A Firenze il frammento del Terzo Concerto interpretato dal pianista
Non che ci fosse da illudersi troppo. Ma apprezzando la serietà con cui l’Orchestra della Toscana, da piú di dieci anni, ha impostato il suo lavoro per diffondere il repertorio sinfonico fondamentale come si fa in un qualunque Land tedesco, con umiltà e passione, si poteva credere almeno per una volta all’eccezione, se non al miracolo. Nientemeno che un Terzo Concerto per pianoforte e orchestra di Franz Liszt, in prima esecuzione italiana, ci prometteva il programma del concerto diretto da Lü Jia, con la partecipazione del solista Leslie Howard, lisztiano eminente. Niente volevamo sapere prima dell’ascolto, niente di come fosse stato ultimamente ritrovato e ricostruito il Concerto. Lo abbiamo appreso dopo, quando ormai la cosa non aveva piú importanza.
Anzitutto è falso che si tratti di un «Concerto»: non soltanto per le sue dimensioni (quindici minuti scarsi di musica) e anche per la forma, assimilabile al massimo a quella di un primo tempo, anch’esso inconcluso. L’epoca di composizione dovrebbe risalire a quella degli altri due Concerti per pianoforte, fra il 1832 e il 1839, la tonalità è quella del primo, mi bemolle maggiore. Presumibilmente Liszt pensò di proseguire sulla stessa strada, e stese alcuni abbozzi della parte orchestrale, riservandosi di completare quella pianistica in un secondo momento. Il progetto fu abbandonato, né venne ripreso quando negli anni successivi il musicista dette forma definitiva a quasi tutte le sue composizioni per pianoforte e orchestra. Ciò che rimane di esso è una serie di spunti, di cui almeno uno, meravigliosamente cantabile, sviluppato in minore dal pianoforte dopo l’esposizione dell’orchestra, appartiene già a quella concentrazione di una ricca sostanza armonica nella melodia polifonica che sarà uno dei piú lungimiranti propositi dello stile pianistico di Liszt: mettere lo strapotere tecnico al servizio di un’idea assoluta. Leslie Howard, sostenuto dalle ricerche, naturalmente «lunghe e pazienti» nei santuari di mezza Europa, di un musicologo americano, Jay Rosemblatt, ha tentato una sorta di sintesi dell’incompiuto, per parte sua esagerando nel voler offrire un compendio delle sfaccettature della tecnica lisztiana spaziante dal virtuosismo trascendentale all’intimità piú rarefatta, e risultando con l’esperto impari al compito della ricostruzione della forma, modellata su quell’alternarsi di sezioni in una elaborazione di tipo ciclico che Liszt realizzò con ben altra coerenza anche in composizioni analoghe.
Se ce ne fosse stato bisogno, la successiva esecuzione del Totentanz, pur con tutti i tormenti delle sue diverse versioni fino a quella definitiva d’autore, faceva la differenza e ricacciava il torso del Concerto, oggettivamente, fuori del catalogo delle opere di Liszt. Non parve comunque furberia o peggio malafede l’averlo presentato, ma solo un’inutile ingenuità.
da “”Il Giornale””