Vedo il Novecento come un secolo spezzato in tre tronconi. Il primo, che si prolunga fino alla Grande Guerra, è una fiammante appendice dell’Ottocento e, insieme col secondo, che comprende gli anni fertilissimi fra le due guerre, viene definito convenzionalmente, ma con ottime ragioni, “Novecento storico”. Solo il terzo – dal secondo dopoguerra a oggi – è il nostro secolo: nel senso che le sue problematiche sono ancora le nostre e noi ne siamo parte attiva, non solo come spettatori, ma anche come attori. Sulla prima metà del Novecento, che è un capitolo – chiuso – della storia della musica, è difficile dare una risposta al quesito. Sarebbe un po’ come doverlo fare per l’Ottocento o sul Settecento. Sono più fondamentali Bach o Haendel, Mozart o Beethoven, Wagner o Brahms? Ossia Puccini o Richard Strauss, Schönberg o Stravinskij, Berg o Webern? Sono questioni che sul piano storico non hanno senso, e su quello personale attengono al gusto, alla misura e alla cultura di ognuno. Potrei dire che per me Strauss vale dieci Puccini, e che Schönberg è molto più importante ma Stravinskij mi diverte di più: anche se riuscissi a spiegarlo criticamente, tutto resterebbe immutato. Una parte del nostro secolo non solo è ormai storicizzata ma viene valutata con metri di giudizio che non differiscono da quelli classici. A nessuno verrebbe mai in mente di sostenere che il Novecento non abbia prodotto arte di livello pari a quella del passato e non sia stato anzi un secolo di creatività assoluta, addirittura unico nella sua varietà e ricchezza: tanto vario e importante da non consentire una graduatoria se non per via astratta o, peggio, ideologica. Da questo punto di vista, il secondo Novecento, se da un lato ne è la conseguenza, dall’altro presenta aspetti che segnano una svolta nettamente indirizzata verso la discontinuità. Non fu il gesto plateale – rivolto a una platea minima – delle avanguardie degli anni Cinquanta a provocare una frattura profonda, bensì il cambiamento del tessuto sociale, civile e culturale a determinare, radicalizzandola, questa svolta: e questo è il fatto centrale del Novecento. La divaricazione sempre più netta fra musica d’arte e musica di consumo, fra élite e massa; la sovrapposizione di un repertorio normativo (compresa una parte del Novecento) al bisogno quotidiano di musica attuale, intesa anche come prodotto del giorno; la rapida diffusione dei mezzi di riproduzione e di comunicazione globale, che hanno alterato metri e valori, influenzando mercati e profitti; l’importanza sempre più eccessiva data agli esecutori rispetto ai creatori: quasi che il segno distintivo della contemporaneità fosse la necessità di un’interpretazione invece che di una creazione. L’accadimento fondamentale che a un certo punto si è incuneato nel Novecento è stata la schizofrenia con cui il passato e il futuro si sono disincarnati dal presente, aprendo una voragine nella stessa nozione di progresso e conservazione. Gli uomini e le opere che mi sembrano fondamentali nel Novecento nostro contemporaneo appartengono a due tendenze. La prima è quella di coloro che hanno previsto e anticipato questa situazione e ne hanno in un certo senso dato testimonianza solitaria, offrendo anche alcuni possibili correttivi a futura memoria. Adorno, per esempio, nei suoi scritti sulla mercificazione estetica prodotta dall’industria della cultura di massa; o Šostakovič, che considero l’emblema della musica del secondo Novecento. Sono coloro che hanno saputo vedere con chiarezza nell’oscurità o riscaldare con un’emozione anche l’oppressione e la sofferenza. La seconda categoria riguarda invece la ricerca di dare una voce, problematica, al nuovo, come accade in Sinfonia di Berio, non a caso scritta nel 1968-1969: il simbolo di una narrazione continuamente interrotta, in cui l’afasia diviene linguaggio e il linguaggio ricostruito mezzo di espressione che dialoga coi morti e coi vivi, per insegnarci a capire cosa accade senza perdere la grazia del gioco. Anche la seconda metà del Novecento ha prodotto grandi opere del cui valore forse non siamo ancora ben consci; ed è ovvio che non saranno le nuove tecnologie a impedire lo sviluppo della musica. La tecnologia dei nuovi strumenti a tastiera e ad arco fu già vista alla fine del Cinquecento come una minaccia alla tradizione secolare della polifonia: con essa si aprì una fase di sviluppo che è durata fino al nostro secolo. Il problema non è temere, con la fine del millennio, la fine della musica, ma perdere nella omologazione vacua la coscienza della sua importanza non effimera e del suo valore non mercantile.