Quel che appare in questa “”intervista”” è in realtà un sunto di molti colloqui che ho avuto con Ingmar Bergman, soprattutto a Monaco durante l'””esilio”” dalla Svezia, sul tema dei suoi rapporti con la musica. Proprio a Monaco Bergman avrebbe dovuto mettere in scena I racconti di Hoffmann di Offenbach e trarne poi un film: ma il progetto, esattamente definito, andò in fumo perché la direzione dell’Opera di Stato lo giudicò irrealizzabile. Il problema nacque perché Bergman aveva pensato di collocare l’orchestra sul palcoscenico, o meglio su un piano alzato sopra di esso, ribaltando la prospettiva fra azione e musica in una fantastica reinvenzione del testo di Offenbach, sospeso fra realtà e sogno: la realizzazione cinematografica avrebbe dovuto rappresentare la sintesi di questo progetto.
Nel corso della sua lunga carriera Bergman ha messo in scena due sole opere: La vedova allegra a Malmó nel 1954 e La carriera di un libertino a Stoccolma nel 1961. Notissima è però la sua trasposizione in film, per la televisione svedese, del Flauto magico (1975), presentata poi anche nelle sale cinematografiche di tutto il mondo.
Nei suoi film, e più in generale nella sua attività di regista, che ruolo ha avuto la musica?
Se non fossi diventato un regista, avrei voluto essere un direttore d’orchestra. Credo che il lavoro del regista abbia molte affinità con quello del direttore d’orchestra, e che una sceneggiatura cinematografica sia molto simile a una partitura musicale. In alcuni dei miei film ho adottato precise strutture musicali, per esempio quelle della forma-sonata, del rondò, del capriccio, sviluppando l’azione secondo tempi e ritmi musicali. Posso dire anzi che le mie commedie, come per esempio L’occhio del diavolo (una trasposizione del mito di Don Giovanni) o A proposito di tutte queste… signore (che racconta la storia di un famoso violoncellista attraverso i suoi rapporti con le donne) sono veri e propri film “”musicali””, nel senso che l’azione è intessuta di relazioni basate su principi musicali: il tema con variazioni, la forma ciclica, le stazioni di esposizione-elaborazione-ripresa. Le forme cinematografiche possono essere trattate come forme musicali, come un contrappunto, una polifonia di immagini e suoni.
Come è nata l’idea di realizzare il film del Flauto magico?
Amo immensamente quest’opera. Da bambino, mi divertivo a immaginare una messa in scena del Flauto magico con il teatro della marionette, e non ho mai provato un’emozione così grande come in quelle primitive fantasticherie. Ricordo che quando Tamino, davanti al tempio della saggezza, pronuncia le parole: “”O eterna notte, quando finirai? Quando rivedranno i miei occhi la luce?””, e il coro invisibile risponde: “”Presto, presto o mai più!””, le mie mani sul piccolo teatrino tremavano e i miei occhi si riempivano di lacrime. Poi, da adulto, non ho mai potuto immaginare una realizzazione del Flauto magico in un ambiente diverso da quello del teatrino di Drottningholm, vicino a Stoccolma: questo incredibile, fantastico teatro settecentesco rimasto intatto com’era, una specie di teatro delle marionette su scala più grande. E li che ho realizzato il Flauto magico, riprendendolo dal vero.
Che problemi ha comportato la trasposizione cinematografica?
Il mio Flauto magico non è un film per il cinema, ma per la televisione, e c’è una bella differenza. La percezione dello spettatore davanti alla televisione è del tutto diversa da quella al cinema. Ci sono tre situazioni nettamente distinte di percezione: quella in teatro, quella alla televisione, quella al cinema. Lo stesso pezzo cambia profondamente a seconda della sua destinazione: e io stesso, quando mi accingo a un lavoro, ne debbo tenere conto. Nel caso del Flauto magico, ma credo che lo stesso valga per ogni pezzo originariamente concepito per il teatro, sia esso musicale o non, il punto di partenza è la scena, il suo ambiente naturale, e il punto di arrivo è il modo in cui la ripresa televisiva lo modifica, lo trasforma, lo riplasma in considerazione del pubblico a cui è destinato. C’è un linguaggio teatrale e c’è un linguaggio televisivo: il passaggio dall’uno all’altro è di importanza fondamentale. In teatro lo spettatore è libero di indirizzare la sua attenzione sull’insieme o su un particolare, secondo la sua sensibilità, il suo interesse, la sua logica o fantasia; la telecamera è invece un occhio critico, un mezzo interpretativo che determina una scelta: non dico che la imponga, ma certo la guida. Per questo dico che è di fondamentale importanza essere consapevoli di quale sia il mezzo impiegato e di quale sia la situazione in cui lo spettatore si troverà al momento della visione. Non c’è niente di peggio che confondere questi piani: e ciò vale sia per il creatore sia per lo spettatore. Il mio Flauto magico è un film pensato per un pubblico televisivo.
Che però si svolge in un teatro.
E la trasposizione, la traduzione di uno spettacolo teatrale in un linguaggio televisivo. E una trascrizione, in altri termini. Lo spettatore deve essere reso consapevole che ciò che sta vedendo e ascoltando, cioè Il flauto magico, è un’opera musicale; dunque che il suo ambiente naturale è il teatro. A poco a poco, però, si rende conto che il fatto di non essere a teatro ma davanti alla televisione comporta una mediazione: e deve imparare a impadronirsi di questa mediazione. Nella misura in cui è in grado di farlo, apprendendone il linguaggio, si impadronirà dell’oggetto, diventerà lui stesso un occhio critico e interpretativo. Per questo il mio Flauto magico parte dichiaratamente dalla finzione teatrale, ma poi la assimila e la ricostruisce attraverso i mezzi e la tecnica dello spettacolo televisivo. Il problema più grande è stato quello di trovare dei cantanti che fossero anche capaci di reggere il peso della recitazione in televisione: di rendere per esempio credibili i primi piani, con naturalezza e intensità espressiva. Di calarsi nei personaggi e di far sì che lo spettatore possa concentrarsi sui valori del Flauto magico trovando la chiave che lega l’immagine alla musica, anzitutto il ritmo della musica in rapporto al tempo dell’immagine.
Sotto questo aspetto, trovo straordinaria la soluzione adottata per l’Ouverture.
Il problema era essenzialmente tecnico: come impiegare il tempo di durata dell’Ouverture, televisivamente parlando. Ho immaginato di riprendere il pubblico in teatro, i loro volti, che reagiscono all’ascolto della musica. Di mostrare cioè le loro reazioni emotive. Così ho raccolto i miei amici, molti dei quali erano impegnati nelle riprese, e ho chiesto loro di sedere in platea e di farsi riprendere mentre ascoltano l’Ouverture. La bambina su cui spesso ritorna la macchina è mia figlia Lynn. Quando attacca il fugato, l’immagine segue la musica, la rappresenta con un gioco di stacchi e di montaggio, inventato sul ritmo della musica: ma è anche la visualizzazione di un ascolto emozionato, partecipe, spontaneo. Ho voluto che figurassero persone di tutte le razze e di tutte le età, perché Il flauto magico è un’opera universale, che ci affratella e ci unisce nel suo messaggio di verità. Credo però che l’espressione più vera e profonda sia colta nel volto di mia figlia, nei suoi occhi puri e incantati, nel suo sorriso indulgente di bambina. E mi sembra di riveder me e il mio teatro di marionette dell’infanzia, sui cui si libra l’anima della musica sublime di Mozart, del Flauto magico; e mi sorprendo a pensare che il cinema, la televisione non sono altro che una rianimazione di quel vecchio teatrino, un gioco per adulti che hanno perduto l’innocenza dell’infanzia.
Musica Viva, n. 6 – anno XI