L’attesa edizione integrale degli scritti dedicati da Robert Schumann alla musica
Non c’è bisogno di sottolineare che cosa rappresenti la prima edizione italiana completa degli scritti critici di Robert Schumann: chi lo legge lo capirà facilmente da sé. A rallegrarsene saranno questa volta non soltanto i lettori di cose musicali ma anche gli studiosi, e non solo di musica, continui essendo i riferimenti alle altre arti: anche perché l’ultima edizione tedesca delle Gesammelte Schriften über Musik und Musiker, uscita a Lipsia nel 1914, era ormai introvabile.
La monumentale impresa di presentare l’intera produzione critica del compositore (due volumi per complessive 1168 pagine) è stata condotta da un gruppo qualificato: la traduzione di Gabrio Taglietti, raro esempio di musicista che conosce le lingue, è assai buona; come curata è la veste editoriale di Antonietta Cerocchi Pozzi, esaurienti gli indici analitici e illuminante la lunga prefazione-saggio di Piero Rattalino.
Schumann fu il creatore della critica musicale intesa come giornalismo militante e come ermeneutica. La rivista da lui fondata nel 1834 a Lipsia con alcuni amici della cerchia dei Davidsbündler, i Fratelli della Lega di Davide in lotta contro i filistei, chiamata semplicemente «Neue Zeitschrift für Musik» («Nuova rivista musicale»), fu il centro di un dibattito culturale, poetico e musicale che orientò tutta la riflessione artistica ottocentesca. I dieci anni in cui Schumann la diresse circoscrivono il periodo piú caldo del movimento romantico, ma introducono anche molti temi riguardanti il ruolo dell’arte nella vita individuale e sociale, fissando alcuni principi generali sui suoi compiti. Non solo nel presente ma anche nel futuro e guardando al passato.
Schumann fu il primo ad avere l’esatta coscienza che il lavoro dell’artista corrispondesse anche a una missione di natura politica e morale, e che a lui spettasse indirizzare le attese dei suoi lettori verso mete ideali.
Oggi che questi principi e queste attese si sono alquanto abbassati in un volgare materialismo, può essere utile ripercorrere le tappe che segnano l’inizio di un’epoca che già annunciava la crisi. Giacché Schumann fu consapevole che l’arte del suo tempo era minacciata da manifestazioni così eterogenee, nell’ambito stesso del romanticismo, da richiedere precise distinzioni. E se è vero che all’attività critica fu sospinto da un precoce amore per la letteratura e la scrittura, una scrittura fin dall’inizio fantasiosa e personalissima, non pare dubbio che egli vedesse nella critica d’arte una necessità imposta dai tempi, di cui avrebbe fatto volentieri a meno se la produzione musicale contemporanea non avesse preso una piega ambigua e contraddittoria: di fronte alla quale occorreva mettere chiarezza. Il concetto fondamentale secondo il quale le epoche segnate da profondi rivolgimenti richiedono una critica non «scientifica» ma «poetica», di amplissimo respiro, si legava così a quello di una critica che fosse l’esplicita illustrazione di un’arte piú complessa e quasi onnicomprensiva nei suoi aneliti come quella romantica.
È difficile stabilire dove prevalesse l’uno e dove l’altro. Nel fondo della personalità di Schumann agiva una scissione che lo portava a incarnarsi in figure opposte e perfino a patrocinare cause diverse. L’elemento unificante è però nell’aspirazione a rendere universale la musica come espressione dell’interiorità, unica e irripetibile, senza sottrarla a una funzione anche sociale: e questa doveva mirare a innalzare le capacità di comprendere di una nazione, quella tedesca, per mezzo dell’aristocrazia spirituale degli artisti, fin verso una «piú elevata età dell’arte» sovrannazionale. Di questa utopia Schumann si fece portatore nei dieci anni di militanza sulla sua rivista, per poi abbandonarla in un sempre piú scettico distacco dal mondo e rifugiarsi da ultimo in un angoscioso e distruttivo isolamento. La follia in cui precipitò alla fine fu anche la conseguenza di questo fallimento.
L’idea che la musica sia una forma di conoscenza del mondo non era nuova. Schumann però la interpretò in modo radicale, anche se evidentemente di parte. Una delle conseguenze della sua tendenza a scindersi in figure diverse operò, finché non divenne una forma maniacale e persecutoria, con una acutezza e una prontezza perentorie. Le recensioni delle novità contemporanee – e va sottolineato il fatto che avvenissero in prima battuta e in completa solitudine – sono giudizi definitivi, senza appello: e molti di questi si leggono ancora oggi con entusiasmante meraviglia. Che recensendo una dozzina di concerti di diversi autori Schumann distinguesse subito il valore di quelli di Chopin, o che ritrovando la Sinfonia in do maggiore di Schubert ne fornisse subito un’analisi chiarificatrice, intuendo poi subito dopo la grandezza di Brahms, può sembrare ovvio a noi che giudichiamo a sedimentazione della storia avvenuta, ma non era affatto scontato nelle condizioni comuni dell’epoca. Ma ciò che conta sono soprattutto le argomentazioni che avvalorano quei giudizi.
Tra i tanti insegnamenti che ci vengono da Schumann due soprattutto meritano attenzione. Il primo è che la critica non può risolversi in una questione di obiettività, di democratica mediazione e di passiva collocazione super partes. Ogni atteggiamento di questo genere nasce o da una incapacità di distinguere tra manifestazioni dello spirito che comunque non possono essere ridotte a merce di consumo o da un interesse mascherato, per lo piú particolare. Il secondo insegnamento è che l’esercizio critico è un surrogato caratteristico delle epoche di crisi, allorché la creazione s’impoverisce o si confonde invece di bastare a se stessa: «La massima aspirazione dei critici onesti», scrisse una volta Schumann, «dovrebbe essere quella di rendersi del tutto superflui». Non è solo un paradosso. Bach non affidò nessuno dei suoi propositi di compositore a uno scritto qualsiasi, la poetica di Mozart e di Beethoven è tutta intera nelle loro opere. Schumann passò metà della sua esistenza a scrivere per illustrarcene l’altra metà. Sapeva che la creazione, neppure la sua, bastava piú da sola a dare un’impronta netta all’epoca moderna.
Robert Schumann, «Gli scritti critici», Ricordi/ Unicopli, 2 voll., pp. 1168, lire 120.000
da “”Il Giornale””