Il Novecento storico (2)

I

L’opera del ‘900 non racconta storie, ma medita sul significato che sta dietro ad esse. Le vicende a cui noi assistiamo sulla scena sono riflessi di uno specchio che moltiplica le immagini, non le fissa in un’unica visione, ma tende semmai a dilatarne i contorni e a far nascere una catena di immagini che a loro volta si sovrappongono e si stratificano. Questo naturalmente quando non puntano invece a delineare in forma simbolica un significato ideologico, cioè a servirsi del teatro per altri fini, didattici, didascalici e così via. Ne conseguono alcune cose. La prima, per esempio, è che scompare a poco a poco la figura tradizionale del librettista di professione. Il librettista come creatore di un supporto in funzione della musica, che ad essa dia tracce predeterminate anche dal punto di vista formale, viene sostituito dal compositore stesso, che governa simultaneamente i piani dell’azione decidendo a quale degli elementi costitutivi dare la precedenza, e come poi combinarli. O da una figura di letterato che collabora a un progetto specifico che comunque (e questo è il punto fondamentale) non appartiene più a un genere. ma crea ogni volta le coordinate della singola opera. E si potrebbe quasi dire – l’abbiamo visto naturalmente giocando un po’ sulle contrapposizioni – che non esiste quasi un’opera che somigli ad un’altra. Ripeto, è ovvio che ogni opera è diversa dalle altre, ma quello che ora manca è il legame di un’opera all’altra all’interno di un genere riconoscibile. Si potrebbero fare alcune eccezioni, per esempio il rapporto di Strauss con Hofmannsthal, ma direi che proprio questo rapporto dimostra come il teatro di Strauss cambi prima di Hofmannsthal, durante e dopo: sono tre momenti che configurano proprio tre tappe diverse anche del modo in cui il compositore concepisce il teatro e del rapporto che in assenza o presenza di un personaggio di straordinaria cultura, di straordinaria sensibilità teatrale come Hofmannsthal, si viene a creare. Terzo punto: è però sul piano dranmaturgico che le novità sono più evidenti. Si rompe decisamente, proprio in questi anni, la continuità col passato e viene meno la nozione di un processo evolutivo continuo. Potremmo abbracciare in un unico arco il periodo che va da Monteverdi a Wagner. Ma dopo Wagner – dopo le conseguenze di Wagner su questa unità, naturalmente fatta eli differenze ma concepibile come una linea evolutiva continua – la continuità si spezza e, se si ricompone, lo fa secondo criteri diversi: siamo qui di fronte per la prima volta ad un atteggiamento critico verso il passato, a una reazione contro il romanticismo, il wagnerismo; a una frattura totale.

Ciò porta a che cosa? A un tipo di opera che cerca una nuova disposizione formale. Da questo punto di vista anche l’opera ininterrotta, con la sua continuità apparente. non è più basata su quel processo di intensificazione che porta ad un punto culminante, ma piuttosto, per esempio, sulla giustapposizione, cioè sul fatto che la continuità apparente è data da parti, da sezioni, pannelli (sono tutti termini che troveremo nelle opere di questo periodo) che si accostano l’uno all’altro.

E direi che questo filone si identifica col radicalismo, dove radicalismo significa tendere fino all’estremo gli elementi dalla tradizione immediatamente precedente e quindi aggiungere, senza però creare una sintesi, qualche cosa che poggia su ciò che precede e tenta, in una continuità soltanto apparente, di andare avanti. Questo radicalismo vede in un certo senso l’ieri, ciò che precede, come un’immagine angosciosa dell’oggi, cioè di ciò che adesso verrà, che seguirà.

Il filone che invece sì identifica con le avanguardie tende a spezzare ogni continuità anche sul piano della forma, fatta di elementi giustapposti e solo apparentemente ininterrotta. In questo campo un aspetto decisivo è il recupero delle forme chiuse antiche. Non si guarda più a ciò che immediatamente precede ma si fa un salto grosso modo di un intero secolo, 1’800; si guarda quindi all’altroieri. Anche questo è un modo di sottrarsi all’angoscia inventando un meccanico avvicendarsi di scene, ognuna in sé compiuta ma non integrata con le altre. E quindi un salto verso il passato per riappropriarsi del presente, in un certo modo quello che con Il cavaliere della rosa Strauss fa in modo, per la prima volta, anche concettualmente chiaro.

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Il Neoclassicismo, da questo punto di vista, non è affatto un ritorno a principi classici assunti come norma di bellezza, ma è una forma dell’avanguardia. Serve a negare tutta una serie di cose e quindi a costruirne, dopo averle cacciate via, delle nuove. E il Neoclassicismo mi pare che possa essere considerato, oggi, come un momento fortemente legato all’avanguardia; forse ancor più dell’Espressionismo, che appartiene invece, al filone radicale anche nel modo di porsi rispetto al passato.

E cos’è dunque che viene negata? L’opera come entità organica nei suoi tre elementi. La forma artificialmente chiusa, quella forma fatta di pezzi che hanno una loro compiutezza ma che non costituiscono una successione drammatica, serve appunto a negare la realtà dei diversi contenuti, la storia come un fatto che procede anche attraverso una intensificazione dell’azione, e quindi a distanziarci dalla storia stessa: intendendo come storia la vicenda, ciò che l’opera racconta.

Da questo punto di vista si potrebbe però anche dire che l’opera del ‘900 nega il significato, nega comunque l’importanza data alla vicenda che l’opera racconta proprio perché ha tuia coscienza profonda di ciò che il melodramma è stato nell’arco della sua storia. Quindi direi che per la prima volta il comporre opere, lo scrivere opere è anche qualche cosa che si confronta con il passato, riconoscendo nel passato delle strade chiuse. E ciò porta l’opera del ‘900, e in modo particolare quella degli anni di cui ci stiamo occupando, ad essere essenzialmente basata su metafore, su simboli.

Il simbolo, la metafora che domina di più è quella dell’assenza. Cioè l’assenza di una espressione naturale, realistica da un lato, e l’assenza della convenzione, cioè di qualche cosa di riconoscibile, di appartenente a un genere, dall’alta. Questo spiega perché l’opera del ‘900 non soltanto cerchi, ma sia obbligata a cercare una seconda natura. E ciò che essa propone, e credo sia questa la ragione per cui noi siamo obbligati ad ascoltarla in un modo diverso. L’opera del ‘900 si trova oggettivamente a dover percorrere l’ultimo tratto di una vita che, se noi la rapportiamo agli elementi di cui è composta, non è passibile di ulteriori sviluppi. Certe esperienze si sono fatte e sì sono sommate, andare avanti è impossibile, o quasi. Tornare indietro si può, recuperando l’opera del passato: ma con la consapevolezza di cosa significhi questa operazione: ciò che, per esempio, fa appunto Strauss ne Il cavaliere della rosa. E negli anni ’50 possiamo porre a termine di questo periodo proprio La carriera di un libertino di Stravinsky, dopo di che anche questa fase si esauisce. Si esaurisce esattamente un secolo dopo che Wagner aveva coniato il concetto di modernità scrivendo nel 1847, proprio nel momento in cui si attuava il passaggio al dramma musicale, al critico Eduard Hanslick, colui che maggiormente lo avrebbe attaccato per questa sua nuova idea di opera, qualcosa che potrebbe essere anche il commento a La carriera di un libertino come a Il cavaliere della rosa. Dice Wagner scrivendo ad Hanslick: «Non sottovalutate la forza della riflessione. L’opera d’arte prodotta senza consapevolezza appartiene a periodi ormai lontani dal nostro. L’opera d’arte non può essere prodotta che coscientemente».

Affermazione che è già il commento, ripeto, a ciò che l’opera sarebbe diventata nel ‘900. E direi che al termine di questo percorso si trova appunto quello che in modo né provocatorio né catastrofico ho definito «la fine dell’opera». Qualche cosa con la quale proprio noi dobbiamo fare i conti nel senso della riflessione di Wagner.

Dopo il periodo che abbiamo trattato oggi l’opera diventa un’altra cosa. E se noi cerchiamo dopo gli anni Cinquanta qualche cosa che appartenga a quello che l’opera è stata prima, e che il periodo fra le due guerre ha contributo definitivamente a rendere impossibile, semplicemente siamo noi dalla parte del torto: la colpa non è dei compositori o di coloro che ancora si occupano del teatro musicale.

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Ed ecco ancora la cornice che abbiamo individuato, Il cavaliere della rosa, col suo ritorno alla grazia e alla bellezza in seno alla musica moderna, è il primo esempio che potremmo quasi chiamare di «revisionismo». La prima volta che il compositore si pone consapevolmente di fronte a ciò che Wagner aveva detto in modo del tutte nuovo, cioè alla consapevolezza che scrivere un’opera non è più un fatte legato a una tradizione, ma un atto «nuovo», che impone una scelta. E non è un caso che in quest’opera mozartiana, come Strauss la definì, il tema fondamentale non è neanche una storia, non è una vicenda, ma la meditazione sul tempo, cioè su quel tempo che, come dice la Marescialla nel famoso monologo al termine del primo atto, è una cosa strana – sonderbar dice il tedesco –,che è strana, curiosa, e in un certo senso anche affascinante: una di quelle parole tedesche che contengono molti significati intraducibili L’interrogarsi sul fatto che il tempo è una cosa curiosa, un fatto strano. E’ evidente che qui non è il tempo dell’opera, cioè della vicenda, ma il tempo della vita rispecchiato nell’opera.

E ancora qui noi possiamo trovare di fronte a due strade che l’opera, proseguendo, imboccherà. Da un lato quella del tempo dilatato e sospeso alla cui riflessione Strauss si dedicherà per tutta la vita, giungendo prima al tempo reale moderno della commedia, con Intermezzo, poi al tempo mitico, quello delle opere che vanno da Elena egizia, alle ultime, fino all’annullamento della differenza tra realtà e mito. Nell’ultima opera da lui composta, Capriccio, il tempo è quello della vita, ma è visto al passato, e l’opera ha per oggetto se stessa.

Credo che questo sia assolutamente chiaro. All’opposto invece del tempo dilatato e sospeso, il tempo bruciato, assente, virtuale, dell’espressionismo. Cioè quel tempo che in realtà non esiste nemmeno, ma è volutamente spezzato e volutamente distrutto.

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E questo porta a un tema che il teatro dopo gli anni Cinquanta riprenderà in modo molto significativo, cioè il tentativo di voler sottrarsi allo spazio reale del teatro: qualche cosa che richiama, che rimanda a un’altra esperienza. E appunto vedendo questi due elementi come li ho configurati, noi possiamo rintracciare tutte le tendenze dominanti che si svolgono in questi 50 anni e che non costituiscono assolutamente più un genere, ma un agglomerato di generi, e spesso di «generi» tra virgolette: l’opera a pannelli, il mistero medievale, l’opera-oratorio, l’opera-balletto. l’opera-melologo (come Perséphone, che unisce recitazione, canto e danza), l’opera di marionette, l’opera didattica, l’opera di protesta, insomma l’opera con qualche cosa di aggiunto, che ha, ai due estremi, l’opera che ritorna al tempo sospeso, per esempio riallacciandosi alle forme chiuse, e l’opera che brucia il tempo e lo spazio inventando una combinazione dei tre elementi costitutivi, canto, testo e dramma, ogni volta diversa.

E, se volessimo generalizzare, è proprio l’abbandono della nozione di «genere» e la frantumazione degli elementi il connotato distintivo dell’opera fra le due guerre. Quindi l’opera come gioco e dichiarata finzione, o l’opera invece come impegno, che quindi rimanda a qualche cosa che va oltre la vicenda narrata e che ci obbliga a leggerla in senso traslato. Da un lato l’importanza delle maschere in funzione antipsicologica e antiromantica, e dall’altro invece l’opera che pone al centro l’artista, un dramma di ideali, un dramma di pensiero, o che addirittura giunge al dubbio e spesso si risolve nell’incompiutezza. Ciò che sì percepisce è quest’idea di «purificare» l’opera, di trovarvi dei valori nuovi. E non perché astrusamente i compositori abbiano voluto dissacrare tutto questo, ma perché oggettivamente era necessario sviluppare in altro senso, proprio per purificare l’opera, la ricerca e spingersi fino a porre sul tempo e sullo spazio dell’opera nuovi personaggi. nuovi argomenti, nuove aspirazioni, nuovi ideali. Sarebbe forse interessante stabilire se sia la ricerca proprio di nuove forme di teatro a far venire in primo piano i temi che i compositori scelgono da realizzare o, viceversa, se non siano questi temi, cioè l’urgere di qualche cosa di nuovo legato al cambiamento del mondo, della società, del rapporto dell’artista con se stesso e con gli altri, a far cercare nuove forme. Le due cose per me vanno insieme. Io credo che l’insegnamento intel-lettuale e spirituale che l’opera del ‘900 storico dà , credo che l’errore più grande che noi potremmo fare oggi, che i compositori possono fare oggi, sarebbe quello di negare l’importanza delle avanguardie e del radicalismo, cercando di tornare a una semplicità che non esiste più, e che in qualche modo abbiamo tradotto o per noi gli artisti hanno tradotto in una nuova complessità. Qualche cosa di ostico, che a volte rende difficile la nostra partecipazione, ma Wagner aveva previsto. Non è più il tempo dell’opera d’arte prodotta senza consapevolezza.

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Voglio concludere questo inquadramento dell’opera fra le due guerre con le parole di un compositore che poi in realtà chiude cronologicamente il periodo a me assegnato, esordendo nel teatro nel 1940 con Volo di notte, cioè Luigi Dallapiccola. Dallapiccola scrive, in Appunti sull’opera contemporanea:

 

«Si potrebbe dire, grosso modo, che nell’opera del secolo XIX e nelle sue propaggini dell’opera verista l’amore sia stato l’elemento vivificatore. Amore e conseguente gelosia, non di rado complicato da vicende politiche o da rivalità di famiglia. Amore, comunque, sempre in primo piano, è attraverso l’amore che i personaggi comunicavano tra di loro. Ma che cosa è avvenuto più tardi? I compositori che hanno sentito il bisogno di rinnovare l’opera sembrano quasi essersi messi d’accordo per eliminarne prima di tutto l’elemento amoroso che, per un buon secolo, aveva deliziato il pubblico di tutto il mondo. Il duetto d’amore tradizionale è scomparso. L’uomo senza amore si è trovato fatalmente solo, e quando l’uomo è solo la Sorge [altra parola tedesca che vuol dire più cose: il pensiero, la “”cura””, la preoccupazione, la pena; è il personaggio del Faust di Goethe, personaggio simbolico centrale del Faust di Goethe – la cura, mi pare venga tradotto in quel contesto] trova facilità a introdursi nel suo animo. Certo, ci sono ancora duetti, anche tra Wozzeck e Maria, ma i loro colloqui sembrano procedere su linee parallele. Un incontro, una comunicazione risulta impossibile. Verrebbe voglia di coniare la definizione di “”duetto d’odio””, di fronte alla terza scena dell’atto secondo di Wozzeck. La solitudine bruciante dell’uomo senza amore, questo dramma intimo, fa capolino anche laddove uno meno se lo aspetta».

Questa indicazione che Dallapiccola offre proprio per connotare l’opera del ‘900 significa non soltanto che alcuni temi come l’amore, il duetto d’amore tradizionale coll’opera scompaiono, ma anche che nasce un nuovo tipo di amore, un nuovo tipo di tensione, che è quello che in fondo l’opera di questo secolo rappresenta. Quelli che fra cento o duecento anni si troveranno ad occuparsi in modo particolare proprio del ‘900 cosiddetto «storico», sempre più comprenderanno che, se scompare l’amore nel senso in cui dice Dallapiccola, nel senso in cui lo troviamo nell’opera dell’800 e in parte anche nel ‘700, l’opera del ‘900 è in realtà un grande atto d’amore verso un genere che non è più incontrastato, che va riconquistato, ma che appartiene ancora profondamente alla coscienza dei compositori e ha la stessa tensione, forse addirittura acuita sotto nuovi aspetti. che aveva sempre. Ed è ciò che in fondo contraddistingue l’opera al di là delle sue forme, al di là dei suoi caratteri. Proprio questo voler esprimere una forma d’amore che non è più quello inteso come oggetto di un’opera, ma un atteggiamento, una nostalgia: forse, d’amore verso l’opera.

La Rivista Illustrata del Museo Teatrale alla Scala, n. 19, estate 1993

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