Igor Stravinskij – Suite da Pulcinella da G. B. Pergolesi

I

Dal balletto con canto in un atto Pulcinella, commissionatogli da Diaghilev e rappresentato per la prima volta a Parigi il 15 maggio 1920, Stravinskij trasse nel 1922 una suite da concerto composta di otto numeri dei diciotto originari. In essi le voci sono sostituite dagli strumenti, e ciò accresce la genialità di questa singolare rivisitazione del Settecento napoletano, una delle pietre miliari del neoclassicismo novecentesco. Per la prima volta, rifacendosi ad un materiale proveniente dal passato (nel nome del massimo rappresentante della scuola napoletana, Giovanni Battista Pergolesi), Stravinskij stabiliva un rapporto tra avanguardia e tradizione, tra libera invenzione e ricalco stilistico di procedimenti compositivi lontani nel tempo: assunti, questi ultimi, non per essere restaurati, ma per risuonare come voci immediate del presente, con i tratti inequivocabili della modernità. In questo senso ha poca importanza che buona parte dei materiali su cui lavorò Stravinskij fossero falsi pergolesiani, come le indagini più recenti hanno dimostrato (solo nove dei pezzi inseriti nel Pulcinella sono davvero di Pergolesi): ciò che conta è il gesto, e in secondo luogo la realizzazione, ossia la saldatura di passato e presente sul piano di una appropriazione disinvolta perché puramente musicale. Dove la vertigine che avvolge con le sue armonie dissonanti e i suoi ritmi spezzati il materiale di partenza si ricompone nella nitidezza di una strumentazione incredibilmente ricca di trovate pur nell’organico limitato dell’orchestra da camera. Ognuno degli otto pezzi circoscrive un mondo sonoro ed espressivo a sé stante, ben al di là dei riferimenti a forme volutamente classiche (dalla Ouverture alla Serenata, alla Tarantella, dalla Toccata alla Gavotta con variazioni, al Minuetto che precede il gran finale); essi coniugano un lucido virtuosismo a un gusto dello spiazzamento e della sorpresa, che ne è il connotato fondamentale: con diversi tipi di intervento che vanno dalla funzione straniante, grottesca e caricaturale della strumentazione (esempio massimo l’uso sfrontato del trombone nel settimo brano, Vivo), alla solare immedesimazione nell’estrosa vitalità dei ritmi e nelle figure di un paesaggio dai colori accesi. Visto però attraverso la lente d’ingrandimento di particolari deformati, come nei quadri di Picasso.

Zubin Mehta / The London Philarmonic
Teatro comunale di Ferrara, Stagione concertistica 1991/92

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