Il genio in scena

I

La svolta decisa, vertiginosa impressa al teatro musicale da Mozart sul finire del suo secolo, il Settecento, è uno di quei prodigi che non finiscono di meravigliare, ogni volta che si ascolti le sue opere o si rifletta sulla loro sostanza: pochi momenti nella storia della cultura e della creazione artistica racchiudono altrettanti tesori e misteri da contemplare. Non è bastata l’abbuffata del bicentenario di due anni fa per esaurire l’argomento; anzi, proprio in quell’occasione coloro che avevano qualcosa da dire si sono saggiamente astenuti dal cantare in coro. Esegeti improvvisati, capaci di passare con la stessa disinvoltura da Verdi a Puccini a Mozart, hanno scosso le acque, senza tuttavia riuscire a intorbidarle: passata la valanga esse sono tornate a risplendere limpide e fresche, riappropriandosi nella profondità con la loro naturalezza vorticosa e di tesori e di misteri.

Per cercar di spiegare le condizioni che permisero a Mozart di attuare quella svolta, che fu anzi duplice – da un lato verso la fondazione dell’opera tedesca culminata nel Flauto magico, dall’altro verso la fusione dei generi buffo e serio realizzata nella trilogia italiana degli ultimi anni Ottanta – si è ricorsi di solito a due ordini di motivi. Il primo, di matrice romantica ma a lungo svilito nell’uso, riprendeva la teoria del Genio inconsapevole e unico, destinato proprio in quanto tale a svettare come la cima piú alta sul tratto che lo circonda, incurante delle convenzioni e delle limitazioni del suo tempo: immagine che sotto il nome fin troppo familiare di «Amadeus» è stata ampiamente volgarizzata. Il secondo ordine di idee, ricorrente nella critica su basi storicistiche, guidava invece la ricerca di una genealogia soprattutto musicale in grado di stabilire e allineare tutti gli anelli di una catena spazio-temporale, sí da porre Mozart al culmine di un processo teleologicamente indirizzato a preparare il suo avvento: i cui riferimenti potevano essere, nel caso specifico, il teatro di Gluck, l’opera napoletana del Settecento, la commedia viennese e altro ancora, da soli o combinati.

Un recente studio di Paolo Gallarati offre una prospettiva diversa alla questione, qui ovviamente un po’ semplificata, cogliendone un nodo che per quanto già sfiorato da altri viene messo ora da lui in luce con molta precisione: la chiave che permise a Mozart di entrare in un mondo nuovo della drammaturgia musicale non va ricercata nel melodramma settecentesco, bensí nel teatro di prosa, e soprattutto nella diffusione delle opere di Shakespeare, oggetto di culto proprio negli anni della sua vocazione teatrale e circolanti con impressionante frequenza, accanto ai primi esempi della nuova commedia borghese basata sul realismo psicologico, nei teatri di lingua tedesca grandi e piccoli. I dati che Gallarati fornisce in proposito sono inequivocabili, ben oltre l’interpretazione peraltro molto puntuale ch’egli stesso ne dà.

In questa visione delle fonti estetiche della poetica teatrale di Mozart il nodo appare sciolto almeno nella sua prima parte. Giacché la seconda parte, quella dell’invenzione musicale destinata alla scena, presupponeva l’applicazione alla dinamica teatrale di principi linguistici diversi. Se è vero che Mozart si ispirò al teatro di pro-sa contemporaneo – e anche la riscoperta di Shakespeare era un fatto contemporaneo – per istituire le nuove leggi del suo teatro, o almeno per ricavarne un modello ideale, la sua grandezza fu anzitutto quella di saperle tradurre in un codice espressivo che tenesse conto dei rapporti tra azione e musica, fino a diventare musica drammatica. L’analisi di Gallarati prende in considerazione quasi esclusivamente l’Idomeneo facendone a ragione l’opera in cui per la prima volta, e con piena consapevolezza, Mozart sperimentò un modo nuovo di concepire le regole della musica applicata al dramma nel suo complesso.

Fu qui infatti che Mozart individuò, ben oltre le consuetudini dell’epoca, le diverse possibilità di raffigurazione psicologica e teatrale insite nei vari stili musicali, la relazione fino ad allora insospettata tra forma musicale ed espressione drammatica, tra azione e affetti, tra intrigo e carattere dei personaggi, spingendone la tensione verso quei pezzi d’assieme che sarebbero sembrati già allora l’aspetto piú inaudito dell’opera, e nello stesso tempo erano la premessa della sintesi compiuta nei lavori della trilogia dapontiana. L’estensione della sintassi del sonatismo classico alle situazioni teatrali musicalmente definite e risolte significò la scoperta e l’invenzione di un nuovo linguaggio drammatico, che sarebbe divenuto la linfa vitale dell’universalità espressiva e del realismo psicologico nel Mozart drammaturgo: anima dell’azione e azione dell’anima. Come oltre mezzo secolo piú tardi farà Wagner collocando la tragedia greca, Shakespeare e il Beethoven sinfonico a fondamento ideale del suo dramma musicale, cosí Mozart fondò la sua estetica teatrale su elementi che non appartenevano  alla tradizione dei generi melodrammatici ma alla essenza stessa del teatro di passioni e di verità, retto dalla forza delle parole e dalla logica degli sviluppi musicali: non la scena come mezzo di finzione, ma la passione del teatro come mezzo per raggiungere la verità.

 

Paolo Gallarati, «La forza delle parole», Einaudi, pg. 374, lire 30.000


da “”Il Giornale””

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