Daniel Barenboim, famoso direttore e pianista, battagliero e inquieto ricercatore di esperienze musicali tace sulle ferite e s’illumina sulle sue passioni
Daniel Barenboim ha compiuto cinquant’anni il 15 novembre dell’anno scorso. E’ nato a Buenos Aires, nipote di un immigrato d’origine russa, ebreo. Il padre, ebreo e cosmopolita, era un famoso insegnante di pianoforte. A dieci anni la famiglia tornò in Europa portando con sé un fanciullo prodigio, benedetto da Claudio Arrau. Era lui, naturalmente; ma Daniel aveva già bruciato quella tappa, e guardava oltre. Fu mandato a studiare al Mozarteum di Salisburgo, dove ebbe come maestri Edwin Fischer (pianoforte), Enrico Mainardi (musica da camera) e Igor Markevitch (direzione d’orchestra).
Nel ’54 andò a Parigi per studiare composizione con Nadia Boulanger: si formò lì la sua convinzione che il processo ricreativo dell’interpretazione non fosse altro che un cammino a ritroso di quello creativo e che l’esecuzione dovesse saper percorrerne la strada in entrambe le direzioni. Nel 1956 (dunque a quattordici anni) Daniel Barenboim vinse il primo premio al Concorso Casella di Napoli e cominciò la carriera di solista. Divenne quello che è ancora oggi, uno dei grandi del pianoforte; ma per diventare quello che soprattutto è oggi, ossia un direttore d’orchestra molto affermato, sarebbero dovuti passare ancora alcuni anni; non molti, tuttavia. Nel ’67 inaugurò la nuova Queen Elizabeth Hall di Londra con un ciclo beethoveniano; nello stesso anno sposò la violoncellista Jacqueline du Pré, sua meravigliosa partner in molti concerti, prematuramente stroncata dalla sclerosi a placche. Temette di non superare il colpo; per qualche tempo non osò toccare il pianoforte. La musica fu la sua salvezza: l’unica ragione per qui valesse continuare a vivere. Gli amici musicisti – Zubin Mehta, Pinchas Zuerman, Dietrich Fischer-Dieskau tra molti altri – fecero quadrato intorno a lui: non era solo, e glielo fecero capire. Fu allora che all’orizzonte si profilò, contro la solitudine, il contatto con le orchestre, prologo di una nuova vita.
I1 “”Casella””, Napoli, l’Italia. Barenboim s’illumina al ricordo. Dice di dover molto all’Italia, che lo scoprì. Alla nostra affermazione che l’Italia ha una vera dote per scoprire i talenti, salvo poi lasciarseli scappare o peggio non valorizzarli, risponde con una vaga smorfia. Non è affar suo, sembra sottintendere. Una costante del nostro incontro sarà proprio questa: che a Barenboim non interessano le cause perse, i vittimismi, le ombre dei ricordi. Non ha tempo né voglia da dedicarci. Ha altro a cui pensare. E il centro dei suoi pensieri è chiaramente lui stesso. Ciò non lo rende un mostro di simpatia. Ma neppure quel personaggio scostante, pieno di sé e implacabilmente pratico, freneticamente attivo, che sembrerebbe a prima vista. A me istintivamente non era mai stato simpatico, prima che lo incontrassi. Lo è diventato, e molto, dopo questa intervista. L’ha accettata con un ‘alzata di spalle, precisando che non poteva spenderci più di un quarto d’ora. Aveva appena finito di dirigere la prova generale del Requiem di Verdi allo Schauspielhaus di Berlino; lo attendeva nel pomeriggio una prova coi cantanti della Nona di Beethoven, e la sera una recita della Sposa sorteggiata di Busoni alla Deutsche Staatsoper, di cui è diventato da questa stagione Generalmusikdirektor. Un quarto d’ora sarebbe stato già molto, alle due del pomeriggio. E’ stato molto di più. Alla fine ha avuto la gentilezza, non richiesta, di dedicarmi una copia della sua autobiografia appena uscita da Rowohlt (Daniel Barenboim. Musik – Mein Leben, vedi riquadro) “”in ricordo di una conversazione molto piacevole a Berlino”” (così, in italiano). Eper una volta l’asso nella manica era stato proprio l’italiano, ossia la possibilità di conversare in italiano, lingua che Barenboim parla con la ricercata proprietà tipica dei musicisti colti, ma con lampi di spontaneità. “”Amo questa lingua da sempre. L ‘ho imparata dalla gente quand’ero un ragazzo, in Italia. Poi ho avuto la fortuna di coltivarla con il più grande dei maestri””. Una pausa studiata, quasi musicale, e poi aggiunge, prevenendo la domanda: “”Vuol saperne il nome? Mozart, naturalmente!””.
Maestro Barenboim, oggi quando si pensa a lei viene subito in mente il direttore d’orchestra, che sembra aver soppiantato il pianista. Lei si sente più un direttore o un pianista? E come è avvenuta questa metamorfosi?
Credo che sia avvenuta in modo molto naturale. E stato Edwin Fischer a prospettarmi per primo la possibilità di questa unione: la chiamava “”una unione personale, storica””. Allora non capivo bene che cosa volesse dire. Credo che intendesse la necessità per un musicista di estendere le sue esperienze da un campo all’altro, sul piano personale, e affermare che questa unione aveva avuto illustri precedenti nella storia: Bülow, Richter, e così via, fino a lui stesso. Ho cominciato, dietro suo consiglio, a eseguire Mozart dirigendolo dal pianoforte: con la English Chamber Orchestra ho esplorato tutto il territorio classico. Poi ho cominciato a dedicarmi a partiture sinfoniche che escludevano la presenza del pianoforte, come direttore. Debbo molto a Igor Markevitch, che mi ha dato una solida base tecnica, e a tutti quei direttori con cui ho lavorato costantemente da pianista: da Mehta, il mio più grande amico, a Celibidache, con cui continuo ancora oggi a suonare. Ho un ricordo straordinariamente vivo di Furtwängler, a Salisburgo: avevo dodici anni, mi sentì suonare e disse che suonavo come un direttore. Ho collaborato con molti grandi artisti nella musica da camera, che per me era l’attività più bella: di lì è nato il mio amore per le orchestre. Sono stati tutti punti di riferimento importanti. Il desiderio di affrontare le opere di Mozart mi ha spinto verso il teatro, e non mi sono più liberato della sua magia. Wagner è stato una conseguenza, un discorso tuttora aperto. Come vede, il processo ha seguito uno sviluppo graduale e continuo. Ma non ho mai abbandonato il pianoforte. Non potrei fare a meno del contatto diretto con lo strumento, ne ho un bisogno quasi fisico. Non dimentichi che a venticinque anni feci il mio primo ciclo completo delle Sonate di Beethoven, e dieci anni più tardi le avevo già incise tutte due volte. Ho suonato con avidità il repertorio, fino a quando ero nel pieno delle mie forze anche fisiche. Poi ho cominciato a decantarlo, e a ritornare su singoli autori e opere che mi interessava approfondire ulteriormente. Magari perché come direttore avevo maturato nuovi punti di vista, nuove dimensioni interpretative.
Non metamorfosi, dunque, ma evoluzione.
Diciamo vicendevole arricchimento, per me. Il pianoforte è uno strumento neutrale, dalle possibilità enormi, ma paradossalmente limitate. Può imitare i diversi strumenti, ma rimane un mezzo sintetico. L’orchestra è invece un mezzo analitico, nel quale i diversi strumenti hanno la loro identità. Passare dal pianoforte all’orchestra significa confrontarsi con queste identità, e scoprire da capo l’unicità meravigliosa del pianoforte. Potrei dire di aver capito la peculiarità del pianoforte solo dopo aver diretto l’orchestra, senza imitarla. Per me questa esperienza è stata più importante della stessa possibilità di affrontare un repertorio più vasto, fatto che per un musicista è comunque molto attraente. Ora capisco perfettamente in che senso Fischer parlasse di “”unione storica””.
Lei si trova a essere un testimone della storia nel momento in cui ha assunto la direzione musicale della Deutsche Staatsoper della ex Berlino est dopo la caduta del muro. Il suo teatro “”Unter den Linden”” fu voluto da Federico il Grande e ha appena festeggiato i duecentocinquant’anni di vita. Che cosa si aspetta dall’immediato futuro?
Sono disposto ad accettare ogni sfida sul terreno artistico, ma non nascondo di essere preoccupato per la situazione attuale, esplosiva e pericolosa per tutta l’Europa. La storia tedesca presenta troppe associazioni negative, in particolare per una persona di origine ebraica. Quando sono arrivato a Berlino, lo scorso settembre, sono state lanciate delle pietre contro centri d’accoglienza per rifugiati politici e bombe molotov contro asili di bambini. Io stesso ho ricevuto lettere di minaccia, naturalmente anonime. La più moderata diceva: “”Ausländer raus! Sie auch!””.
(Noto di passaggio che questa sarà l’unica volta in cui Barenboim userà un ‘espressione in tedesco; che significa: “”Fuori gli stranieri! Anche lei!””).
Se questa situazione dovesse degenerare, non esiterò ad andarmene. Ma sarebbe una sconfitta per tutta la nostra civiltà. L’unificazione tedesca e il crollo dei regimi totalitari nell’Europa orientale hanno dato grandi speranze e opportunità a molte persone in tutto il mondo, ma a lungo andare le differenze sociali sono insostenibili. Una società divisa in due classi è di per sé politicamente esplosiva. L’esistenza di un estremo divario sociale è pericolosa per un Paese. Un tale divario è già un fatto grave fra Monaco e Dresda, o fra Milano e Palermo, ma nella stessa città, come qui a Berlino, è insopportabile: per esempio, quando i musicisti dell’Orchestra di Stato continuano a guadagnare solo il 48% dei loro colleghi nelle orchestre della parte occidentale di Berlino, mentre il costo della vita è diventato praticamente uguale. Considero un obbligo morale nei confronti dei miei collaboratori, che hanno vissuto per quarant’anni nella dittatura della Ddr, non continuare a trattarli come persone di seconda classe. Non si può pretendere che si affermino in libera concorrenza artistica nell’ambito di un sistema sociale completamente nuovo se allo stesso tempo vengono privati dei mezzi necessari sia a livello personale che sul posto di lavoro.
Vuoi dire che lei continuerà a lavorare con gli stessi uomini della ex Ddr? Orchestra, coro, balletto e la maggioranza dei dipendenti sono rimasti gli stessi. Solo i quadri dirigenti sono cambiati. Dovremo trovare un’osmosi, finalizzata alla qualità artistica. Non è facile, ma è possibile se ci lasceranno lo spazio vitale. Spero che i politici responsabili nel governo e nel parlamento della città prendano le decisioni giuste in modo da consentire alle istituzioni culturali dell’est e dell’ovest di svolgere i loro compiti, favorendo l’integrazione.
Intanto però sono scoppiate le polemiche. La Deutsche Oper si sente minacciata nelle sue prerogative, la Komische Oper teme un declassamento.
Sono polemiche grette e pretestuose, che mirano a salvaguardare assurdi privilegi. All’est come all’ovest. Dobbiamo invece collaborare, pianificare insieme il raggiungimento di obiettivi eminentemente artistici. Senza scadere in concorrenze da bottega. A Berlino è facile trovare un’intesa fra me, Abbado e Ashkenazy, che qui ricoprono incarichi della massima importanza; più difficile quando si toccano interessi e privilegi locali di personaggi anche di primo piano. Da un punto di vista culturale e artistico noi siamo più tedeschi di loro, amiamo questo Paese e la sua civiltà. Ci sono però le eccezioni: Harry Kupfer, per esempio, ha dato la più ampia disponibilità a questa collaborazione.
E proprio con Kupfer lei ha fatto la sua prima opera della stagione, Parsifal. Una scelta molto discussa, anche considerando che Wagner continua a essere bandito in Israele.
Barenboim s’irrigidisce. Non gli va il riferimento, e sbotta in un aspro “”Ma che c’entra?””. Lo stesso farà più tardi, quando s’accennerà alla vicenda dell’Opéra-Bastille: non gli piace parlare delle sue sconfitte. Soprattutto quando certe piccole ferite non si sono ancora rimarginate del tutto.
Parsifal è un capolavoro che amo intensamente per i suoi valori musicali, non per il suo messaggio ideologico. A qualcuno può aver dato noia che l’abbiamo fatto così bene, con una grande compagnia e un grande regista.
Ritiene davvero che Kupfer sia un grande regista? Non crede che sia affetto cronicamente proprio da scarlattina ideologica? (Siccome Barenboim non capisce “”scarlattina””, traduco in perifrasi, addolcendo il concetto, un po’ vilmente, ossia ritirando la mano dopo aver scagliato il sasso…).
No, no, Kupfer è un grande uomo di teatro. Ha lavorato per molti anni all’est, lottando per imporre un’idea scenica che oltre a rappresentare facesse riflettere, creasse delle associazioni. Ora anche per lui è venuto il momento della sintesi, della decantazione, una fase molto produttiva per il suo talento e il suo sapere. Faremo ancora molte cose insieme, qui a Berlino.
Lei è convinto che il teatro, oltre a rappresentare, debba far riflettere e creare associazioni extramusicali?
Sì, ne sono convinto. Dal teatro di regia moderno, radicato nel nostro modo di vedere e di sentire, non si torna indietro; semmai si tratta di evitare certi estremismi, oggi non più necessari. Perfino a Bayreuth, dopo Chéreau, è cambiato tutto. E ciò ha influenzato anche le scelte musicali.
Lei è ormai una colonna di Bayreuth. Tristano, la Tetralogia, poi Parsifal. Che cosa significa essere catapultati nel cuore della tradizione wagneriana?
Significa continuare questa tradizione, aggiornandola.
Quando Wolfgang Wagner, dopo un Tristano che avevo diretto proprio qui a Berlino, alla Deutsche Oper, mi chiese di debuttare a Bayreuth con quest’opera, non esitai un attimo. Se gli è piaciuto, mi dissi, non c’è ragione di tirarmi indietro. E iniziata così una collaborazione molto proficua, almeno per me. Non sono così modesto da non credermi all’altezza, visto che faccio questo mestiere, né così acritico da non sapere i miei limiti. Bayreuth consente una programmazione a lunga scadenza, mirata solo su un autore. E l’unico luogo al mondo che lo consente. Sapevo che anche Boulez aveva avuto vita dura all’inizio, ma poi aveva stravinto con la forza delle sue idee geniali e delle sue convinzioni. A Bayreuth è possibile impostare un lavoro, e tirarne le somme solo alla fine. E stato così anche per la mia Tetralogia, che è cresciuta, direi quasi fisiologicamente, di anno in anno. Alla fine ho potuto dire: bene, musicalmente ho raggiunto il massimo. Non so quanto valga questo massimo, ma è il massimo a cui potevo arrivare, un passo dopo l’altro. Punto e a capo. Ora ricomincio col Tristano, l’estate prossima.
Fu memorabile il suo Tristano con la regia di Ponnelle, consegnata anche al video. Questa volta farà discutere la regia di Heiner Müller, un grande drammaturgo che debutta nella regia.
Ma è bello proprio questo. Mi pare che lei tenda a vedere l’opera un po’ da italiano, come un museo intoccabile di augusti capolavori. O sbaglio? (Sì, sbaglia: ma l’espressione è così bella e vera che l’accetto, anzi la sposo). Müller sta facendo un lavoro di scomposizione e ricomposizione del testo che forse farà discutere ma che sarà assolutamente fantastico. Le pare poco, un autore dei nostri tempi che si confronta creativamente con un autore del passato sul piano drammaturgico? Lasciamo Wagner agli artisti, non ai critici depositari della “”verità””. Il lavoro che stiamo facendo insieme mi ricorda una delle esperienze piu belle della mia vita, il Wozzeck con Chereau a Parigi.
Che io non ho visto, ma di cui ho sentito parlare con ammirazione. Mi racconti questo lavoro.
Una settimana di prove musicali senza scena, io al pianoforte coi cantanti, Chereau sempre lì con me, in silenzio, ad ascoltare. Una settimana di prove di scena col testo recitato come se si trattasse di uno spettacolo di prosa – teatro secco senza musica, lo chiamavo io -, con Chereau che spiegava tutte le parti agli attori, e io sempre lì con lui, in silenzio, a guardare. Una settimana io e lui da soli, a parlare, confrontare e cementare le nostre idee, al pianoforte e sulla scena, mentre i cantanti-attori riposavano. Quando ci siamo ritrovati tutti insieme, lo spettacolo è venuto da sè: se nascesse dalla musica o dalla regia, non saprei piu dire, tanto le due cose erano diventate una cosa sola. Con Müller stiamo facendo lo stesso, con una attenzione particolare al poema, come se lui lo stesse ricreando. E col vantaggio che a Bayreuth abbiamo ancora piu prove.
Ma come può trovare tutto questo tempo un musicista che, oltre a ricordarsi ogni tanto di essere un pianista in attività, è a capo di un teatro importante e di un’orchestra famosa come la Chicago Symphony, e in sovrappiù dirige opere non propriamente elementari a Bayreuth e a Parigi?
La natura mi ha dato molta facilità di apprendimento, memoria e forza di concentrazione; l’esperienza mi ha insegnato a non abusarne, cioè a impiegare bene questo talento, di cui non ho il merito ma la responsabilità. I1 resto è pianificazione, organizzazione: e per me deve essere qualcosa di dinamico, di sempre nuovo e vitale, che incessantemente si trasforma. L’interpretazione si basa soprattutto sull’intuizione, ma la verifica viene poi durante la realizzazione: e questo tempo va sfruttato fino in fondo. Ah, dimenticavo: per fortuna godo di buona salute. E lo sa perche? Perche dedico lo spazio necessario a me stesso, alla mia vita privata. E’ questo il segreto. Tradotto praticamente: passo cinque mesi a Berlino, dove ho un rapporto bellissimo con i Filarmonici e ora mi aspetta l’avventura all’Opera, e quattro a Chicago, per i concerti e la programmazione. Qui e là ho collaboratori molto in gamba, che mi liberano dalle questioni amministrative e mi consentono di dedicarmi solo alla musica. Se fa il conto, restano tre mesi, principalmente per Bayreuth e per progetti speciali come il Wozzeck, che peraltro è in coproduzione con Berlino, o per il pianoforte. Certo, ciò significa che non ho tempo per altre orchestre, e mi dispiace. Verrei volentieri in Italia, ma lei capisce che non a proprio possibile, lo spieghi che non è possibile. Se l’idea del1’Opera-Bastille non fosse stata sacrificata a lotte di potere meschine, d’infimo profilo, magari le cose sarebbero andate diversamente. Ho solo un rimpianto: non poter essere presente come vorrei nella vita musicale in Israele. Ma credo di combattere ugualmente la mia causa.
C’e un desiderio che l’accompagna in questa vita invidiabile e piena?
Posso solo dirle che cosa mi spaventerebbe di piu: non poter dirigere le opere di Mozart. Morirei solo all’idea. Tutto è cominciato di lì, lì tutto finirà: la vita è tutto ciò che Mozart ha messo nelle sue opere. Ho desiderato avere un teatro tutto mio per poter fare un ciclo di Mozart, organicamente, non solo in disco, come ho gia fatto: assaporare la gioia di questo contatto fino all’ultima goccia, in teatro. Ora questo desiderio si è avverato, comincerò presto a Berlino il mio ciclo Mozart: per qualche anno la mia sopravvivenza spirituale è assicurata. Per Mozart, sarei anche disposto a tornare in Italia: e prima o poi succederà, ne sono sicuro. Col mio maestro di italiano.
Musica Viva, n.3 – anno XVII