Conoscevo i libri di Sergio prima di iniziare a scrivere i miei. Conoscevo gli oggetti delle sue ricerche ed il modo straordinario con cui le conduceva. Quando, nel giugno del 2004, gli inviai la mia recensione del suo “”Dallapiccola””, che “”L’Indice”” mi aveva appena pubblicato, mi giunse a stretto giro il suo ringraziamento; compiaciuto, succinto, cordialissimo: un ‘grazie’ da cui traspariva senza ombra di dubbio una delle caratteristiche più tipiche della sua persona, ossia la vitale operatività. Questa risposta stabiliva anche che ci saremmo sentiti presto a telefono, per la prima volta. Era stato Claudio Romano, il “”timpanista danzante”” (come io lo definisco) e grande esperto di come si facciano incontrare le persone tra loro, a parlare di me a Sergio. Avevo terminato la stesura iniziale di quello che sarebbe diventato “”Il direttore d’orchestra da Wagner a Furtwängler”” e avevo pregato Paolo Gazzola di mettere Claudio in preallarme: avevo bisogno di un ‘fuoriclasse’ che leggesse e giudicasse con la massima competenza la mia prima opera come scrittore. Claudio non ebbe dubbi: sarebbe stato Sergio a leggerla e a giudicarla. Poco prima, il dattiloscritto era già approdato presso l’editore L’Epos di Palermo, riscuotendo interesse; dalla redazione Carlo Fiore mi comunicò che il tutto sarebbe stato sottoposto al giudizio del direttore della collana in cui la mia opera sarebbe stata poi pubblicata: quel direttore di collana era proprio Sergio Sablich. Combinammo così di vederci a Torino agli inizi di settembre, nello storico caffè Fiorio, quasi una tacita usanza per chi conosce bene la ex-capitale del Regno d’Italia. Mi presentai all’incontro con una copia dell’opera in oggetto, una mia pièce teatrale sulla vita di Karajan dal 1933 al 1945 e con l’indice della monografia su Rachmaninov, che sarebbe diventato il mio secondo libro per L’Epos. Quell’incontro privato non è in sé riferibile, anche solo per quel sacro pudore che si riserva agli affetti più profondi che recano in sé il marchio indelebile dell’autenticità, da sempre merce piuttosto rara fra gli uomini. Una cosa però mi sbalordì letteralmente: non avevo ancora conosciuto nessuno che sapesse giudicare, nel breve giro di pochissimi minuti, il valore dell’opera che gli veniva sottoposta e, al tempo stesso, della persona che gliel’aveva presentata. Non c’è qui alcuna ‘vanitas’ di sorta: ciò che ho riferito era tutto rivolto a Sergio, non a me. Mi ero recato a un incontro professionalmente per me decisivo e ne ero uscito portando con me un dono inestimabile: l’amicizia più totale di un grande uomo. C’era la gioia, il piacere dello scambio di conoscenze disciplinari, l’allegria di quando persino i modi di pensare coincidono come per una forza superiore, coinvolgendo le facoltà creative e, per l’appunto, operative di due persone. Abituatomi in fretta a quel clima così raro a viversi, non provai più stupore quando Sergio mi disse che era in procinto di scrivere, a sua volta, un libro su alcuni grandi direttori d’orchestra di ambiente tedesco. Altrettanto non fui troppo sorpreso, pur provando una gioia irrefrenabile, di scoprire che anche Sergio considerasse lo studio della fonografia storica come una chiave metodologica imprescindibile in relazione alla storia dell’interpretazione musicale: in fondo, era proprio ciò che desideravo che lui mi dichiarasse. Nei mesi successivi continuammo a incontrarci con una speciale regolarità, trascinati dalla determinazione e dall’amore più incondizionato per il nostro lavoro: ogni volta spuntavano novità, curiosità, scoperte, ritrovamenti. Quando venne a trovarmi a casa, ricorderò per sempre l’emozione compiaciutissima con cui si rigirava fra le mani il “”Bayreuth”” di Felix Weingartner, che l’amico Stefano Bacin mi aveva fotocopiato a Berlino, e le “”Erinnerungen an Richard Wagner”” di Angelo Neumann, nell’esemplare originale del 1907. Mi chiedeva di continuo come avessi fatto a trovare due gemme come quelle: gli risposi che quello era solo l’inizio delle sorprese che gli stavo preparando. Venuto a sapere della mia attività come cantore di repertorio medievale, si era subito impegnato ad organizzarmi una conferenza-concerto a Pisa per ottobre. Quando ci rincontrammo a inizio gennaio 2005, Sergio aveva terminato la lettura del mio libro nella sua redazione definitiva: aveva preteso, con ogni sacrosanta ragione, che io aggiungessi tutto il capitolo relativo alla vicende di Bruno Walter e che ampliassi il capitolo di Wilhelm Furtwängler in merito ai dettagli relativi al processo di denazificazione subito da quell’impareggiabile artista tedesco. Nulla al mondo avrebbe mai potuto farmi presagire che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avrei visto Sergio. Fra le mille capacità professionali che egli aveva a sua disposizione, spiccava sicuramente anche quella didattica; con la più grande semplicità e chiarezza che gli erano proprie, mi aveva subito avvertito: “”Il primo libro dev’essere talmente ben fatto da risultare impeccabile: tutti quelli che seguiranno si reggeranno in piedi da soli. E’ così che si diventa autori””. Questo suo pensiero era però uno ‘speculum’ di sé stesso e dei suoi libri, opere in cui l’artista e la sua individualità sono sempre al centro di ogni vicenda raccontata, di ogni creazione descritta. Busoni, Strauss, Schubert, Dallapiccola: nessuno di loro ‘appartiene’ a qualcosa, è ‘incasellabile’ in qualcosa, è ‘circoscrivibile’ in qualcosa. Con Sergio questi autori maggiori riprendono vita pura e autentica: nessuno di loro viene ‘analizzato’ come un cadavere all’obitorio, nessuno di loro appare come un qualcosa che, irrimediabilmente, non ci riguarda e non ci deve riguardare più. Per Sergio ogni ‘passato’ è vivo e ci riguarda tutti, oggi come domani. Sempre impeccabile per forma, contenuti e metodo nell’approccio critico tanto alla vita quanto all’opera degli artisti trattati, Sergio possedeva anche la rara dote di saper descrivere con le sole parole una composizione musicale avvalendosi di pochi e calzanti esempi tratti dalle partiture: di solito si assiste penosamente alle più contorte e friabili descrizioni di sedicenti filosofi della musica oppure ad insopportabili e inutili snocciolature di luoghi comuni accademici privi, da sempre, di una concreta sapienza musicale. Sergio era un altro, fra i non molti, ad avere eletto la musica a sua ragione di vita e il servizio alla stessa come missione umana e professionale. Quando alla fine di quel gennaio Paolo Gazzola mi riferì della sventura che aveva colpito Sergio nella sua casa fiorentina, l’effetto che provocò in me fu simile a quello del silenzio che segue un’enorme esplosione, in questo caso addirittura senza che quest’ultima si fosse neppure udita. Silenzio, desolazione, immobilità. Il resto, ancora una volta, appartiene alla sfera sacra del privato. Due sensazioni fortissime cominciarono a manifestarsi: la certezza della perdita assolutamente irreparabile e, per contrasto, la consapevolezza che Sergio mi era e mi sarebbe stato accanto per sempre, attraverso il suo ricordo e il suo esempio. Non c’era spazio per alcuna disperazione, per alcuna indegna recriminazione: tutto ciò che contava sarebbe stato lavorare, ‘operare’ perché anche le sue opere, le sue idee, i suoi desideri trovassero un giorno un modo qualunque per realizzarsi. La cura estrema di ciò che amiamo rappresenta quel miracolo che consente il ‘passaggio del sapere’ fra un uomo e un altro uomo, la ricerca della conoscenza che non procede mai sulle gambe di uno solo o su quelle di molti privati della propria individualità: lo credeva Sergio, lo credo io, lo credono e continueranno a crederlo coloro che hanno avuto il grande privilegio di conoscere e amare Sergio Sablich.
Torino, 08/02/2007