I disagi dei contemporanei

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La situazione della «nuova musica» in un dibattito a Palermo

 

Palermo – Un convegno promosso dal Teatro Massimo di Palermo e dall’Associazione nazionale dei critici musicali ha messo sotto inchiesta la situazione della musica contemporanea in Italia dal punto di vista non tanto della produzione quanto della organizzazione e della critica. I lamenti sono stati quasi unanimi: per gli addetti ai lavori la musica contemporanea è penalizzata da una programmazione incline a riproporre i soliti titoli di un repertorio sempre più limitato, per cercare il consenso del pubblico senza esporsi troppo; gli stessi spazi della critica negli organi di informazione non specializzati sarebbero soffocati dall’indifferenza se non dal disinteresse per i compositori di oggi e la loro produzione. Si mancherebbe così a un obbligo nei confronti della musica della nostra epoca, che è pur sempre lo specchio della nostra civiltà e delle nostre aspirazioni.

Tutte le epoche si sono occupate attivamente di ciò che di nuovo si veniva producendo. E la critica musicale in senso moderno è nata per sostenere o contrastare i nuovi sviluppi via via che questi si presentavano. Se ciò è vero, è altrettanto vero che le vicende artistiche del nostro secolo – soprattutto a partire dagli anni Cinquanta, con il radicalizzarsi del contrasto tra avanguardie e tradizione – hanno prodotto un volontario esilio della «nuova musica» dai luoghi nei quali prima normalmente si manifestava. Fu un peccato d’orgoglio le cui conseguenze si sarebbero scontate nel progressivo allontanamento dei compositori dal pubblico, e del pubblico dai compositori.

Solo da qualche tempo a questa parte ci si è accorti con una certa preoccupazione che la musica colta, travolta da nuovi, debordanti fenomeni di consumo, conduceva la sua esistenza in luoghi appartati e poco frequentati, e si è cercato di interrogarsi sui motivi e sui rimedi: non sempre, va detto, con fini di idealità pura. Ma a questo punto le lamentele non servono e sono anzi controproducenti se dimenticano due fatti essenziali. Il primo è che la musica contemporanea non può essere imposta come una causa da sposare a tutti i costi (“Hai già perso la causa”, direbbe la Susanna delle Nozze di Figaro); soprattutto distinguendo aprioristicamente i compositori «progressisti» da quelli «reazionari»: termini intesi sovente non in base alla qualità, ma agli schieramenti di parte (non sono in fondo lontanissimi i tempi in cui un Nono rifiutava per principio di essere presente nel cartellone di un festival come il Maggio Musicale Fiorentino accanto al «conservatore» Menotti: trovando perfino chi lo approvasse). Il secondo fatto è che è pura utopia pensare e anzi pretendere che la musica contemporanea possa avere un pubblico di massa, e che a un’opera moderna si accorra con la stessa partecipazione di una Traviata o di una Cavalleria rusticana: giacché è la sostanza di queste musiche, il carattere e lo stile che le informano – e che hanno certamente ragioni storiche e culturali individuabili nella crisi dei linguaggi e delle convenzioni – a escludere programmaticamente tali possibilità. Non occorre aggiungere che questo fenomeno è oggi forse più accentuato, ma non nuovo: Schönberg non ha mai avuto – ne voleva avere – il pubblico di Puccini o di Strauss, e Rameau era un compositore per pochi, anche se probabilmente era fra i migliori nella Francia di allora.

Il pubblico ha sempre ragione, protestavano qualche giorno fa gli amici mascagnani in polemica con una mia recensione non ortodossa verso il loro idolo. Non è vero. Il pubblico va però rispettato e soprattutto capito, se non educato. Il problema è allora un altro: spingere il pubblico, o meglio i singoli individui, non verso la «causa» astratta della musica contemporanea, ma a cercare una maggiore familiarità con le musiche del nostro tempo, in modo da poterle poi giudicare ed eventualmente apprezzare autonomamente. Sempre che si rifiuti il pessimismo, che pure ha i suoi buoni motivi, di fronte al generale degrado della nostra civiltà musicale.

E qui entrano in ballo anche l’organizzazione e la critica. Nella sua relazione Piero Santi ha dimostrato che i compositori contemporanei hanno moltissime occasioni per farsi conoscere: il numero dei festival e delle manifestazioni a loro dedicate è cresciuto in questi ultimi anni, e non mancano significative presenze anche nei teatri e nelle istituzioni concertistiche che curano il repertorio. Ciò che manca è invece l’osmosi tra un pubblico che preferisce rimanere saldamente attaccato a ciò che già conosce e ama e quello, chiaramente minoritario, che accetta il confronto con le proposte non sempre immediatamente comunicative e facili della produzione attuale. A questa divaricazione, in Italia molto più forte che altrove, si può ovviare solo con una programmazione selettiva e convincente anche sul piano delle proposte comparate, secondo criteri di scelta severi e non univoci.

In questa linea va intesa anche la funzione della critica. La quale troppo a lungo si è prestata a un’opera di fiancheggiamento ideologico della musica contemporanea in quanto tale, senza distinguere al suo interno ciò che andasse oltre una semplice attestazione di principio. Questa barriera potrà cadere solo con una critica capace di individuare senza preventive esclusioni di campo la qualità artistica vera da ciò che è provocazione, esperimento o ricerca: una critica che non solo informi ma che si esponga anche al rischio di un giudizio e di una distinzione. Il resto è solo vittimismo o presunzione.

 

 

da “”Il Giornale””

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