Il «Messia» di Händel
È destino comune a molti grandi musicisti, anche quando la loro produzione sia rigogliosa e folta di capolavori, quello di passare alla storia con un’unica opera, evidentemente la più rappresentativa. Nel caso di un grandissimo come Georg Friedrich Händel, collocato al centro delle celebrazioni di quest’anno dedicato alla musica e si spera non soltanto per mere ricorrenze centenarie, quest’opera è un oratorio, il Messia. A quasi due secoli e mezzo dalla sua composizione assai più che una semplice opera di musica: un monumento della cultura occidentale, che ha raggiunto lo statuto di un mito dopo essere stato innalzato a simbolo nazionale di una intera civiltà.
La storia del Messia di Händel è anzitutto la storia delle sue esecuzioni, ossia del passaggio dall’epoca tardo-barocca e dalla società inglese per cui era stato creato ad altre epoche e civiltà, in un contatto continuo con modelli interpretativi sempre di-versi, ancora oggi – o forse oggi più che mai – problematici e controversi. Destino curioso di una partitura nata come opera aperta e rimasta inconfondibilmente intatta nella sua sostanza pur attraverso le manipolazioni e gli arrangiamenti che, subito dopo la morte del suo autore, si vennero sedimentando su di essa, fino a coprirne e alterarne l’immagine originaria. Ma qual è quest’immagine originaria e fino a che punto è possibile ricostruirla?
Hàndel non ha lasciato una versione definitiva del Messia, né sotto l’aspetto compositivo né sotto l’aspetto realizzativo. Da quell’eccelso pragmatista che era, apportò all’oratorio nel corso della sua vita frequenti cambiamenti e adattamenti in relazione alle diverse condizioni esecutive di cui via via disponeva, sia riguardo agli organici che ai solisti di canto. La stessa partitura autografa, dalla quale si ricava l’impressionante notizia che un’opera di questa mole (per tacere della ricchezza creativa) fu composta in meno di un mese, dal 22 agosto al 12 settembre 1741, non è avara di questi interventi, comprese le varianti aggiunte prima che l’oratorio venisse eseguito per la prima volta a Dublino nell’aprile dell’anno successivo; nel chiaro intento di venire incontro alle caratteristiche specifiche dei cantanti. Così per esempio è soppresso l’inizio del recitativo «Thus saith the Lord» (n. 5) e sono tagliati i ripetuti trilli nel ritornello di «Ev’ry valley shall be exalted» (n. 3). Ad analoghi motivi di ordine pratico sono dovute alcune sostituzioni di pezzi, come la versione per duetto anziché per soprano solo della grande aria con da capo «How beautiful are the feet» (n. 38). Ancora nel 1750 e negli anni immediatamente successivi, allorché poté disporre della voce del famoso castrato Gaetano Guadagni, Händel se ne giovò per apportare una serie di importanti cambiamenti alla parte del contralto, da cui nacquero la versione assai più brillante (a sua volta poi rielaborata per soprano) di «For he is like a refiner’s fire» (sezione centrale dell’aria n. 6) e una nuova stesura di «Thou art gone up on high» (n. 36). Non è sicuro che Händel considerasse definitivi questi cambiamenti; né tanto meno che li intendesse come tappe di un processo di continuo miglioramento volto a conseguire una versione a tutti gli effetti conclusiva, a differenza di quanto per esempio aveva fatto Bach in analoghe circostanze ritornando sulla sua Passione secondo Giovanni. Del resto l’idea stessa di versione conclusiva o definitiva era estranea a Händel, come lo era alla cultura e alla prassi musicale del suo tempo. E tanto più dunque l’idea di una versione «originaria», portabandiera delle correnti novissime, ieri come oggi. Quel che contava era soltanto l’adeguamento della partitura alle circostanze esecutive del momento, da cui il compositore doveva saper trarre il massimo partito.
Se questi problemi riguardano l’aspetto più propriamente compositivo, non troppo diverso è il caso delle questioni di organico e di orchestrazione. Certo, le esecuzioni dell’epoca di Händel non potevano avere quello spiegamento massiccio di forze che da tempo siamo abituati ad associare al Messia e che in gran parte hanno contribuito a crearne un’immagine tanto mitica quanto monumentale. Ma, a prescindere dall’esatta individuazione di alcune componenti timbriche caratteristiche di Händel (soprattutto nella sezione dei fiati, e ancor più degli ottoni, con i relativi rapporti insiti nel pensiero compositivo stesso), appare immotivato esagerare nell’estremo opposto e presentare come oggettivamente fedele una esecuzione assottigliata e rarefatta, con coro da camera e strumenti d’epoca dichiarati originali; eppure è ciò che l’odierna prassi esecutiva tende sovente non soltanto a fare ma anche a proclamare verità vera.
Una visione dell’oratorio improntata a grandiosità di mezzi corali e a dovizia di clangori strumentali, amplificata negli spazi suggestivi delle cattedrali o nelle moderne sale da concerto da migliaia di posti, si afferma nell’Ottocento. Essa non è però propriamente ottocentesca, ma risale in realtà alla fine del Settecento, dunque a un’età già più prossima a Händel. Nel 1784, in occasione dei solenni festeggiamenti nell’abbazia londinese di Westminster, era stata fondata la tradizione di masse corali e orchestrali gigantesche per le esecuzioni del Messia: vi parteciparono allora 275 coristi e 248 strumentisti. Anche fuori d’Inghilterra il Messia era sentito già nel Settecento come vasta opera sinfonico-corale; nel 1786 l’oratorio fu eseguito a Berlino in lingua italiana da Johann Adam Hiller: il coro contava 118 voci e l’orchestra 189 musicisti. Che ciò non tradisse le intenzioni del compositore, non veniva messo in dubbio: Händel stesso avrebbe voluto così. Paradossalmente, fu proprio la geniale strumentazione di Mozart (1789), uno di quei rari esempi in cui la florida arte barocca si riveste di panni classici senza perdere nulla della sua forza espressiva e della sua verità, ad andar contro le abitudini del tempo e a sembrare inadeguata al-la resa sonora del capolavoro handeliano; basti pensare alla distribuzione dell’organico orchestrale nelle esecuzioni londinesi del 1784, da cui si ricava un’idea sorprendente del rapporto fra archi e fiati: 95 violini, 26 viole, 21 violoncelli e 15 contrabbassi accanto a 26 oboi, 6 flauti, 26 fagotti, un controfagotto, 12 corni, 12 trombe, 3 tromboni, 4 timpani e organo.
Gli eccessi in questa direzione non tardarono a venire, se è vero che nel 1859 (primo centenario della morte di Händel) il numero dei coristi era salito a 2765 e quello degli orchestrali a 460. Si privilegiava più che mai l’aspetto di ritualità corale a discapito dell’organico, più raccolto avvicendarsi delle parti solistiche, di regola tagliate o abbreviate; e del resto il pezzo più universalmente noto era già l’Alleluja, spesso cambiato di posto e ripetuto più volte nel corso dell’opera. Oltre che testimonianza del costume musicale di un’epoca, queste consuetudini esecutive sono la riprova della grande popolarità di un’opera cui il nome di Händel rimase indissolubilmente legato, e collocato fra i grandi, esaltando quel carattere gioioso di partecipazione collettiva che del Messia è tratto fondamentale.
Nuove esigenze interpretative, del tutto opposte, sono nate in questo dopoguerra. La coscienza storica dell’individualità dell’opera d’arte e la ricerca di una proprietà stilistica del testo sono alcune delle principali idee-forza che guidano questa fase antico-moderna della prassi esecutiva riferita alla musica barocca. Non è il caso di addentrarsi qui in una discussione già troppo fervida, se non per additare nella versione di Charles Mackerras, non integrale ma certo in sé compiuta, una via di mezzo ragionevolmente equilibrata, a dimostrazione dell’enorme gamma di possibilità offerte all’interprete. Essendo già stata dimostrata senz’altro la fertile ricchezza di questa partitura e la grandiosa qualità della sua sostanza musicale, anche attraverso le stratificazioni che si sono accumulate sul suo nucleo originario.
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Allorché Händel compose il Messia, la sua popolarità aveva già raggiunto il vertice di una fama quasi senza confronti. Eppure Händel veniva da un ennesimo momento difficile, dopo la grave paralisi che lo aveva colpito nel 1737 costringendolo a un lungo periodo di riposo forzato. Artisticamente, una svolta altrettanto difficile si era avuta dopo la chiusura della Royal Academy of Music – il centro della vita teatrale londinese -, che lo aveva costretto a tralasciare la strada per lui fortunatissima del melodramma e a rivolgersi verso quella meno spedita dell’oratorio. In questo campo, musicalmente assai più prossimo all’altro di quanto non si creda, Händel inquadrò il nuovo corso rappresentato dall’oratorio in lingua inglese, fondendo le diverse tradizioni in magistrale unità d’intenti: sul piano dei contenuti, mirò a spiritualizzare e a elevare l’oratorio oltre le barriere e le divisioni di determinate aree religiose nazionali; su quello delle forme, tese a ottenere una concentrazione musicale più severa e ricercata in un affinamento dei mezzi espressivi che si riverbera sulla struttura e sulle simmetrie della composizione, articolando un processo costruttivo di luminosa evidenza plastica. Anche nel Messia – l’opera che segnando il primo ritorno all’attività creativa dopo la lunga malattia suggella l’epoca più splendida di questo genere – Händel rinuncia al narratore e a personaggi individuati, ma dispone l’arco architettonico in modo tale che l’impiego delle quattro voci soliste (soprano, contralto, tenore e basso) conferisce alla composizione un profondo pathos evocativo e una varietà di accenti considerevole in alternanza o in connessione con l’eloquenza vertiginosa dei cori.
Fu nell’agosto 1741 che il librettista Charles Jennens, già collaboratore di Händel, inviò al compositore un nuovo testo basato sulla figura del Messia e pensato come un proseguimento del fortunato Israel in Egypt (1738), quasi più nel genere tipicamente inglese dello entertainment vocale-strumentale che dell’oratorio vero e proprio. Händel ne fu subito preso, intuendo le virtualità del testo ben oltre le intenzioni di Jennens, e venne attirato nel fervore di un vero e proprio entusiasmo creativo. Alla nuova composizione, scritta come si è detto in poche settimane, si offrì subito un’occasione esecutiva favorevole: da Dublino giunse l’invito del vicerè d’Irlanda a essere presente con una serie di lavori nella prossima stagione di concerti del Neal’s Music Hall in Fishamble Street. In novembre Händel partì da Londra portando con sé, come era solito fare, oltre al-la partitura del Messia e di diverse altre composizioni, anche una piccola schiera di esecutori. L’accoglienza dei dublinesi fu subito calorosa, come Händel riferì allo Jennens: «Non posso esprimere adeguatamente la gentilezza con la quale vengo trattato, e del resto la cortesia di questa nazione generosa non può esserti sconosciuta: ti lascio quindi immaginare quale sia la mia soddisfazione nel trascorrere il tempo fra onori, profitto e piacere».
Anche l’organizzazione e la qualità degli esecutori parvero eccellenti al compositore, sensibile la risposta del pubblico. Destinando l’opera a istituzioni filantropiche, fu possibile assicurare con le sottoscrizioni l’intera copertura finanziaria e ottenere una buona serie di recite di rodaggio. Dopo una prova effettuata davanti a un foltissimo pubblico 1’8 marzo 1742, il Messia fu presentato ufficialmente il 13 aprile guadagnandosi un travolgente successo. Il «Faulkner’s Journal» recensì così l’avvenimento: «Martedì è stato eseguito al New Music Hall il Messia, l’ultimo grande oratorio sacro di Händel. I migliori in-tenditori sono stati concordi nel giudicarlo il suo più compiuto lavoro musicale. Mancano le parole per esprimere il raffinato piacere che esso ha prodotto nel numerosissimo pubblico. I sentimenti più sublimi, grandi e delicati, adattati alle più elevate, maestose e commoventi parole, hanno concorso a trascinare e ad affascinare il cuore e l’orecchio estasiati…». L’afflusso di pubblico fu per l’epoca imponente (almeno 700 persone) e in previsione di ciò si ritenne opportuno invitare le gentili signore dell’aristocrazia ad astenersi dall’indossare il consueto guardainfante, che avrebbe reso le loro vesti troppo ingombranti. A Dublino il Messia fu ripetuto ancora il 3 giugno; solo nel marzo 1743 giunse a Londra, dove ebbe però all’inizio fredda accoglienza. È significativo che Händel, forse temendo che gli scrupoli religiosi alimentassero una certa diffidenza verso la tematica del suo lavoro, non osasse presentarlo con il suo titolo e si accontentasse di annunciarlo come «un nuovo oratorio, sacro», lasciando poi cadere anche l’aggettivo «nuovo». E difatti l’esecuzione al Covent Garden, con i famosi solisti di quel teatro, parve incompatibile con la sacralità del soggetto, al cui centro si trovava un personaggio, quello di Cristo, mai prima trattato in modo analogo nel genere oratoriale, con una commistione di passi dal Vecchio e dal Nuovo Testamento.
Ma la novità, che si risolse ben presto in popolarità, del Messia non sta soltanto nell’argomento. Già il testo di Jennens, assai più che una semplice raccolta di passi della Bibbia, è una pregnante rappresentazione delle stazioni dell’annuncio e della venuta di Cristo redentore, in una visione unitaria delle verità fondamentali della fede cristiana. Il metodo seguito da Jennens non consiste in una narrazione del tipo delle tradizionali musiche per la Passione o per il Natale ma nella creazione di una cornice meditativa in grado di lasciare spazio sia a episodi drammatici sia anche a magnifici Anthems – per uno stile musicale che Händel, come Jennens sapeva molto bene, aveva già sviluppato a massima compiutezza artistica. I cardini del lavoro ruotano attorno all’umanizzazione del personaggio di Cristo nelle sue vicende terrene e all’universalità del suo significato per l’umanità: dall’attesa del Messia nelle profezie del Vecchio Testamento al ritorno trionfante nella gloria celeste dopo aver compiuto la missione di riscatto dall’annientamento della morte. In modo conseguente la composizione si serve di due fondamentali mezzi espressivi: da un lato i recitativi e le arie dei solisti, che danno voce alla meditazione cristiana caratterizzando i diversi affetti con ben differenziata proprietà; dall’altro gli interventi corali, che danno a questa meditazione il tono di una partecipazione incondizionata, vigorosamente intensificata, per toccare il vertice giustamente famoso nell’Alleluja posto a conclusione della seconda parte. Si ha qui, con scatto perentorio e quasi improvviso, un’apoteosi della fede cristiana, dilatata poi a dogma dottrinario nell’immenso Amen finale, ma anche una celebrazione della fratellanza umana che fa quasi pensare a un antecedente dell’Inno alla Gioia beethoveniano.
Complessivamente, la prospettiva dell’opera è riassunta in modo estremamente esatto nelle citazioni poste in epigrafe sul libretto a stampa: un verso di Virgilio, «Maiora canamus», evidente allusione a una verità poetica che sublima la stessa spiritualità biblica, e due passi dalla Prima Lettera a Timoteo (cap. 3) e dalla Lettera ai Colossesi (cap. 2). Essi dicono:
Dobbiamo confessare che grande è il mistero della pietà.
Egli si manifestò nella carne,
fu giustificato nello Spirito,
apparve agli angeli,
fu annunziato ai pagani,
fu creduto nel mondo,
fu assunto nella gloria.
Nel quale [Cristo] sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza.
All’invito poetico di Virgilio si intreccia così la rivelazione dell’opera del Figlio di Dio, che con le parole del Nuovo Testamento passa a immedesimarsi anche nella musica di Händel.
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Il Messia si articola in tre vaste parti (condensate in due in questa esecuzione) che svolgono versetti da Isaia (in larghissima misura), da Aggeo, Malachia e Zaccaria, dal libro dei Salmi, di Giobbe, dalle Lamentazioni, dall’Apocalisse, dalle Epistole di San Paolo (agli Ebrei, ai Romani, ai Corinti: la prima ai Corinti è ampiamente presente nell’ultima parte), e infine dagli evangelisti Matteo, Giovanni e soprattutto Luca. Formalmente l’opera è una successione di pezzi vocali (51 numeri: recitativi, arie e cori, con un duetto alla fine della prima parte e uno alternato al coro nella seconda), cui si aggiungono l’Ouverture e una Pastorale per orchestra (Pifa) situata al centro della prima parte, quasi preparazione della prodigiosa apparizione notturna degli angeli esultanti ai pastori di Betlemme (i temi di questa Sinfonia pastorale sono ispirati al canto dei pifferari abruzzesi, ascoltato e annotato da Händel a Roma molti anni prima durante il Natale). Il trattamento delle voci soliste spazia dalla rotondità del canto espressivo, disteso e sostenuto da ampie campiture melodiche (soprattutto nei tipicissimi andamenti ariosi e larghi), alla più rigogliosa ornamentazione virtuosistica; quello del coro è per lo più in stile fugato, ma riposa su una pienezza armonica di salda compattezza architettonica. Non mancano chiare reminiscenze di tipo madrigalistico o «visivo» ispirate da un commento descrittivo-musicale del testo: per citare solo due esempi fra i tanti, la progressione melodica ascendente alle parole «get thee up into the high mountain» (n. 9, aria del contralto) o la squillante aria del basso «The trumpet shall sound» (n. 48) accompagnata appunto dalla fanfara della tromba, in modo «pomposo»: Per lo più però la concezione händeliana, senza rinunciare alla concretezza rappresentativa, si volge a una interpretazione del testo di estrosa autonomia, spesso ricavando da esso una idea compositiva caratteristica che viene poi sviluppata musicalmente (ossia con gli elementi più propri del linguaggio musicale) allo scopo di definire l’ambientazione, il paesaggio o un clima sonoro suggerito dalla parola: così per esempio nell’aria del basso «The people that walked in darkness» (n. 11) il movimento scentrato, errante, opprimente e il cromatismo strisciante risucchiano l’immagine delle «genti avvolte in tenebre»; alle parole «gran luce rischiarò» la melodia s’illumina distendendosi sull’accordo maggiore (re maggiore, dove prima era si minore).
La prima parte, la più ampia e sostenuta nello stile, è aperta da una Sinfonia bipartita (un solenne «Grave», un «Allegro moderato» fugato) che già nella scelta della tonalità – mi minore – sembra voler introdurre un clima di grande concentrazione, carico di attese. Solo con l’attacco del recitativo del tenore («Comfort ye my people») il passaggio al modo maggiore – mi maggiore – modula una nota di serena letizia, di aspettativa fiduciosa. Questa prima parte può essere suddivisa in tre blocchi. Il primo comprende i due recitativi e le due arie del tenore e del basso inframezzati dal coro, nei quali sulle parole dell’Antico Testamento si dipanano le profezie della prossima venuta del Messia. Il secondo blocco è costituito dal recitativo e aria (con intervento del coro) del contralto, che svolge il tema dell’annunciazione a Maria e dell’attesa del Redentore (e si noti che la prima entrata della voce femminile avviene con sicuro effetto sull’immagine della chiamata della Madre di Dio); indi dal recitativo e aria del basso, che descrive lo stato di smarrimento e di tenebre in cui si trova l’umanità prima della venuta di Cristo: e sul tema della potenza e dello splendore del Signore il coro espande questo mutarsi delle tenebre in tripudio sfolgorante di luce. Il terzo blocco, preceduto dalla Pastorale che per la prima volta introduce la tonalità di do maggiore con evidente simbolismo rappresentativo, è dedicato alla rievocazione della nascita di Cristo. Un esteso passo del Vangelo di Luca si presta alla descrizione dei pastori abbagliati dal fulgore celestiale degli angeli; il canto dei solisti e del coro, ormai quasi una cosa sola, si scioglie in una meditazione soavissima sulla pace ritrovata.
La seconda parte ci conduce subito nel mezzo della rappresentazione della Passione con la grande aria «He was despised», forse la pagina più ispirata dell’intero Messia. Di nuovo vengono utilizzate le parole di Isaia per sottolineare nelle opere di Cristo il compimento di tutte le profezie, mentre una serie di cori commenta solennemente il significato per l’umanità della morte e della resurrezione del Redentore. Finalmente, quando si dispiega la visione del trionfo di Cristo, l’estatico Alleluja attacca di colpo, slanciandosi a celebrare le parole supreme dell’Apocalisse.
Inno di lode alla gloria della resurrezione di Cristo, ma soprattutto annuncio della sua seconda venuta nella gloria: questi i temi della terza e ultima parte, la più breve e concisa nell’itinerario del Messia. L’aria del soprano «I know that my Redeemer livet» (n. 45) manifesta dolcemente la salda certezza della fede, preparando la visione del giorno del Giudizio in cui, al suono squillante della tromba, ogni morto risorgerà incorrotto. L’aria del basso in re maggiore «The trumpet shall sound», accompagnata dalla tromba solista con passi virtuosistici fra i più difficili che mai siano stati scritti per questo strumento, non dà alla descrizione accenti di terrore, ma semmai di stupore per l’ultima profezia che si compie. Una breve meditazione sul significato della sconfitta della morte sfocia nella grandiosa serie di Anthems corali della chiusa, prima che l’Amen avvolga di robusto tessuto polifonico l’immagine dell’Agnello assiso sul trono di tutte le dominazioni, secondo la lettera dell’Apocalisse.
Sir Charles Mackerras, Roberto Gabbiani / Yvonne Kenny, Anne Collins, Zeger Vandersteene, James Bowman, Malcolm King, Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Ente Autonomo del Teatro Comunale di Firenze, Stagione di Concerti 1985