Il Novecento storico

I

Facendo seguito alla «Nascita del Novecento musicale europeo» di Guido Salvetti, apparso nel numero scorso, pubblichiamo una sintesi della seconda delle quattro conferenze organizzate dagli Amici del Loggione del Teatro alla Scala su «L’opera nel Novecento». Come già annunciato, dopo questa di Sergio Sablich avremo ancora «L’opera dal 1950 al 1980», di Paolo Petazzi, e a chiusura del ciclo «L’opera oggi» di Francesco Leprino. La rassegna storico-critica si è rivelata di grande interesse, anche a giudizio dei nostri lettori. Per ottenere il maggiore grado di naturalezza, e per soddisfare il desiderio dell’Autore, abbiamo preferito conservare i “”modi”” e il tono colloquiale della conferenza, del discorso rivolto ai nostri – in questo caso – “”ascoltatori””.

 

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Questa seconda puntata della storia del ‘900 musicale abbraccerà un periodo cruciale, quello che va dal 1910 al 1940: periodo che convenzionalmente, ormai, si suol definire «Novecento storico», non soltanto nell’ambito dell’opera ma in generale nell’ambito di tutta la musica, di tutte le correnti, di tutte le tendenze.

Che cosa vuoi dire «Novecento storico»? Evidentemente è un periodo che possiamo considerare chiuso in sé, è il periodo che comprende gli anni fra la prima e la seconda Guerra Mondiale. E’ un periodo nel quale la musica (e, come vedremo, in parte anche l’opera), descrive una parabola che la fa essere da un lato una appendice della storia dell’opera precedente, dall’altro una fase in cui l’opera si caratterizza in modo autonomo e, soprattutto, compiuto. Queste generalizzazioni, come è chiaro, non vanno prese in assoluto, però possiamo fissare due punti che comprendono, che abbracciano questo periodo, e due opere. La prima è Il cavaliere della rosa di Richard Strauss, del 1911 – tutte le date che citerò si riferiscono alla prima esecuzione, quindi ci sono delle discrepanze con il periodo di composizione –, ma credo che il momento in cui un’opera appare e viene offerta al pubblico è realmente il momento in cui essa comincia la sua vita, il suo cammino nella cronaca o nella storia. Dunque, Il cavaliere della rosa di Richard Strauss, del 1911. E, con una piccola licenza, fisserei l’opera conclusiva del «Novecento storico» ne La carriera di un libertino di Igor Stravinsky, che viene rappresentata nel 1951 a Venezia. Sono 50 anni esatti di storia della musica, 50 anni in cui direi che l’opera compie un passo in avanti e, forse, conclusivo. Non vorrei cominciare con una osservazione provocatoria o catastrofica: però credo che questo periodo coincida con l’epoca della fine dell’opera, almeno di un certo tipo di opera. Ciò che qui si esaurisce è un modo di concepire questo genere musicale che ha le sue radici nel passato e ne rispecchia gli elementi in tre punti fondamentali: in rapporto al canto, in rapporto al testo, al libretto (o a quello che è diventato il libretto), e in rapporto al dramma.

Direi che il punto da cui possiamo partire, ma qui ripeto quello che Salvetti vi ha già detto molto bene, è l’unione di questi tre elementi nel dramma musicale di Wagner, perché questa fusione rappresenta un vertice dopo il quale, inevitabilmente, comincia il declino. Il declino, la discesa non è necessariamente qualche cosa che qualitativamente non sia all’altezza di ciò che precede. Consiste solo nel fatto che, dopo Wagner, non è più possibile andare oltre nella combinazione di questi elementi e si tratterà quindi di cercare degli aggiustamenti, o di cercare dei mezzi di allargamento che però non possono più – storicamente, direi – presentarsi come qualche cosa di nuovo, di autenticamente proiettato in avanti. Quindi, non a caso, al processo di espansione nel rapporto tra questi tre elementi, che possiamo seguire nella storia dell’opera dalla sua nascita fino a tutto 1’800, segue un processo di riduzione e di analisi che li scompone in frammenti e tenta di riconnetterli in nuove unità. Ripeto che i tre elementi sono il canto, il testo – quindi il rapporto con il libretto – ed il dramma. È chiaro che essi si presentano nell’opera in rapporti molto stretti, ma è dall’insieme delle loro combinazioni che nasce quella che noi chiamiamo opera. Se usciamo da questi tre elementi entriamo in un campo diverso, che non possiamo più, se le parole vogliono dire ancora qualcosa, considerare appartenente al concetto di opera.

Vorrei, prima di approfondire questo argomento, che sarà un po’ il filo conduttore della mia conversazione, fare una breve carrellata, partendo quindi dai dati di fatto: una breve carrellata che toccherà naturalmente sol-tanto alcune che io ho estratto dal numero abbastanza grande di opere composte in questi cinquant’anni. E vedrete come (questo lo approfondirò dopo) noi non ci troviamo più di fronte ad un genere «opera», cioè non ci troviamo più di fronte a qualche cosa che appartenga o si riconnetta a un filone comune, ma di fronte a mondi, quasi a delle monadi, quasi a pianeti a sé stanti che ruotano al massimo in un sistema solare sempre più complesso e sempre più problematico: appunto il teatro musicale del ‘900. E non a caso ho voluto cominciare con Il cavaliere della rosa: non soltanto perché storicamente apre il periodo che a me è stato assegnato, ma perché è la prima opera del ‘900 che consapevolmente si pone come un ricalco di uno stile del passato. È un’opera che, come sapete, Strauss compose con l’idea di ricreare un Mozart nel ‘900. E non dimentichiamo che l’ideale di Mozart, soprattutto nelle Nozze di Figaro, ossia l’opera che Strauss prende a riferimento, è proprio l’idea della fusione dei tre elementi, cioè un’opera nella quale l’orchestra abbia una funzione anche psicologica e caratterizzante, il dramma abbia una sua continuità e il canto passi sì attraverso la consueta serie di recitativi e arie, ma culmini in insiemi nei quali anche l’uso della melodia, l’uso del canto è in funzione degli altri elementi.

 

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Questo è l’inizio, possiamo dire, di un nuovo tipo di opera, che poi proseguirà nell’Ottocento e che Wagner, a modo suo, porterà a compimento, dandole un significato universale proprio col rendere i tre elementi non più scindibili, Ma ciascuno funzione degli altri.

Ora, questo fatto è un punto di riferimento per individuare la prima opera nella quale, quindi, non si fa un’opera su una vicenda storica, non si fa più un’opera, come aveva fatto Wagner, su un mito, non si fa più un’opera come il Pelléas, senza tempo, e non si fa ancora un’opera che si occupi dell’attualità, come vedremo che poi succederà. E un’opera che vuole tradurre un mito, semmai, ma un mito in quanto autore, in quanto mondo del passato: Mozart in termini contemporanei. E questo è un fatto che prima, nella storia dell’opera, non era mai successo. Ma per il momento fermiamoci soltanto ai dati: tesseremo poi alcune osservazioni.

Nello stesso anno, nel 1911, per ricollegarci a Debussy, questi compone un’opera che non è più tale neanche nel nome. Un «mistero medievale», come lo intitola, che si chiama Il martirio di san Sebastiano, ed è composto in collaborazione con Gabriele d’Annunzio. Possiamo vedere qui, benché altri compositpri avessero già collaborato con D’Annunzio o ne avessero cercato la collaborazione, proprio per l’importanza e se vogliamo anche per l’eterogeneità dell’accostamento, un primo chiaro annuncio di un’idea di riforma dell’opera legato con un grande personaggio della letteratura contemporanea. Ripeto, un grande personaggio della letteratura contemporanea che nel suo campo, anche nel dramma, aveva già cercato qualcosa di simile. E dunque il primo annuncio di un fenomeno che poi si svilupperà: la riforma dell’opera, del teatro musicale, è qualche cosa di collegato alla riforma più generale del teatro, e dirci che non è pensabile senza questo.

L’anno dopo, nel 1912, troviamo un’opera che non è oggi molto eseguita. di un compositore non molto noto, ma che rispecchia molto bene lo spirito del tempo, e soprattutto quel mondo mitteleuropeo che già si avvicina alla fine, o almeno alla fine dell’Impero, e ci si avvicina già presentendo qualche cosa che verrà alla luce in seguito. Parlo di Schreker e della sua opera Der ferne Klang («Il suono lontano»). Perché è un’opera interessante? Perché qui protagonista è un artista, o meglio un creatore che insegue un ideale irraggiungibile. Quindi, il soggetto adesso è un artista, e problematicamente questi sente un’idea che, oltre tutto, si realizza appunto nell’idea di un suono che è soltanto intuito, soltanto immaginato e non raggiunto, ciò che porta alla distruzione non soltanto del sogno, ma anche della vita dell’artista.

 

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Ebbene, questo è un fatto già abbastanza interessante, che cioè adesso l’opera ponga se stessa, per così dire, conte oggetto. Nel 1915 – lo cito soltanto eli passaggio – abbiamo il primo tentativo di un’opera italiana riformata. Come sapete, in questo periodo non c’è soltanto Puccini che è ancora sulla cresta dell’onda ma, diciamo, siamo anche nel campo dell’opera italiana, nel «dopo Verdi», nell’ambito del Verismo: ma c’è un compositore, Pizzetti, che tenta qualche cosa di diverso, tenta cioè di trasferire la riforma di Wagner in un’opera italiana. e prende anche qui un testo di D’Annunzio, la Fedra, e con esso tenta di dare un dramma musicale italiano. Dobbiamo tener conto, soprattutto nell’evoluzione dell’opera italiana del ‘900, di una reazione molto violenta che, direi, ha condizionato molto non soltanto la storia dell’opera ma anche la storia della nostra cultura: una reazione molto forte che in ambito, diciamo così, intellettuale, si venne a creare contro l’opera ottocentesca, contro l’opera romantica, contro il melodramma.

Qui c’è una scissione che non permette che la cultura italiana del ‘900 (almeno, ripeto, nei suoi esponenti di punta) accetti o comunque integri la passione per il melodramma, che era stato certamente lo spettacolo e la forma d’arte dominante nell’Ottocento con le nuove esigenze, le nuove aspirazioni del presente, dell’epoca contemporanea. E questo fatto avrà, secondo me, conseguenze a lunga scadenza, che in parte scontiamo anche noi, scontiamo comunque: ossia quest’aver isolato l’esperienza più importante che in campo teatrale la nostra cultura ha avuto, cioè il melodramma, da un visione più generale, da un mondo culturale nel qualche anche la musica, anche il melodramma abbiano la loro posizione, il loro posto, armonizzato con tutto il resto. Ciò è in larga misura dovuto al fatto che proprio gli esponenti dell’avanguardia italiana degli anni Dieci, quindi prima della guerra, reagirono in modo molto violento contro il melodramma, al punto da considerare imprescindibile che si rompesse con questa tradizione.

Se scavalchiamo gli anni di guerra, ci imbattiamo in un personaggio molto importante sul quale ci dovremo fermare un momento di più, cioè Ferruccio Busoni, che era italiano, ma di cultura e formazione tedesche. Nel 1917 abbiamo il primo esempio, anch’esso con una forte incidenza nel mondo teatrale europeo e quindi non soltanto italiano, di un tipo eli opera che Busoni cerca di realizzare, e teorizza in modo molto preciso. Le opere con le quali tenta di realizzare questa nuova idea sono Turandot e Arlecchino, due opere che si rifanno alla Commedia dell’arte. È l’entrata nel teatro della maschera, che avrà una certa fortuna negli anni successivi, e vedremo perché.

 

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Nello stesso 1917 Pfitzner presenta la sua grande, ambiziosa opera Palestrina. Al contrario di quanto abbiamo visto più o meno fino adesso, egli intende proseguire decisamente sulla strada di Wagner ma, ancora una volta, pone un artista, e in questo caso non più un artista «ideale», ma un artista determinato, il compositore del ‘500 Palestrina, al centro della sua composizione. Con un intento ben preciso: Palestrina nell’opera salva la musica dalla distruzione a cui il Concilio di Trento la vorrebbe destinare; e la cosa interessante è che l’eroe è visto come l’innovatore, il seguace della tradizione polifonica, tradizione che invece si vuole adesso limitare per un ritorno alla purezza antica del canto gregoriano. Quindi è l’innovatore, ma allo stesso tempo è colui che salva la musica con una posizione, un atteggiamento molto precisi. L’atteggiamento è quello di considerare l’innovazione come conservazione, cioè di considerare in modo non soltanto negativo ma anche inaccettabile ciò che all’orizzonte già si profila: l’irruzione violenta delle avanguardie. Quanto a Busoni, è importante non soltanto per le sue opere nelle quali una serie di ambizioni linguisticamente non tutte risolte fanno sì che il risultato non sia sempre chiaro, ma soprattutto per quello che mette sul tappeto. E direi non soltanto per quello che pensa Busoni nel suo scritto teorico del 1910, Abbozzo di una nuova estetica della musica (proprio nel 1916 ve ne sarà una seconda edizione che sarà molto letta, e attaccata, non soltanto da Pfitzner, ma anche da Schönberg, per esempio), rappresenta benissimo lo stato dell’opera in quegli anni. Voglio leggervi alcune considerazioni, perché possiamo legarle al momento di cui ci stiamo occupando. Sono considerazioni che aprono quest’ultima fase dell’opera intesa come era stata intesa fino a quel momento, fase che, ripeto, nel ‘900 si esaurisce proprio negli anni che abbiamo posto a cornice del nostro discorso. Busoni per esempio si pone chiaramente una domanda: qual è il futuro dell’opera? E dice:

«Quanto alla questione del futuro dell’opera, bisogna conquistare la chiarezza anche su questo quesito. In quali momenti la musica è indispensabile a teatro? Ecco la risposta precisa: nelle danze, nelle marce, nelle canzoni, e quando nell’azione interviene il soprannaturale. Ne nasce una nuova possibilità per l’idea del contenuto soprannaturale, e un’altra ancora per quella del puro gioco. Il piacere del travestimento, il teatro come aperta e voluta simulazione, lo scherzo e l’irrealtà come opposti alla serietà e alla veridicità della vita. Allora sarà giusto che i personaggi affermino il loro amore e scarichino il loro odio cantando, e si battano in duello melodicamente, e nelle esplosioni patetiche diano in lunghe corone sugli acuti. Allora sarà giusto che di proposito si comportino in modo diverso sulla scena che nella vita, in luogo di fare involontariamente il contrario, come accade sui nostri teatri, soprattutto nell’opera. L’opera dovrebbe impadronirsi del soprannaturale e dell’innaturale, come della sola regione di fenomeni e sentimenti che le convenga, e così creare un mondo di apparenze che rifletta la vita come in uno specchio magico o in uno deformante. Dovrebbe voler dare di proposito ciò che nella vita reale è irreperibile. Lo specchio magico per l’opera seria, lo specchio deformante per l’opera comica. E vi siano pure intrecciate danze, mascherate e magie, così che lo spettatore abbia coscienza ad ogni momento della piacevole menzogna, e non vi si abbandoni come se si trattasse di un avvenimento di vita reale. A quel modo che l’artista, se vuoi commuovere, non dev’essere commosso lui stesso, pena la perdita immediata della padronanza dei suoi mezzi al momento buono, così anche lo spettatore, se vuol gustare l’effetto teatrale, non deve mai confonderlo con la realtà, altrimenti il godimento estetico si abbasserà a mera partecipazione umana. Chi rappresenta reciti, non viva in proprio. E lo spettatore rimanga incredulo, e con ciò libero, nel suo spirituale ricevere e gustare».

Qui come ben capite c’è tutto quello che l’opera è stata, era e probabilmente sarà, in una mescolanza curiosa: di un appassionato dell’opera che si pone dalla parte dell’ascoltatore e di un creatore che invece si rende conto che un’epoca del teatro è finita e se ne deve aprire un’altra, un creatore che guarda in avanti ma non sa che cosa vedere. Insomma qui sono mescolati tutto ciò che si agitava in quel momento e forse anche qualche cosa che ci invita a riflettere che cosa sia questo oggetto in fondo misterioso che è l’opera, e perché ci appassiona. Veramente, come dice Busoni, dobbiamo considerarlo qualche cosa di completamente staccato dalla nostra vita, o invece è partecipazione? E un puro godimento estetico, oppure qualche cosa che ci porta ad arricchire noi stessi anche sul piano intellettuale? Insomma, sono tutti temi che qui vengono decisamente messi sul tappeto. E Busoni è soltanto uno dei vari che si possono citare. I temi, gli aspetti di cui parliamo sono generalizzati in quel periodo, perché ci si rende conto che sta iniziando un’epoca nuova.

 

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Ecco, continuiamo nella nostra rapida carrellata, cercando di essere un po’ rapidi e di fermarci soltanto su quanto si aggiunga a quello che abbiamo impostato. Nel 1918 abbiamo la prima opera di un compositore che inaugura un momento importante del ‘900, con la presenza. vedremo poi con che carattere, delle scuole nazionali. Bartòk, Il castello del Principe Barbablu. E’ una cantata scenica, in realtà: e già qui si comincia a vedere come il termine «opera». «melodramma», venga abbandonato e sostituito da altri. Una cantata scenica, dunque, che nel corso di un atto raggiunge un massimo di tensione drammatica. Ma in che modo? Raffreddando programmaticamente, quasi scientificamente, la melodia, il canto, e introducendo una altrettanto voluta durezza, qualche cosa che colpisce nei confronti anche dell’ascolto, una voluta durezza, per esempio, sul piano del ritmo e delle armonie. E un’opera che già si pone di fronte allo spettatore in modo diverso, che ci spinge non al coinvolgimento ma anzi a provare quasi una sorta di resistenza.

 

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II 1918, e lo cito soltanto, è anche l’anno del trittico di Puccini, su cui però non mi soffermerò, mentre Schreker, nel 1918, compone un’altra opera. molto importante, che purtroppo da noi non si fa mai. Essa s’intitola Die Gezeichneten («I Segnati») ed è il primo esempio, anche questo molto deciso, di una tragedia su tema erotico, su contenuto erotico molto… come dire… esibito, sovraccaricato di simboli. Quindi qualche cosa che già entra in un’altra sfera ancora del teatro. Subito dopo, gli anni Venti sono quelli in cui avviene la svolta. Hindemith, nel 1921, compone un trittico di tre opere in un atto: Assassino, speranza delle donne, su testo di Kokoschka: un’opera che è intitolata Commedia erotica per marionette birmane, Das Nouss Nonschi, e la Sankta Susanna su un testo eli un autore consacrato dell’espressionismo, August Stramm. Queste tre opere sono un manifesto – si potrebbe chiamare così – di sconsacrazione dell’opera. Tutto quello che l’opera è stata fino a questo momento viene qui preso in giro, attaccato, rivoltato: è qualcosa che volutamente sottopone il mondo dell’opera a una sorta di attacco. che avviene sconsacrando i valori accettati fin allora. Nel 1921 abbiamo anche un’importante opera, di Janàcek, Katia Kabanova, e un’altra opera che si pone sul filone delle maschere, sul filone della commedia burlesca, sul filone quindi della Commedia dell’arte: L’amore delle tre melarance di Prokoviev. Si affaccia subito dopo sulla scena Stravinsky, anche lui con composizioni, con lavori molto particolari: nel 1922 con un balletto burlesco in un atto con canto, dal titolo Renard, in cui i vari elementi musicali, letterari e coreografici hanno una vita quasi indipendente gli uni dagli altri, e la rappresentazione trova unità proprio nel gioco autonomo delle singole componenti. Dunque qualche cosa che distrugge definitivamente l’unità, che fino a quel momento era stata salvata anche da coloro che avevano inteso riformare l’opera, nella quale entrano il mondo della fiaba, il tema del travestimento, il tema della parodia, e tutti questi clementi si propongono in un modo nuovo e abbastanza caustico, acido nei confronti dell’opera stessa. Il 1924, non dimentichiamolo, è l’anno in cui fu eseguita, quindi praticamente conosciuta Erwartung, e con essa La mano felice di Schönberg. Quindi dobbiamo collocare in realtà qui questi esempi di cui abbiamo già parlato, ossia opere scritte prima della guerra ma presentate soltanto dopo.

 

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Nel 1925 c’è un nuovo tema, anche questo carico, per così dire, di presagi. Anzitutto, ne riparleremo, l’opera di Ravel L’ enfant et les sortilèges, molto importante perché pone per la prima volta la prospettiva di un’opera basata sul sogno, sulla fantasia, ma che nello stesso tempo è qualche cosa che non si conclude in modo preciso, che rimane aperta. Qualche cosa che, quindi, volutamente colloca il mondo dell’opera in una sospensione non più soltanto di tempo, com’era avvenuto per esempio nel Pelléas, ma anche di spazi, di riferimenti. E un altro dato possiamo cogliere nel 1925: la rappresentazione di due opere in realtà inconipiute, non tanto perché i loro autori erano morti, ma perché già il problema della chiusura di opere di questo genere si presentava difficile. Una è la Turandot di Puccini. Già è stato detto che probabilmente non fu soltanto la morte del musicista ad aver impedito alla Turandot di concludersi. L’altra opera è ancora di Busoni, Dottor Faust. E’ molto ambiziosa anche questa: ritorna a un tema che era stato già affrontato nell’Ottocento,Faust, ma lo presenta in modo del tutto diverso, saltando completamente il riferimento appunto all’Ottocento e a Goethe e riprendendo il modello delle marionette, quindi qualche cosa che può essere manipolato in forma non convenzionale. Il 1925 è anche l’anno del Wozzeck, un’opera che noi ancora oggi – in fondo forse è l’unico caso – istintivamente mettiamo accanto alla Traviata, al Don Giovanni, anche se ha un linguaggio diverso, una struttura teatrale molto diversa: ciò nonostante appartiene a quella dimensione in cui il fatto teatrale forse per l’ultima volta si presenta come unità dei suoi elementi costitutivi. Ma ciò avviene in una concezione totalmente nuova: la base su cui l’opera è costruita, come sapete, è data da schemi strumentali, e questo consente una costruzione di carattere puramente musicale, quindi con un rigore classico della struttura che si contrappone singolarmente al contenuto drammatico, tragico, forte. Abbiamo qui un elemento molto moderno, che Berg riesce a condensare proprio quasi con un equilibrio, una misura classici. C’è l’idea di un estremo rigore costruttivo, di un’estrema lucidità nell’impianto formale, abbinata a una tensione di contenuti, di temi, a una vicenda estremamente drammatica e, veramente nel senso più pieno del termine, tragica, profondamente tragica. Ma l’opera, nello stesso tempo, sembra quasi alla fine volersi aprire: o meglio, presentare un finale che è del tutto in coincidenza con il nuovo clima, con le nuove sensazioni che indubbiamente anche Berg percepiva. Cioè l’idea di un finale che in realtà non è un finale: semplicemente il sipario cala su una scena vuota. Su una scena vuota noti più colmata da una trasfigurazione, come nel teatro precedente, ma invece con una situazione di dubbio, di incertezza, di qualche cosa di aperto, col bambino che gioca con il suo cavallino a dondolo mentre lo informano che sua madre è morta. Qui Berg riesce a creare la commozione, registrando, direi quasi nel modo più obiettivo e «insensibile», fra virgolette, naturalmente, la situazione dei personaggi.

 

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Proseguiamo. L’anno dopo, 1926, ecco un’opera che conferma qualche cosa che già avevamo visto. Di Hindemith, Cardillac. Cardillac è ancora una volta un’opera su un artista che non riesce a staccarsi dalle sue opere, che non riesce a vivere nel mondo reale perché il suo mondo è il mondo della creazione, quindi un mondo di sogno che appartiene solo a lui. C’è qui il tema, affrontato in modo molto deciso, della inconciliabilità fra l’artista e la sua epoca, che naturalmente Hindemith sposta sulla figura dell’orafo Cardillac, ma che è metafora molto chiara della situazione dell’artista modemo il quale, da un lato, non si riconosce più nel mondo che lo circonda, dall’altro lato non riesce a separarsi dalle sue creazioni, cioè a dar loro una destinazione sociale. E nello stesso anno abbiamo un altro personaggio simbolico nell’opera di Janàcek Il caso Makropulos, cioè una cantante, Emilia Marty, che ha la bellezza di 356 anni ed è, direi, l’incarnazione della storia dell’opera fino a quel momento, e che alla fine decide che basta, che ha vissuto veramente abbastanza ed è giunto il momento di morire. Dunque, non a caso una cantante, una cantante oltre tutto che appartiene alla gloria dell’opera di Vienna, che è stata in tutti i centri della storia dell’opera. Quindi, sembra quasi dire Janàcek, l’opera, intesa come canto e rappresentata, da quella che ne era stata indubbiamente la figura principale, il cantante, o la cantante in questo caso, si ritira, esce di scena definitivamente.

 

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L’anno dopo, nel 1927, abbiano invece il primo esempio di un’opera su un argomento attuale. E la prima opera in cui c’è scritto «l’azione si svolge oggi». Ed è Johnny spiel auf «Johnny suona per noi», si traduce) di Ernst Krenek, un’opera che per la prima volta inserisce nel teatro il jazz, in cui ci sono i treni, in cui un personaggio muore addirittura finendo sotto il treno, dove c’è l’animazione della città moderna, e, in parallelo con tutto questo, come detto, si usa il jazz, che in quel momento entrava nell’ambito della musica colta e quindi anche dell’opera. E guardate che stupenda contrapposizione: Stravinsky in quell’anno, invece, crea un’opera oratorio, Oedipus Rex – un’opera come rituale, in cui non ci si sente più dominati dalla parola nel suo stretto significato e si parla un latino che è volutamente distanziante, in cui quindi c’è l’esatto contrario dell’immedesimazione nell’epoca contemporanea.

Di queste contrapposizioni adesso ne troveremo sempre più. Cito a caso: nel 1928 Strauss compone Elena egizia. E’ la prima opera, diciamo, della fase in cui Strauss si riaccosta al mito, ma non a caso è il mito, per così dire, della falsa Elena, con l’ironia tutta moderna sul mito. E contemporaneamente Weill, con Brecht, compone L’opera da tre soldi, anche questa un rifacimento del passato ma con un impatto fortissimo nel presente. E nel 1929 Hindemith, dopo Cardillac, scrive un’opera comica che si intitola Novità del giorno – ancora una volta calata nel presente, ma nella quale tutto si basa sulla totale estaneità, fino alla discrepanza più completa fra musica e azione. La musica procede da una parte, l’azione va dall’altra. E questo fatto dà proprio il senso drammaturgico al lavoro, al pezzo.

Si può ragionevolmente affermare che il ‘900 vero e proprio, come epoca della storia del teatro musicale, cominci in realtà con la fine della prima Guerra Mondiale. Ciò che accade prima è in qualche modo un collegamento, un proseguimento dell’800, in modo critico, che già pone naturalmente le premesse di un cambiamento ma si presenta ancora legato al passato. Dopo la guerra, invece, ci troviamo di fronte a tre fatti nuovi. Uno è l’irruzione molto violenta dell’avanguardia. Essa si pone il compito eli cambiare le regole del gioco ovunque, anche nell’ambito del teatro. Possiamo considerare Stravinsky il protagonista di questo fenomeno, non soltanto con i suoi precedenti nel balletto, ma proprio con opere che vanno da Renard a Mavra, a Perséphone: proprio di questo decennio cruciale, gli anni Venti. in cui si realizza il proposito di cambiare le regole del gioco. D’altro canto c’è il filone del radicalismo. che possiamo identificare in Schönberg, il quale prosegue l’esperienza dell’espressionismo. Ora l’espressionismo è una intensi ficazione del linguaggio ottocentesco che viene portata fino al limite di rottura, non soltanto fisicamente per quanto riguarda l’aspetto musicale, ma anche nel rapporto dei tre elementi che dobbiamo sempre tener presenti: canto, testo e dramma. Oltre quello c’è la rottura completa. c’è proprio l’esplosione.

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Un terzo elemento da considerare è l’emancipazione delle scuole nazionali, vero momento di crescita, qualche cosa di proiettato in avanti nel teatro del ‘900, soprattutto nel periodo tra le due guerre. In un certo senso Busoni, che abbiamo citato prima, rappresenta la nausea di quest’epoca per tutto ciò che era convenzionale e tradizionale, ma allo stesso tempo rappresenta anche l’incapacità di staccarsi nettamente dal mondo dell’opera così come l’aveva avuto in eredità. Allora dobbiamo chiederci: di fronte a che tipo di opera ci troviamo in questo momento, cioè all’inizio degli anni Venti? E vorreì dividere nei tre elementi che ho prima indicato la radiografia, diciamo così, o il tentativo di radiografia della situazione, per vedere quindi come si svilupperà in seguito. Il primo punto, fondanlentale, è il rifiuto della melodia intesa come valore centrale dell’opera, cioè del canto come espressione delle passioni e dei sentimenti umani. E occorre sottolineare il rifiuto del canto proprio nell’accezione di espressione lirica tipica dell’opera nel senso comunemente inteso. Esso viene rifiutato, messo da parte, e conseguentemente la voce non è più uno strumento di comunicazione delle emozioni destate o motivate da un’azione rappresentata sulla scena. II canto che cosa diviene? O un declamato, che registra una impossibilità di trasfigurarsi in melodia proprio perché gli stati d’animo non si possono sublimare in espansione melodica: questo compito viene semmai demandato all’orchestra, che nell’opera del ‘900 diviene il veicolo del contenuto espressivo utilizzando anche – è il caso del Wozzeck e poi della Lulu, casi estremi – forme tipicamente strumentali, cioè richiedendo quasi una solidità di forma non più all’interno delle forme operistiche ma all’interno delle torme tipicamente strumentali. Oppure diventa, il canto, la nostalgia di una melodia assente, ricreata per frammenti spezzati e per aspre escursioni delle linee che tendono a impennarsi in ampi intervalli dissonanti senza risoluzione – canto che tende a percorrere intervalli ampi. apparentemente senza legami fra di loro – oppure a contorcersi in rlliniirlli passaggi cromatici avvolti su se stessi.

O spazio che tende ad aprirsi, o spazio che tende a richiudersi su se stesso: non c’è più quell’equilibrio che esisteva prima fra apertura e ripiegamento. Questo perché? Perché il compito della melodia non è racchiudere in un simbolo il valore del testo, ma contraddirlo o allontanarlo da sé. Quindi è qualche cosa che non incarna più il significato del testo, non incarna più nemmeno il valore del dramma, ma tende ad allontanarsi, cioè a dare un significato diverso. Ciò che conta, adesso, non è l’illustrazione musicale di un testo, ma la riflessione su di esso, la sua critica.

La Rivista Illustrata del Museo Teatrale alla Scala, n. 18, Primavera 1993

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