Dalle dodici di venerdì 16 agosto 1996 Sergiu Celibidache riposa sottoterra in un piccolo cimitero di campagna della provincia francese, a Neuville-sur-Essonne. Il 7 settembre la stagione dei Münchner Philharmoniker si aprirà, per la prima volta dopo diciannove anni, senza di lui. La nera falciatrice ha assolto al suo compito nel modo migliore, con discrezione e in silenzio, nella quiete imbronciata di un’estate incerta. E come spesso accade per la morte di una persona cara ormai malata e sofferente, proviamo tristezza, ma anche sollievo. Doveva accadere, ed è accaduto. Da almeno dieci anni non perdevamo un concerto di Celibidache a Monaco, dove aveva creato a sua immagine e somiglianza un’orchestra umorale e sensibile, profonda e insieme tagliente, che pareva non avere l’uguale, per tecnica e sapere, quando la presenza del suo Generalmusikdirektor la spingeva non solo a eseguire, ma a capire, a dare un senso alla musica. Tra direttore, orchestra e pubblico si creava un corto circuito che azzerava ogni sistema di riferimento e rendeva ancor più vigile l’attenzione, nel momento stesso in cui introduceva in uno stato assai simile all’ipnosi, sovente prossimo all’estasi. Dopo averci completamente disarmati, stabilendo fin dal principio l’ampiezza del respiro generale, la dinamica dell’articolazione e degli accenti, Celibidache ci conduceva dolcemente dove voleva lui, dando però l’impressione che fossimo noi a volerlo, anzi a doverlo seguire. La proverbiale dilatazione dei tempi, cui corrispondeva una pari estensione degli spazi interni alla musica, non solo nel senso di una calibratura esattissima tra parti principali e secondarie, aveva lo scopo precipuo di consentire che alla percezione del fenomeno musicale nella sua immediatezza si collegasse la riflessione, alla tensione la distensione, in una rete di relazioni che solo alla fine mostrava la perfetta organicità del tutto. Dare tempo e spazio alla musica era il suo motto. Fummo noi ascoltatori, probabilmente ingannati dall’apparenza di questa grandezza ispirata e incapaci di trasmetterla una volta spentasi l’eco dell’emozione, ad ammantare la figura di Celibidache di un’aura sacerdotale, a ripetere con sussiego che nelle sue interpretazioni dei massimi autori si celebravano i sacri riti della memoria. Di tali sciocchezze era il primo a ridere, sarcasticamente. E se talora teneva bordone, con quell’ironia leggera che lo distingueva, o reagiva con violenza, come in tante interviste al vetriolo buttate là per scandalizzare gli ingenui o abbattere i miti, lo faceva unicamente per smascherare la vanità del pettegolezzo, l’inutilità delle parole sovrapposte all’arte, la vergogna del mercato e della sua spettacolarizzazione. Certo, detestava queste cose. Ma era anche disposto ad ammetterle se altri, nel suo mondo, non le avessero considerate valori, anziché banalità. Ecco perché Celibidache assumeva atteggiamenti provocatori e odiava le frenesie dell’apparire contemporaneo: sapeva di essere un sopravvissuto ma non si rassegnava a credere che verità, austerità e fedeltà, princìpi nei quali era cresciuto in naturale continuità con la tradizione, fossero beni da svendere al compromesso dei tempi nuovi. Ne divenne perciò custode, non solo idealmente; facendo della loro, della sua inattualità un motivo di orgoglio e una sfida verso la perfezione: tradotta in esemplari testimonianze di profondità e di bellezza sonora, capaci di commuovere con intatto stupore, di trafiggere l’intelligenza con precisione assoluta.
Nessuno può dire quale sarebbe stata la carriera di Celibidache se i Berliner, alla morte di Furtwängler, suo idolo e mentore, avessero scelto come successore lui e non invece Karajan. Quella scelta pesò sulla sua vita come un macigno e lo riconsegnò al destino di viandante che già la sua stessa indole e le sue origini zingaresche avevano prefigurato. Un viandante che dopo molte peregrinazioni e amori artistici tanto appassionati quanto fugaci trovò a Monaco, con la stabilità, un equilibrio maturo. Non però la pace. Quella non la trovò mai, Celibidache. O forse soltanto lontano dalla musica, che pure era la sua ragione di vita, nella solitudine e nella purezza del suono interiore, di cui volle donare a noi un segnale e un riflesso. Ed è lì che la morte l’ha colto.
L’abbiamo molto ammirato, ma soprattutto amato, anche quando non riuscivamo a seguirlo fino in fondo. Sorridente o severo, ci indicava una meta, lassù in alto. La nostra gratitudine l’accompagni per sempre.