Fra le opere di Mozart, Idomeneo è quella che per tutto l’Ottocento e anche per buona parte del nostro secolo fu meno capita tanto dalla musicologia quanto nella prassi teatrale. Si può anzi affermare che la sua vera storia ricominci, dopo la prima di Monaco del 1781, soltanto nel 1972, con la pubblicazione della partitura originale curata da Daniel Heartz per la Neue Mozart-Ausgabe (2 volumi, con commento critico e varianti relative anche alla revisione di Mozart per Vienna del 1788). Eppure quest’opera non cessò mai di occupare la mente dei direttori di teatro e d’orchestra, degli editori e dei compositori. Dimenticata non fu mai: ma per conservarla, o per resuscitarla alla vita del teatro, parve necessario, successivamente, modificarla e correggerla. Con manomissioni pesanti, sovente pesantissime.
Paradossalmente, a nuocerle fu proprio l’inaudita novità e ricchezza della composizione, in chiaro anticipo sui tempi dal punto di vista della continuità e dell’efficacia drammatica, e nello stesso tempo insoddisfacente alla luce dell’evoluzione della tradizione dell’opera seria nell’Ottocento. L’abate Varesco, con la collaborazione di Mozart stesso, aveva preparato un libretto che offriva tutte le possibilità per arie, pezzi d’insieme, cori, intermezzi sinfonici e perfin il balletto in aggiunta. Mozart colse immediatamente l’occasione per intraprendere strade nuove nell’unione di scena e orchestra. L’orchestra divenne portatrice dell’emozione drammatica. E acquistò una capacità nuova, quella di esprimere musicalmente un avvenimento scenico. Per lunghi tratti – senza cantanti – l’orchestra rappresenta il collegamento interno fra scena e scena, agendo quale mezzo di definizione e di mediazione delle situazioni e degli stati d’animo dei personaggi. Soprattutto nei recitativi accompagnati (il basso continuo a Mozart non basta più) si definisce l’atmosfera della situazione: i recitativi secchi vengono sempre più compressi, le arie portate all’«espressione» con abbandono, a volte, delle consuete colorature virtuosistiche. L’intervento dell’oracolo, non più mero deus ex-machina della vicenda, richiede continue modifiche, al fine di riuscire «il più conciso possibile».
Perché dunque tante rielaborazioni, e rimaneggiamenti così profondi da svilire le intenzioni più gradiose del compositore? La ragione sta nel fatto che alla forza della musica, alla ricchezza delle melodie e all’audacia dell’armonia e della strumentazione, non parve corrispondere tn adeguato sviluppo drammatico: impedito, frenato nel suo corso dalle convenzioni tesse che Mozart aveva riformato dall’interno, ma non abbandonato del tutto. Idomeneo è un risultato assoluto nella produzione di Mozart; ma è anche un punto di partenza di uno stile personale che verrà affinato successivamente, nella drammaturgia e nella fusione dei generi. E ad asso si guardò, come modello.
Del resto, Mozart stesso aveva accarezzato l’idea di una rielaborazione per la prima ripresa dell’opera a Vienna. In primo luogo desiderava una traduzione tedesca del libretto, nella quale 1’«eroe» Idomeneo diventava un basso. Non se ne fece di nulla: e forse qui fu seppellito un grande progetto. Nel 1786, quando l’opera finalmente giunse a Vienna, la parte di Idamante – originariamente cantata da un castrato – venne affidata a un tenore; ciò comportò modifiche alla condotta delle voci nei pezzi d’insieme (compreso il sublime Quartetto). Rilevanti, quasi accaniti furono ancora i tagli dei recitativi secchi: Mozart cambiò inoltre il duetto Ilia-Idamante nel terzo atto e compose una nuova aria per il tenore, con solo di violino.
Nell’Ottocento, le revisioni, i rimaneggiamenti e le vere e proprie rielaborazioni si moltiplicarono via via che Idomeneo veniva riproposto sulla scena, nei teatri tedeschi e francesi: da «dramma per musica» qual era, divenne «opera seria», «dramma eroico», perfino «pasticcio» accanto a musiche altrui. A impegnarsi, con l’idea che comunque sul testo si dovesse intervenire con tagli o aggiunte, furono librettisti come Treitschke (quello che darà a Beethoven l’ultima e definitiva versione del Fidelio), editori come Schlesinger, scrittori come Zuccalmaglio, uomini di teatro come Leopold Lenz (che stabilizzò istituzionalmente la tendenza di un Idomeneo in tedesco nei teatri tedeschi), direttori d’orchestra come Hermann Levi. E, naturalmente, compositori in gran quantità: con i quali le vicende di Idomeneo entrano nel nostro secolo, chiamando in causa fra i tanti anche personalità di spicco come Ermanno Wolf-Ferrari (Monaco, 1931) e Richard Strauss (Vienna, sempre 1931: ossia centocinquant’anni dopo la prima di Monaco) .
Il rifacimento di Wolf-Ferrari è un esempio di vera e proprio brutalità: recitativi tutti rifatti, modulazioni e tonalità cambiate, collegamenti assurdi fra scena e scena; l’oracolo fa sentire qui due volte la sua voce, e perciò viene soppressa la grande aria di Elettra in do minore. Quello di Strauss (sulla «completa rielaborazione» del libretto di Lothar Wallerstein) dimostra fino a che punto un compositore di genio, che amava e comprendeva la musica di Mozart come pochi altri, potesse farsi prendere la mano da un falso problema: rendere Idomeneo un dramma musicale in senso wagneriano. Neppure in questo riuscì. Le modifiche, le parti aggiunte (come l’interludio inserito alla fine del secondo atto, distruggendo la miracolosa dissolvenza mozartiana) sono sì del miglior Strauss, ma niente affatto funzionali allo scopo. Anche la strumentazione originale viene corretta, ripristinate parti che Mozart stesso aveva espunto, sostituiti personaggi (Elettra diviene la sacerdotessa Ismene). Solo nel caso di Idamante, parte che Strauss affida a un soprano in sostituzione del tenore, si torna a uno stile più prossimo all’originale. Che sarà perseguito, anche se non fino in fondo, da Bernhard Paum-Gartner con la sua «riduzione» della partitura per la ripresa dell’Idomeneo al Festival di Salisburgo nel 1956.
Da tutta questa confusione, che tuttavia conferma la vitalità di un’opera comunque troppo grande per essere seppellita, noi siamo in grado di uscire oggi accettando un sacrosanto principio: soltanto un’esecuzione integrale, senza rimaneggiamenti e senza interventi di alcun tipo nel testo e nella musica, può metterci nella condizione di capire esattamente quest’opera. È quanto finalmente ci si appresta a fare alla Scala.
da “”Il Giornale””