Il nuovo Pollini incanta Firenze

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Trenta minuti di bis dopo un insolito recital con pagine di Webern, Berg e Schumann

Firenze – Che il secondo concerto di Maurizio Pollini al Maggio Musicale Fiorentino si sarebbe risolto in qualcosa di speciale, lo si è intuito durante e dopo l’esecuzione delle Variazioni op. 27 di Webern: dall’attenzione con la quale il pubblico le ha seguite e dall’entusiasmo con cui le ha accolte alla fine.

Pollini era riuscito a farle non solo capire ma anche amare, con esemplare naturalezza. Cosa davvero non semplice per opere di questo genere. A Salisburgo, l’estate scorsa, durante l’esecuzione di Stockhausen, aveva dovuto lottare quasi fisicamente per imporsi su un pubblico distratto e indifferente, e da ultimo si era scomposto. Naturalmente, dopo Beethoven, era venuto il trionfo. Ma Pollini quella sera non concesse bis, e neppure i suoi timidi sorrisi.

A Firenze ha suonato fuori programma per 30 minuti buoni, uno Studio di Debussy, lo Scherzo in si bemolle minore e due Studi di Chopin: vale a dire un altro mezzo programma:I veri artisti sanno giudicare, ed essere generosi.

Non c’è mai niente di casuale nelle scelte di Pollini. Ma il nuovo programma presentato a Firenze era folgorante, oltre che istruttivo. Vi si rispecchiava una costante dell’ultimo Pollini: accostare alcuni momenti particolarmente significativi del pianismo ottocentesco – in questo caso l’ultimo e il primo Schumann, in quest’ordine – con pezzi cruciali del Novecento, come la Sonata op. 1 di Berg, le Variazioni di Webern e i Tre movimenti da Petruska di Stravinskij; non solo per istituire possibili confronti e collegamenti, ma anche per illustrare tendenze in certo qual modo estreme nell’evoluzione della storia del pianoforte.

Ed è a questo scopo che all’ultimo Schumann – quello visionario e quasi aforistico dei Gesänge der Frühe op. 133 – veniva contrapposta in bruciante contrasto la giovanile Sonata in fa minore op. 14, nella versione in tre movimenti del 1835: lavoro travagliato e tumultuoso, intriso di malinconia e di cupo furore, di scrittura eccezionalmente densa e brillante, come è lo Schumann ossessionato dall’impeto della passione e insieme desideroso che si faccia nuovamente chiarezza nell’inquietudine della forma.

La grandezza quasi unica di Pollini interprete sta nella capacità di unire alla straordinaria lucidità analitica uno slancio che nasce dal cuore prima ancora che dall’intelletto.

Se una volta Pollini tendeva a spiegare i pezzi nella loro struttura interna, distinguendone gli elementi, ora ciò che lo muove è la volontà della sintesi, cioè riuscire a cogliere e a comunicare l’emozione che è contenuta nelle musiche che affronta, la ragione ultima e suprema delle cose.

Per questo, negli ultimi tempi, la sua ricerca si è concentrata sul suono, giungendo a risultati di una profonda e di una differenziazione stupefacenti.

Qui sembra che non basti più spiegare, ma occorra sprigionare l’essenza dell’espressione, dell’emozione: qualcosa fatto di tensione e di abbandoni, di cantabilità e di continua immersione nelle sfumature più diverse del suono e dei piani sonori.

Ora con ponderata gradualità, ora con bruschi contrasti.

Pollini suona la musica del nostro secolo con la stessa convinzione e chiarezza dei classici, e i classici come se si trattasse di autori moderni.

E così li rende entrambi attuali.

Astratti da condizionamenti storici e perfino da convenzionali pregiudizi stilistici, questi autori ci appaiono in tutta la loro integrità e individualità; singolarmente uniti però nel dare un’immagine compiuta di sé attraverso il pianoforte. E il pianoforte diviene non solo lo strumento per mezzo del quale si trasmettono queste immagini, ma la ragione stessa che rende possibili la ricreazione e la comprensione della musica.

Queste ragioni interiori di necessità, che nella Sonata di Berg sono per cosa dire più indicate che attuate, trovano piena realizzazione nellaconcisione astratta e rarefatta delle Variazioni di Webern, che Pollini suona come un distillato di tensioni espressive, quasi fossero un sublimato di emozioni. E poi immediatamente rovescia i rapporti nella vertigine coloristica, scintillante di virtuosismo e di estroversione, dei pezzi di Stravinskij, liberando la tecnica, fin dall’impressionante attacco della «Danza russa», in uno scatto perentorio, in un gesto di evidenza assoluta. Ma quasi non ci si accorge che Pollini è anche un pianista formidabile in senso specifico. Con lui siamo trasportati su un altro piano: e di lassù, da quell’incanto offerto con tante generosità e limpidezza, non vorremmo più scendere sulla terra.

da “”Il Giornale””

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