e il 1904, sforzandosi di sintetizzarvi tutto quanto sapeva in fatto di tecnica violinistica e costellando la partitura di effetti mirabolanti. Il risultato fu quello di scoraggiare tutti gli esecutori interpellati, naturalmente dopo aver escluso l’eventualità di suonarlo lui stesso, essendo ormai fuori esercizio e incapace di sostenere il confronto con una simile ostentazione di difficoltà. Finalmente la sfida fu raccolta dal giovane violinista boemo Victor Novàcek, che tenne a battesimo il lavoro sotto la direzione dell’autore a Helsinki 1’8 febbraio 1904; ma vuoi per l’inesperienza dell’interprete, vuoi per gli squilibri del lavoro, l’accoglienza fu così fredda da spingere Sibelius a ritirare la partitura e a sottoporla a una drastica revisione. Al massiccio sfoltimento delle insidie tecniche riservate al solista, che peraltro rimasero notevoli anche nella stesura definitiva, si accompagnò lo sforzo di snellire il primo tempo e di potenziare la vena lirica e sentimentale, che nella versione originaria era rimasta soverchiata dall’esibizione di virtuosismo. In questa nuova forma alleggerita e addolcita il Concerto in re minore poté finalmente ottenere il successo sperato, anche grazie agli interpreti che si incaricarono di presentarlo in prima esecuzione a Berlino nel 1905, il violinista Karl Halir e sul podio niente meno che Richard Strauss. Da allora al
Concerto non sarebbero più mancati il favore del pubblico e l’attenzione dei maggiori violinisti, nonostante le ricorrenti riserve sollevate in sede critica sulla debolezza della sua struttura, sulla sua eccessiva inclinazione sentimentale, sull’anacronismo linguistico di una partitura ostinatamente e un po’ nostalgicamente rivolta al passato, incapace di inserirsi in quel processo di rinnovamento della forma concertistica che di lì a poco, per strade diverse, avrebbero intrapreso Prokof’ev e Šostakovič, Bartók e Stravinskij, Berg e Schönberg.
Il Concerto di Sibelius guarda dunque soprattutto ai grandi modelli ottocenteschi, a Mendelssohn, Brahms e Bruch per l’accentuata inclinazione lirica, a Dvoràk e a Cajkovskij per il carattere rapsodico dell’invenzione e per il virtuosismo della parte solistica. In questo senso si è soliti inscriverlo nella fase giovanile della carriera di Sibelius, quella dei Poemi sinfonici e delle
due prime Sinfonie, fase ancora condizionata dal romanticismo tedesco e anteriore alla svolta classicheggiante inaugurata nel 1907 dalla Terza Sinfonia. La suggestione di certe inflessioni popolaresche e soprattutto il colore paesaggistico evocato dagli interventi dell’orchestra sopravanzano di gran lunga l’impegno formale della costruzione architettonica. Nonostante il riferimento alle tradizionali strutture classiche (una forma-sonata con due temi per l’Allegro iniziale, una forma tripartita di canzone per il tenero Adagio centrale, un rondò per l’Allegro finale), il fascino del lavoro va dunque ricercato principalmente nel languore appassionato di un melodizzare tipicamente nordico e negli effetti suggeriti dalla elaboratissima scrittura violinistica, specialmente quando vi sia impegnato un interprete di grandi risorse tecniche, in grado di sfruttarne tutti gli inviti spettacolari.
Il primo movimento è introdotto da un nebuloso mormorio di violini con sordina, sul quale il solista attacca una melodia malinconica ed estrosamente rapsodica, subito riecheggiata e sviluppata dagli strumentini: questo inizio è di carattere atmosferico e fugacemente descrittivo. Il secondo tema, denso ed energico, è assegnato al colore scuro dei violoncelli e dei fagotti: esso verrà poi a intrecciarsi con il primo, nel corso di un’elaborazione di crescente complessità che darà modo al solista di mettere in luce (una luce peraltro soffusa, mai tagliente) il suo protagonismo, senza tuttavia prodursi in solitarie esibizioni cadenzali, ma rimanendo sempre entro un discorso organico collegato all’orchestra.
L’Adagio centrale è avviato da una piccola frase sospensiva dell’orchestra, simile a un sospiro, che prepara l’entrata del solista, il quale intona un canto d’intensa mestizia, effusivamente lirico. Lo sviluppo è affidato al dialogo concertante del solista con i vari strumenti dell’orchestra; dopo la ripresa, se possibile ancora più intrisa di dolore, il brano si estingue a poco a poco con un effetto di rarefatta dissolvenza.
Per netto contrasto, l’Allegro finale ha il carattere di una danza martellante e selvaggia, con un vigoroso tema principale introdotto dal solista. Vi si alternano passi di terze, arpeggi, suoni armonici ed elementi virtuosistici del consueto repertorio violinistico, abbinati a una vena popolare nella quale leggenda e natura sembrano darsi la mano. La conclusione ha il sapore di un’ascesa verso una sorta di trascendenza, con il violino che sale fino alle zone più acute della sua tessitura e l’orchestra che lo sostiene con accordi decisi, affilati.
Può essere utile riportare a mo’ di epigrafe quanto scrisse un grande contemporaneo di Sibelius, Ferruccio Busoni, in occasione del suo cinquantesimo compleanno: “”Sibelius si sviluppò velocemente e con sicurezza sul terreno dell’arte popolare finnica, un terreno che egli non abbandonò mai – se non per un periodo passeggero, in cui un’ondata cajkovskiana lo condusse in una via traversa. Ma superò questo influsso per tornare, purificato e più maturo, al terreno suo proprio e affermarvisi d’allora in poi. Sibelius si potrebbe chiamare uno Schubert finnico. La melodia del suo paese gli scorre dal cuore nella penna. Maestro della tecnica strumentale egli domina la forma e orchestra con naturalezza. E come persona sa avvincere e conquistarsi gli amici: è altrettanto intelligente che originale.
Fabio Luisi / Salvatore Accardo, Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Accademia Nazionale di Santa Cecilia – Stagione di musica sinfonica 2003-2004