Più ancora di Mahler Hugo Wolf è l’ultimo, grande compositore di Lieder dell’Ottocento. L’aggettivo “”grande”” non si riferisce soltanto alla qualità delle sue composizioni – una qualità che non appare in modo così facile e immediato come in altri compositori – ma anche al fatto che la quasi totalità della sua produzione è costituita da Lieder: sicché a questi, a differenza di Mahler, egli deve tutta la sua importanza. Sarebbe tuttavia improprio considerare Wolf solo l’erede naturale della tradizione di Schubert, Schumann, Brahms e quant’altri coltivarono questo genere nell’Ottocento: con lui il Lied si apparta in un mondo espressivo che non ha radici se non in se stesso, perfino sottraendosi ai legami d’obbligo con il tardo romanticismo e al criterio della discendenza, progressiva o progressista che dir si voglia, dai predecessori.
Nel breve periodo della sua vita creativa – appena dieci anni intercorrono tra il raggiungimento di una padronanza tecnica personalissima, comunque condizionata da una formazione irregolare e disordinata da un lato (1888), e la violenta manifestazione della follia che ne interruppe, analogamente a Schumann, le acutissime facoltà intellettive dall’altro (autunno 1898) – Wolf compose una grande quantità di Lieder, per lo più ispirandosi in blocco a singoli autori. Nessuno come lui basò la sua produzione su una vera, esclusiva passione non già, o non solo, per la poesia in quanto tale bensì soprattutto per determinati poeti. E fra questi il nome di Eduard Mörike (1804-1875) sta al primo posto per numero di testi musicali (ben 53) e per capacità di adesione alle sollecitazioni più diverse della forma poetica: perfino più di altri beniamini del musicista, come per esempio, fra i sommi della letteratura tedesca, Eichendorff e Goethe. Fu anzi Wolf stesso a riconoscere che era stato Mörike a schiudergli le porte del Lied e a fargli trovare la strada di uno stile individuale.
Quando Wolf cominciò a metterne in musica le poesie la sua conoscenza di Mörike datava già almeno dieci anni, ossia dalla giovinezza; cosa tanto più sorprendente se si considera che allora la fama di Mörike non si estendeva ancora oltre i confini della Svevia, la sua patria. Benché avesse cominciato a pubblicare poesie nel 1838, a trentaquattro anni, e alla sua morte esse avessero avuto sei edizioni, Mörike era un poeta semi-dimenticato, non ancora universalmente stimato: in tempi di riflusso verso un ideale di poesia elevata o sentimentale gli aveva nuociuto la sua stessa collocazione di eccentrico sperimentatore di filoni eterogenei nell’arco di un’esistenza scapestrata, che si rifletteva anche nel-la sua indole inafferrabile, incline all’umorismo e al sarcasmo, al ripiegamento e alla solitudine spirituale: doti apprezzate semmai nel geniale narratore di storie fiabesche (inimitabile la grazia della novella Mozart in viaggio per Praga), meno nel poeta. E proprio questa inquietudine in lui così diffusa, a cui faceva da contrappeso un’intima esigenza di armonia e di equilibrio, la varietà dei suoi spunti, ancor più della innata musicalità dei suoi canti e delle sue ballate popolari, che già avevano acceso la fantasia di Schumann e di Brahms, attirarono irresistibilmente Wolf: al punto da costituire per lui un chiaro punto di riferimento. Ma non si trattava soltanto di una speciale affinità per così dire ideale: proprio lo specifico della poesia di Mörike, vale a dire quella singolare commistione di ricerca dell’insolito e di magistrale invenzione tecnica, di estro e di carattere, misero in questo una sorta di mimesi che si sarebbe tradotta in una continua, febbrile passione creativa, fino all’esaurimento delle possibilità di immedesimazione e di espressione in senso compositivo.
Tutti i Lieder di Wolf da Mörike risalgono al 1888, anno cruciale nella sua esistenza, secondo sua stessa ammissione «il più fertile e perciò anche il più felice della mia vita»: esso coincise appunto con una immersione totale nello spirito della poesia di Mörike, al punto che, confessò Wolf, «non potevo letteralmente staccarmene un momento», e portò al superamento di ancor più lunghe incertezze circa la strada da intraprendere come compositore. In essa Wolf riconobbe la sua vocazione. E non è un caso che la raccolta dei Mörike-Lieder, o “”Mörikeana“”, come Wolf amava chiamarla apparsa in quattro volumi nel 1889, si aprisse con Der Genesene an die Hoffnung (Il
malato risanato alla speranza), quasi in segno di ringraziamento per questa uscita dalle tenebre e dal
dubbio. Per giorni e giorni, soprattutto in due periodi di completo isolamento e di ricercata solitudine prima nel borgo di Perchtoldsdorf vicino a Vienna, poi a Unterach sull’Attersee, rispettivamente tra il febbraio e il maggio e nell’ottobre del 1888, Wolf mise in musica le poesie di Mörike al ritmo di una, due e anche tre al giorno, accompagnandone i risultati con entusiastici giudizi e con commenti esaltati, affidati alle lettere che scriveva agli amici. Può servire a descrivere questo clima riportarne in primo piano alcuni passi fra i più tumultuosamente caratteristici.
22 febbraio 1888, all’amico Eduard Lang:
«Ho finito or ora di scrivere un nuovo Lied. Un Lied divino, Le assicuro! Semplicemente stupendo! Dio mio, sono prossimo alla fine dato che la mia intelligenza cresce di giorno in giorno. Fin dove devo arrivare ancora? Pensarci mi fa venire i brividi. […] Che cosa mi tiene ancora in serbo il futuro? Questa domanda mi tormenta e mi perseguita nella veglia e nei sogni. Ho proprio la vocazione?» Lo stesso 22 febbraio alla prima lettera ne seguì una seconda: «La mia lettera era appena partita quando, preso in mano il Mörike, ho scritto subito un secondo Lied, e precisamente in 5/4 e posso ben dire che mai 5/4 è stato più appropriato che a questa composizione. Anch’Ella, pur profano, sentirà subito il tempo di 5/4 già nel ritmo dei versi e si renderà conto della sua necessità» (il riferimento è a Jägerlied). E il 24 febbraio, a proposito di Nimmersatte Liebe, anch’esso presente in questo concerto: «Sono ora le sette in punto e sono così ultra-felice come un re ultra-felice. Mi è riuscito ancora un altro Lied. […] A questo proposito mi viene in mente che Ella può risparmiarsi di comperare le poesie di Mörike, dato che col mio stravagante impulso creativo dovrei essere felicemente in grado di farLe conoscere a questo modo tutte le poesie del mio beniamino in un tempo più o meno lungo». Ancora più categorico è il giudizio su Fussreise, uno dei vertici del ciclo:
«Quando avrà sentito questo Lied potrà avere soltanto un desiderio: morire». Di fronte ai 29 Lieder del febbraio-marzo 1888 si collocano le 14 composizioni scritte tra il 1 aprile e il 18 maggio: Heimweh, che inaugura la seconda serie, segna l’entrata in una temperie più riflessiva, in un atteggiamento volto a sublimare, della poesia, gli accenti più sfumati, sovente toccando la corda più dolorosa. La rarefazione delle immagini richiede ora tempi lenti, sospensioni e dissolvenze, indugi più insistiti. Le stesse armonie svaporano orditamente in suggestioni di pura marca impressionistica. All’entusiasmo subentra una concentrazione più assorta, quasi metafisica, tesa a penetrare nel significato più profondo, recondito della poesia. E su questa linea Wolf proseguirà nei Lieder rimanenti dell’autunno, malinconici e intrisi di nostalgia ma cristallini nelle risonanze.
I dodici brani presentati in questo concerto sono una scelta rappresentativa della raccolta, peraltro nata secondo un ordine non preciso e ancor meno programmatico. Wolf metteva in musica una
poesia anziché un’altra a seconda dell’ispirazione del momento (termine per lui quant’altri mai appropriato), e ogni volta ne traeva una soluzione musicale diversa. Sappiamo che era solito recitare più volte a voce alta la poesia che in quel dato momento lo colpiva, e che ne sviluppava poi al pianoforte l’idea musicale ch’essa gli suggeriva e che poteva essere, a seconda dei casi, di natura essenzialmente melodica, ritmica o armonica. Il pianista Erik Werba, autore di una dettagliata monografia sui Lieder di Wolf, scrive che «per tutta la vita Wolf lavorò al pianoforte. Continuava a elaborare, ad abbellire, a modificare gli schizzi vergati in fretta, finché la stesura musicale non corrispondeva in modo definitivo all’idea musicale che aveva in mente. La bella copia che seguiva era poi soltanto il risultato del processo di lavoro che l’aveva preceduta. Quando i primi schizzi di Wolf non erano ancora conosciuti, ci si meravigliava dell’estrema esattezza dei suoi manoscritti, così chiari e con rare correzioni».
Ogni singolo Lied circoscrive un mondo a sé , porta a compimento un pensiero o lo riprende da capo quasi dopo aver fatto tabula rasa delle conquiste precedenti. Ciò naturalmente non toglie che al loro interno vi siano certi principi basilari, che aiutano a definire lo stile di Wolf nella composizione liederistica sulle cui immediatezze, come si accennava sopra, non è sempre facile contare, ma sulla cui qualità soprattutto in relazione a questi testi, non è lecito avanzare riserve: per Mario Bortolotto Wolf è addirittura «il più geniale dei ritrattisti, il più profondo degli psicologi che la musica conosca». A patto però di aver scoperto la chiave per entrare sul suo terreno e per seguire gli sconfinati orizzonti delle sue creazioni. Nelle quali, ad esempio, il rapporto tra parole e musica obbedisce a una concordanza molto complessa anche nei casi in cui la metrica del testo determini il ritmo della musica, come in Jägerlied: dove il 5/4 eccezionalmente usato da Wolf crea una equivalenza musicale con il ritmo quinario della poesia, ma allo stesso tempo trapassa, per via di
modulazioni inattese, verso singolari intuizioni (l’immagine dell’uccello che saltella sulla neve in cima alla montagna può connettersi così direttamente, con fantastico parallelismo, ai pensieri d’amore).
In generale Wolf mira non tanto a illustrare col suono le parole quanto a seguire un percorso di associazioni che può condurre anche molto lontano, distinguendo le zone principali da quelle secondarie con la elaborazione di elementi musicali nettamente profilati. La conseguenza più evidente è nella rinuncia a uno stile tipo melodia accompagnata, e perfino al concetto stesso di melodia convenzionalmente intesa, spesso sostituita da un declamato flessibile e mobile, disteso su arcate cantabili; le premesse stanno d’altro canto in una preponderanza data al pianoforte anche al di là delle uscite solistiche, e in esso non tanto a figure di riempimento quanto alla densità e alla pregnanza delle relazioni compositive, fra cui spiccano quelle armoniche, condotte fino ai
confini della dissoluzione cromatica. Un aspetto della modernità linguistica di Wolf e del suo estremismo consequenziale nella tradizione del Lied.
Der Tambour è il primo Lied di Mörike composto da Wolf in quell’inverno a Perchtoldsdorf, precisamente il 16 febbraio 1888: qui l’equilibrio tra canto e pianoforte è già il risultato di una raffinata unità. Il ritmo di marcia un po’ sghemba introdotto dal pianoforte si rispecchia all’inizio nella voce, ma a poco a poco se ne astrae nella spettrale visione della poesia, consegnandosi alla fine alla contrapposizione nella dimensione del sogno, per scomparire in un mormorio indistinto, al limite del silenzio, sempre più piano e lentamente. In Nimmersatte Liebe l’idea che sta alla base della poesia è musicalmente resa con la ripresa delle quattro battute introduttive del pianoforte alla fine, in una sorta di ciclicità che corrisponde al contenuto del testo. E lo stesso avviene in Verborgenheit, con una ripresa questa volta della prima strofa a incorniciare l’immagine della lontananza dal mondo e della solitudine immodificabile: cosa che non impedisce alla musica di erompere, nella parte centrale, in un’espressione vivace e appassionata. Auftrag è un couplet di impagabile ironia (l’allegria suggerita dal “”lustig”” dell’intestazione ha un sapore amarognolo, o meglio un retrogusto acidulo), Auf einer Wanderung è una passeggiata musicale solo in apparenza disinvolta e fiduciosa, Begegnung è l’istantanea che sfugge di un incontro felice in un paesaggio di tempesta, guardato con stupefazione e poi spiato con occhi lucidi di commozione (e l’agitazione del pianoforte a ondate che si accavallano in sincope sugli accordi ribattuti del basso si muta in brivido nella parte centrale, all’apparire della fanciulla “”come rosa che il soffio del vento ha sconvolto””: dove i tremoli individuano il climax della passione consumata). Gebet è invece una meditazione, trasfigurata e solenne, su uno stato d’animo di rassegnazione.
Un posto a sé hanno i canti in forma di ballata.
Lied vom Winde presenta nella scrittura pianistica tutto il repertorio, dall’onomatopea delle rapide
scale alla sottolineatura psicologica dei tremoli, di una incantata “”musica dell’aria””: la voce stessa è un sussurro del vento, solo più ansioso e frammentario. Qui il cromatismo è spinto a limiti tanto sottili da risultare infine trasparenti. Non per nulla Wolf parlò in una lettera a Marie Lang di una idea «così spaventosamente strana che ne sono allarmatissimo. Una cosa simile non è mai esistita finora. Dio protegga la povera gente che un giorno lo sentirà»
Fussreise riprende la tematica del Viandante cara ai romantici, circonfusa da un’aura di incalzante, perenne attesa: né, v’è da supporre, vi sarà mai sosta all’incedere di quella marcia curiosamente saltellante che il pianoforte tiene saldamente al basso, mentre la linea vocale è raddoppiata in terza alla destra con una «baldanza appena turbata da leggera malinconia austriaca», secondo Bortolotto. Ma su tutti s’erge la ballata demoniaca Der Feuerreiter, sigillo di una simbiosi perfetta tra descrittivismo favoloso e terribile simbologia: forse con un tratto di immedesimazione nel destino del “”cavaliere del fuoco”” cui un magico divieto impedisce, pena la morte, di spegnere le fiamme. Ed è chiaro, dal modo in cui la musica rappresenta le forze oscure di questo destino, danza macabra ed apocalisse insieme, che neppure nella cenere l’anima potrà riposare in pace.
Valerij Gergeev / Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Gestione autonoma dei concerti – Stagione di musica da camera 1991-92