Il «Job» di Dallapiccola svela i suoi misteri grazie al tocco di Pesko

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Roma – Era parecchio tempo che il nome di Luigi Dallapiccola mancava dai concerti dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. E non è che le nostre altre maggiori istituzioni musicali si comportino diversamente. Il caso è tipico. Nella conservazione dei suoi tesori musicali, della sua cultura, il nostro Paese mostra una insensibilità che sfiora la noncuranza.

Il direttore Zoltan Pesko, un ungherese, è uno dei pochi a battersi perché la musica di Dallapiccola non esca del tutto dal repertorio dei nostri concerti. Il programma con cui si è presentato all’auditorio di via della Conciliazione accostava alla Prima Sinfonia di Mahler una delle opere centrali della produzione di Dallapiccola, la sacra rappresentazione Job. Centrale non solo cronologicarnente (del 1950) ma anche tematicamente: nella quale uno dei motivi fondamentali che percorrono da cima a fondo la musica di Dallapiccola – la lotta dell’uomo contro qualcosa che è assai piú forte di lui – si affaccia con estrema evidenza drammatica e spirituale. E se Dallapiccola credeva fermamente che la musica non potesse sottrarsi dal parlare dei grandi temi che muovono il pensiero e i sentimenti umani, in quest’opera di svolta – la prima nella quale venga adottato integralmente il linguaggio dodecafonico – la sua ricerca affonda le radici anche nella individuazione dei mezzi piú idonei per renderne eloquenti ed espressivi i contenuti e i conflitti.

Uno degli aspetti piú critici della musica del nostro secolo – la perdita di un sistema di riferimento linguistico ragionevolmente capace di universalità – viene risolto da Dallapiccola contrapponendo agli interrogativi e alla mancanza di certezze di una oggettiva situazione storica l’unità non solo formale di un sistema – quello dodecafonico – garante di una possibilità di comunicazione e capace di superare le prove del tormento, le angosce del dubbio. E la figura di Giobbe, trattata in una sorta di sacra rappresentazione moderna, diviene il simbolo di una interpretazione individualmente sofferta di nuove tavole della legge. La risposta del pubblico ha dimostrato che non esiste difficoltà di comprensione di fronte a lavori condotti con tanta chiarezza concettuale e compositiva. È un alibi interessato quello di credere che la cosiddetta musica contemporanea non possa raggiungere la perfetta integrità della misura classica.

L’esecuzione guidata da Pesko ccn grande esperienza e in sintonia con la luminosa grazia della partitura si giovava di una presenza straordinaria, quella del coro istruito da Norbert Balatsch, letteralmente trasfigurato erimesso a nuovo: pianissimi di un’intensità rara, sbalzi di sonorità esattamente calibrati, impennate nel registro acuto che non perdevano lucentezza e spessore. Finalmente un coro educato a cantare non melodrammaticamente. Di accettabile qualità, nel complesso, la compagnia di canto, (Tramonti, Jankovic, Di Credico, Safiulin), nella quale però Lenus Carlson (Job) era fortemente penalizzato da una dizione impastata grezza. La voce recitante era quella di Mario Basiola.

da “”Il Giornale””

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