Igor Stravinsky – Oedipus Rexopera oratorio in due atti da Sofocle su testo di Igor Stravinsky e Jean Cocteau nella traduzione latina di Jean Daniélou, per soli, coro maschile e orchestra

I

La genesi della composizione dell’ Oedipus Rex ci è nota fin nei minimi dettagli dai racconti che Stravinsky ne ha fatto prima nelle Chroniques de ma vie (1935) e poi, una trentina d’anni dopo, nei Dialogues con Robert Craft del 1963. Esule russo in Francia dal 1920, Stravinsky sentiva da anni il desiderio di comporre un lavoro drammatico di vaste proporzioni su un soggetto antico e universalmente noto, d’intonazione tragica, che non appartenesse dunque alla tradizione della sua terra, cui si ricollegavano invece le tre opere di soggetto fiabesco o buffo precedenti (ossia Le Rossignol, Renard e Mavra). Il problema principale era costituito dalla lingua: il russo, la sua lingua, era musicalmente impraticabile a queste condizioni; mentre il francese, il tedesco e l’italiano gli erano estranei per questioni di temperamento.

Tornando da Venezia a Nizza nel settembre 1925, Stravinsky si fermò per alcuni giorni a Genova, città che gli era cara per un ricordo felice (vi aveva festeggiato, nel 1911, il quinto anniversario di matrimonio con Ekaterina Nossenko, la sua prima moglie). Qui, su una bancarella di libri, fu attratto da un volume in francese: la traduzione della biografia di San Francesco d’Assisi scritta da Johannes Joergensen. La comprò e la lesse quella notte stessa. Un passo lo colpì subito enormemente: «Il provenzale era per San Francesco il linguaggio della poesia, il linguaggio della

religione, il linguaggio delle sue più belle memorie e delle ore più solenni, il linguaggio cui ricorreva quando il suo cuore era troppo colmo per esprimersi nella sua lingua, l’italiano, che per lui era divenuto popolare e basso per l’uso quotidiano: il provenzale era la lingua della sua anima. Ogni volta che parlava in provenzale, coloro che lo conoscevano capivano che era felice».

Questo spunto, per quanto enfatizzato, diede a Stravinsky l’idea di servirsi per la sua nuova opera di una lingua speciale, a suo modo sublime, circondata da un’aura di ritualità e di sacralità. E questa lingua non poteva essere che il latino: scelta che aveva il grande vantaggio di offrirgli «un mezzo espressivo non morto, ma pietrificato e divenuto così monumentale da essere immune da tutti i rischi di scadimento nella volgarità».

Al suo ritorno a Nizza, Stravinsky continuò a meditare sul soggetto della sua opera. Gli pareva che un mito tra i più celebri dell’antica Grecia corrispondesse al suo desiderio di basarsi su una vicenda universale nota a tutti, tale da non aver bisogno di essere esposta seguendo i binari di un’azione drammatica: chiara conseguenza di una idiosincrasia – altro cardine della sua estetica – verso gli sviluppi passati e presenti del dramma musicale. Optò così per 1′ Oedipus Rex. L’opera avrebbe dovuto fondersi sulla convenzione, come una “”natura morta””: «Desideravo lasciare la tragedia, come tragedia, dietro l’opera. Pensavo di distillarne con ciò l’essenza drammatica per essere libero di concentrare maggiormente l’attenzione su di una drammatizzazione puramente musicale» (Dialogues). Per il libretto, Stravinsky decise di affidarsi a Jean Cocteau, di cui era amico fin dai tempi delle prime stagioni parigine dei Ballets Russes, cioè da prima della guerra, e di cui aveva ammirato la riduzione dell’Antigone di Sofocle da lui allestita all’Atelier di Parigi alla fine del 1922 (ma Stravinsky forse la vide all’inizio del 1923). Il compositore aveva idee molto precise sulla messa in scena della sua opera. Voleva assolutamente che ci fosse sul palcoscenico solo il minimo indispensabile di azione. Immaginava il coro seduto in una sola fila, che leggeva la parte con il volto nascosto da cappucci, mentre i cantanti dovevano stare su pedane, ciascuno a diversa altezza. Una nota premessa alla partitura dà questa indicazione: «Tranne Tiresia, il Pastore e il Messaggero, i personaggi restano nei loro costumi e nelle maschere costruite. Si muovono solo le teste e le braccia. Debbono avere l’aspetto di statue viventi». Stravinsky voleva che i cantanti venissero illuminati durante le loro arie. Creonte e Giocasta dovevano apparire già sul palcoscenico, invece di entrarvi. Edipo doveva stare sempre sulla scena, e la sua cecità nella scena finale manifestarsi con un semplice cambiamento di maschera. Benché chiaramente concepito come Opera, e sia pure sui generis, appare evidente che Stravinsky nutrisse più di un dubbio sulla possibilità che il suo lavoro venisse accettato in teatro come tale; così decise di renderlo eseguibile anche nelle sale da concerto e lo indicò con il termine di Opera-oratorio, in sé ibrido ma non estraneo alla sua natura composita.

Il rapporto con Cocteau non fu né facile né disteso. Il poeta fu costretto suo malgrado a cedere quasi completamente alla volontà del compositore: il quale chiese ed ottenne che il libretto venisse riscritto due volte e lo sottopose infine a una limatura finale. Solo a quel punto il testo venne consegnato a padre Jean Daniélou perché lo traducesse in latino. E lecito ritenere che Cocteau soffrisse non poco questi condizionamenti: lo dimostra tra l’altro il fatto che la sua versione in francese non venne mai pubblicata. Delle sue idee originarie ne sopravvisse praticamente solo una: quella di un Narratore (o Speaker, come è indicato in partitura) che assume le funzioni dello “”storico”” dell’oratorio e che, vestito in abito da sera contemporaneo, anticipa gli eventi dell’azione scena per scena, leggendoli nella lingua del pubblico. Questo espediente dello speaker fu più tardi

criticato nei dialoghi con Craft da Stravinsky stesso, che retrospettivamente lo giudicava troppo didascalico e artificioso. Cionondimeno, l’efficacia del suo carattere straniante appare ancora oggi uno dei punti di forza del lavoro, in linea con le scelte stilistiche dell’opera, giacché consente, distinguendo i piani dell’azione, di concentrarsi sullo svolgimento puramente musicale della partitura.

La composizione musicale ebbe inizio 1’11 gennaio 1926 e proseguì con qualche interruzione nei mesi successivi, per essere completata il 14 marzo 1927. La strumentazione fu finita alle quattro del mattino del 10 maggio 1927, appena venti giorni prima dell’esecuzione, che avvenne al Théàtre Sarah Bernhardt di Parigi il 30 maggio 1927 nell’ambito dei Ballets Russes di Djagilev, per festeggiare il ventesimo anniversario della sua attività teatrale; sotto la direzione del compositore, ma in forma di concerto. Era accaduto infatti che, di fronte allo scarso entusiasmo del dedicatario, il quale non aveva mancato di considerare quel singolare omaggio un “”cadeau très macabre””, e in seguito alle difficoltà insorte per la commissione della scenografia e la preparazione dei cantanti, Stravinsky accettasse il suggerimento di Djagilev di eseguire l’ Oedipus Rex semplicemente come concerto, senza scene e con i protagonisti in abito da sera, seduti sul palcoscenico davanti a un sipario di velluto nero. Il lavoro non suscitò grande impressione quando venne udito per la prima volta; sicuramente gli nocque l’accostamento con L’uccello di fuoco, che era nello stesso programma: fu eseguito tre volte e poi più. Il ricordo di Stravinsky nei Dialogues suona lapidario: «Prevedevo che 1′ Oedipus non avesse probabilità di successo con il pubblico parigino del balletto. Ma quando il mio austero concerto vocale fu messo in programma vicino a un balletto così pieno di colori, il fiasco risultò maggiore di quanto avessi previsto. Il pubblico non si comportò in modo molto educato». La prima rappresentazione in forma scenica ebbe luogo a Vienna il 23 febbraio 1928. Seguì un’edizione alla Krolloper di Berlino, diretta dal giovane Otto Klemperer. Alla prima rappresentazione del 25 febbraio 1928 era presente Arnold Schönberg, che rimase freddo e distante. Egli fu il primo di una vasta schiera di artisti, tra i quali va annoverato anche uno stravinskiano di ferro come Pierre Boulez, che evidentemente faticano a entrare in sintonia di gusto, come è legittimo, con la maschera mortuaria di un genere antico e sacrale. Dietro la quale si cela, come altrettanto legittimamente si può ritenere, uno dei più lucidi esorcismi della riflessione artistica, capace di intridere di pietà e di amore la consapevolezza della crisi e l’angoscia dell’essere, per trasfigurare nell’ordine e nella chiarezza l’oggettiva negatività nel mondo.

 

Opera od oratorio? La domanda sulla prevalenza del genere, e quindi sul giusto modo di eseguire 1′ Oedipus Rex è, sotto ogni punto di vista, anche storicamente, oziosa: giacché se intuiamo che il contenuto musicale della partitura sia drammatico, le indicazioni per la messa in scena e la loro cornice presentano un quadro niente affatto operistico. I personaggi del dramma interferiscono tra loro non con i gesti ma con le parole. Nessuno di loro “”agisce””, e ciò che guida il movimento scenico è il narratore, e solo per mostrare il suo distacco dagli altri personaggi in scena, che non si voltano per ascoltare ciò che dicono gli altri ma si rivolgono direttamente al pubblico. Nella sua dinamica bloccata, dunque, l’opera tende a una dimensione statica di tipo oratoriale, sospesa nel tempo e nello spazio, dove il dramma è interno alla musica e la distanza dall’azione è accentuata dalla lingua latina, al tempo stesso convenzionale e rituale. Ciò rende 1′ Oedipus Rex una sorta di astrazione metafisica che può far pensare alla tecnica della pittura cubista, una specie di incubo di inesorabile fissità e di abbagliante autonomia strutturale, che riemerge dalla memoria con nettezza di contorni, ma enigmaticamente: da ultimo paradossalmente esorbitante sia dalla finzione illusoria del teatro sia dalla dichiarata formalità della sala da concerto. L’opera-oratorio Oedipus Rex si compone di due atti, preceduti da un Prologo parlato e seguiti da un Epilogo. Nel passaggio dalla fonte al libretto sono mantenuti i nodi essenziali della tragedia di Sofocle, ma le funzioni drammatiche sono in larga misura modificate e talvolta addirittura ribaltate: alcune parti sono drasticamente eliminate e altre che nella tragedia sono affidate a singoli personaggi vengono trasferite al coro. Un confronto tra fonte e libretto mostra come Stravinsky abbia mirato a una sintesi essenziale del dramma, di tipo quasi aforistico, e l’abbia sviluppata compositivamente, con frequenti ripetizioni sia di parole sia di figure musicali ad esse collegate.

Nel Prologo lo Speaker, rivolgendosi agli spettatori, espone gli antefatti. Tebe è demoralizzata. Dopo la Sfinge, infuria la peste. Il popolo supplica Edipo di salvare la città. Edipo, che ha già vinto la Sfinge, promette. All’apertura del primo atto il coro (tenori e bassi) riprende e amplifica questa supplica. La semplice scansione corale del testo, su un andamento ostinato di 6/8, è sorretta da accordi dell’orchestra collegati da rapide scale ascendenti e discendenti. Questo ostinato si ripresenta più volte nel corso dell’opera e assume in momenti particolari un significato simbolico, quasi di uniforme impassibilità: esso ritorna anche alla fine, a siglare la conclusione della partitura nel segno di un destino immodificabile. Una seconda idea musicale affidata a pianoforte, arpa e timpano, che ritornerà anch’essa alla fine dell’opera, sottolinea, con una costante ritmica di pulsazione funebre, sempre ossessivamente chiusa nella ripetizione di una terza minore, la lamentazione corale, offrendo lo spunto per un successivo episodio stilizzato ritmicamente dai corni sulle parole “”e peste serva nos””. La risposta di Edipo (tenore) si caratterizza per la ricchezza di melismi, fioritura, arabeschi, ampollosi vocalizzi. All’inizio l’ornamentazione della sua parte si stacca nettamente dalla sillabazione ostinata del coro e assume un sapore di ieratica, quasi liturgica solennità, di tinta arcaica. Solo in seguito il suo canto diventerà più incerto e nervoso, a tratti quasi isterico, gridato, svelando così dapprima la fragilità umana e la vanità del personaggio, poi la sua resa alle forze “”che ci sorvegliano al di là della morte””.

Spinto dalla supplica del popolo, Edipo ha inviato il cognato Creonte a interrogare l’oracolo. Il coro saluta l’arrivo di Creonte con fiduciosa speranza. Lo Speaker introduce poi Creonte (basso-baritono), che torna recando il responso dell’oracolo: “”l’assassino del vecchio re Laio si nasconde in Tebe e deve essere punito””. Creonte sta dalla parte degli dei; alla sua grande aria in do maggiore con da capo, solenne e profonda nella sua maestà, Edipo risponde vantando la propria abilità nello sciogliere enigmi, in un arioso accompagnato da figurazioni ritmiche degli archi e inframezzato da brevi interventi corali e strumentali: come liberò Tebe dalla Sfinge, ora scoverà l’assassino di Laio. Lo Speaker continua: Edipo interroga il vate Tiresia, la fonte della verità. Il suo silenzio irrita il re. Questi accusa Creonte di volere il trono e Tiresia di essergli complice. Costretto a parlare, Tiresia (basso) si decide a rivelare che “”l’assassino del re è un re””. La sua aria, preceduta da un saluto del coro, è nobilmente dolorosa e ammonitrice, sostenuta ora da note ribattute ora da salti ampi e plastici arpeggi, che definiscono l’austera gravità del personaggio. Contro di lui si scagliano le minacce di Edipo, che ostenta sicurezza. La comparsa di Giocasta (mezzosoprano) vale a stemperare la tensione di un oscuro presagio: il coro intona uno squillante “”Gloria”” osannando la regina. Dopo martellanti figure ritmiche di legni, archi, timpani e pianoforte, il primo atto termina su un accordo di do maggiore luminosamente strumentato per i fiati con il coro.

L’atto II inizia con la ripresa del “”Gloria”” finale del I atto. Poi lo Speaker anticipa nuovamente l’azione: la regina Giocasta non crede negli oracoli. Avevano predetto che Laio sarebbe morto per mano di suo figlio, invece è stato assassinato dai ladroni all’incrocio di tre strade. “”Trivium!””: questa parola spaventa Edipo, il quale ricorda che arrivando da Corinto ha ucciso un vecchio all’incrocio di tre strade. Giocasta rimprovera i prìncipi: dimostrerà che gli oracoli mentono. La sua aria, tesa e drammatica, culmina appunto sulle parole: «oracula mentita sunt””. E preceduta da una sorta di recitativo patetico (“”Nonn’ erubeskite””) e spazia da sinuose curve baroccheggianti a esplosioni di concitazione quasi furiosa, sottolineata dall’orchestra con ostinati ritmici sempre più incisivi (si riconoscerà, nella sillabazione ossessiva di “”mentita sunt oracula””, un collegamento col “”ritmo del destino”” della Quinta di Beethoven). Quando la regina ricorda l’uccisione di Laio, il coro insiste sulla fatidica parola: “”trivium””. Edipo è in preda al terrore, il suo canto si fa frantumato e ansimante, come se lottasse con una verità che a poco a poco si fa strada nella sua coscienza. Un timpano solo fa eco alle parole di Edipo “”Ego senem cecidi””, con uno scarno effetto di potente tragicità (si noterà di passaggio che Stravinsky sbaglia l’accentazione della parola “”cecidi””, che accentata sulla e come compare nel suo testo significa “”Io muoio””, mentre avrebbe dovuto essere accentata sulla prima i per significare “”Ho ucciso il vecchio””). Un “”tempo agitato”” cui partecipa tutta l’orchestra sostiene il duetto tra Giocasta, che ammonisce il re a non credere agli oracoli, ed Edipo, che pur avendo paura vuole sapere.

E ancora lo Speaker ad anticipare la peripezia del dramma: un messaggero reca la notizia della morte di Polibo, re di Corinto e presunto padre di Edipo, e rivela al re che egli non era il suo vero padre, ma il padre adottivo. Il coro introduce il Pastore (tenore) e il Messaggero (basso  baritono), portatori della cruda verità. E quando il racconto del Pastore che aveva raccolto il piccolo Edipo svela essere questi il figlio di Laio e Giocasta, le ritmiche scansioni del coro in risposta alle rivelazioni sono irrigidite da un accordo caratterizzato dai timbri strumentali e dalla percussione;

ripetuto quattro volte, esso sottolinea il momento della verità. Alla vocalità elementare e diretta del Pastore, accompagnato dal timbro di due fagotti sull’andamento di un cullante 6/8, e a quella nervosa e sincopata del Messaggero, quasi modellata sullo stile della musica popolare russa, si contrappone il tremore afasico di Edipo, come inebetito sulla ripetizione della parola “”nefastum””.

Poi la scena si spegne in una semplice formulazione di ironia tragica: “”Lux facta est!””. Una fanfara di trombe annuncia l’Epilogo, introdotto dal recitante: Giocasta si è uccisa, Edipo si è accecato con le fibule d’oro della regina.

La figura di scale che iniziava l’opera ricompare con il suo moto oscillante, a ondate; il disegno ritmico implacabile accompagna il coro che rievoca la fine di Giocasta e il terribile furore di Edipo. Per quattro volte le violente scale degli archi e l’annuncio del Messaggero si alternano al commento corale: dopo un ultimo sussulto prevale infine la pietà, e con la scarna fissità del ritmo ostinato, ora quasi accettato come un segno del destino, il popolo di Tebe tributa un accorato, stilizzato saluto all’infelice Edipo.

 

Scriveva Cocteau: «La luce invece di smorzarsi crescerà di intensità fino alla fine. Il dramma, cominciato nell’ombra, termina in pieno sole, con Edipo cieco». Accettando la convenzione come forma, come garanzia di un ordine immanente e immutabile, Stravinsky concentra la tragedia di Sofocle non su Edipo o sugli altri personaggi, ma sullo svolgimento fatale, quasi geometrico, delle linee nel loro ineluttabile intersecarsi. Questo atteggiamento dichiaratamente antipsicologico e oggettivo sposta l’attenzione della vicenda in sé, che difatti viene narrata e non “”agita””, alle conseguenze che essa ha non solo sugli individui che vi sono implicati ma sul modo stesso di riviverla: come se ad esserne protagonisti fossero non tanto i personaggi in prima persona, quasi attori di una vicenda che li trascende e a cui assistono impotenti, ma i meccanismi di incastri governati da un determinismo tragico e perfetto nella sua logica, rispecchiato da agenti esterni che si palesano in forma di oracoli o di luoghi emblematici. La progressiva presa di coscienza del laccio che si stringe attorno a Edipo non è caratterizzata da una dinamica lineare e ascensionale, ma dal paradosso secondo cui il dramma tanto più si illumina quanto più l’ombra e la tenebra avvolgono circolarmente la storia. E la tendenza verso un anticlimax è sottolineata dal ritorno, alla fine, dello stesso tempo con cui il dramma era iniziato, scandito dal coro e dall’accompagnamento ostinato: quasi il chiudersi del cerchio in una morsa fatale.

Le linee architettoniche dell’ Oedipus Rex hanno dunque una sorta di pietrificata staticità. A questa concorrono non tanto l’uso in sé di forme chiuse della tradizione, come arie, duetti e cori, quanto il repertorio di formule, che Stravinsky stesso giudicava “”anodine e anonime””, di cui l’opera è sostanziata. Si va dal Barocco, con particolare riferimento all’oratorio hndeliano, fino all’Ottocento melodrammatico francese e italiano: senza però che sia possibile riconoscere allusioni univoche, o deliberate citazioni. E come se tutto questo materiale di riporto venisse sospeso in un gelido, irreale rito, e da ciò ricevesse nuova forza e pregnanza, collegando l’epoca lontana al presente nella dimensione di un passato eternamente immutabile. La monumentalità austera a cui tende il musicista non ha nulla di celebrativo né di intenzionalmente critico, non significa né restaurazione di stili del passato né volontà di opporre ai linguaggi della modernità un sistema antico di valori: essa è semplicemente espressività mediata, riflessione sulla capacità della musica di abbattere le barriere tra invenzione e storia.

Il rilievo conferito al ritmo, e più ancora il carattere dell’invenzione ritmica modellata sullo studio dei metri classici (a tal punto da sacrificare talvolta la correttezza degli accenti per esigenza di libertà nel musicare le sillabe) sono determinanti in una partitura che nasce con questi presupposti. Figura portante ne è l’ostinato, che rappresenta con la sua regolarità il simbolo dell’ineluttabilità nel

concatenarsi degli eventi. Ancor più efficace appare questa ossessiva ripetizioni di formule ostinate quando sia combinata con parole-chiave, che ne risultano così non solo evidenziate ma addirittura assolutizzate (per esempio pestis, oracula, trivium, nefastum), o con ripetizioni di parole all’interno di frasi seccamente scandite, che sembrano quasi comunicare una verità di cui non si voglia prendere atto: come nel caso del duetto tra Giocasta ed Edipo, tutto giocato sull’alternarsi di illusione e svelamento.

Altro elemento caratterizzante è l’uso delle armonie e più latamente delle tonalità. Che l’opera sia letteralmente impregnata del modo minore può sembrare già di primo acchito coerente con il tono luttuoso che la pervade. In realtà i rapporti sono più sfumati, complessi e insieme significativi. Edipo, nelle sue arie, sembra lottare continuamente per affermare il modo maggiore, che altrettanto continuamente sembra sfuggirgli e beffardamente eluderlo. Solo nel momento in cui raggiunge la completa coscienza del suo crimine, sulle parole “”Lux fatta est!””, si afferma in modo inequivocabile, con chiarezza accecante, la tonalità di re maggiore, secondo una associazione di relazioni che è contemporaneamente musicale e sapienziale. Il coro degli uomini di Tebe, che all’inizio piange la piaga che infesta la città, è significativamente in minore; ma quando esso riappare alla fine, dopo che l’enigma è stato sciolto e il re colpevole, cieco, ricompare per avviarsi all’esilio, esso risuona in maggiore, per tornare poi al minore nella trenodia, quasi marcia funebre, dell’addio. Do maggiore si afferma invece splendidamente nel coro che inneggia alla regina Giocasta alla fine dell’atto I e all’inizio dell’atto II; ma interamente in minore, quasi presagio di sventura, è la grande aria di Giocasta che segue. Anche qui non si dovrebbe parlare di introspezione psicologica bensì, semplicemente, di analisi tragica.

Nell’Oedipus Rex il coro, che impiega le sole voci maschili, assume un ruolo decisamente attivo, e più nel senso di un oratorio che di un’opera. Del primo assolve a due funzioni, ora di coro-turba (lamentoso nel coro iniziale, “”Kaedit nos pestis””, raggiante nel “”Gloria”” indirizzato a Giocasta), ora di historicus, come alla fine, quando narra i “”fatti orrendi”” alternandosi con il Messaggero. Della seconda riprende invece la funzione di amplificazione drammatica quando si intreccia con i personaggi e con l’orchestra divenendo parte attiva della rappresentazione, quasi prendendo vita di personaggio individuale. Un discorso a parte merita la parte finale, la “”tarantella funebre””, come la chiamava Stravinsky, che inizia con le parole “”Mulier in vestibulo””. Stravinsky stesso ironizzava sul fatto che quel coro venisse citato «da gente – aggiungeva – che non possiede uno stile personale, come un brano di gaiezza inopportuna, una coda di balletto, persino un cancan». «L’invereconda truculenza ritmica, che può far pensare al dinamismo puro di certi passi della Carmen», di cui scriveva Massimo Mila, non è altro che un esempio ulteriore di quel doppio livello – vaneggiamento inquadrato in un controllo musicale rigoroso – che contraddistingue la visione stravinskiana della tragedia, insieme fossilizzata nella morte e pulsante di vita. Viene così ribadito il senso più profondo della sua appropriazione del mito classico: mezzo di conoscenza che conduce alla verità e preserva dall’oblio. Esso può essere colto solo fingendo impassibilità e freddezza, purificando il fuoco dei sentimenti e la lucidità della ragione nella catarsi rigeneratrice della forma.


Gianluigi Gelmetti,  Norbert  Balatsch / Massimo Foschi, Luciana D’Intino, Jon Villars, Antonino Siragusa, Nikolaj Putilin, Ildebrando D’Arcangelo, Orchestra  e Coro  dell’Accademia  Nazionale  di Santa Cecilia
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Gestione autonoma dei concerti – Stagione sinfonica 1997-98

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