Gustave Mahler – Sinfonia n. 9 in re maggiore

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Mahler compose la Nona Sinfonia nell’estate del 1909 a Toblach, in Tirolo, per noi italiani oggi Dobbiaco. Nel ritiro di Toblach, l’anno precedente, aveva portato a compimento Das Lied von der Erde (Il canto della terra), l’ultimo suo lavoro nel quale all’orchestra si unissero le voci, e aveva annotato alcuni temi per la nuova sinfonia a cui, a rigor di logica, sarebbe dovuto toccare il numero dieci. Ma nella convinzione sempre più ossessiva che dopo l’Ottava del 1906 il limite di una nona sinfonia che recasse nel titolo quel numero gli sarebbe stato fatale come lo era stato per Beethoven e Bruckner, gli aveva impedito di numerare la Sinfonia di Lieder con voci e di riservare a quella che ancora doveva comporre il numero nove. Lo stratagemma non funzionò, giacché la Sinfonia in re maggiore fu davvero l’ultima creazione sinfonica portata a termine da Mahler. Difatti nell’estate del 1910, sempre a Toblach, iniziò effettivamente una nuova sinfonia – la Decima – ma dovette interromperla dopo il primo movimento e l’abbozzo di alcuni altri (su di essi si basa la discussa ricostruzione di Deryck Cooke, pubblicata nel 1976): Mahler non avrebbe più avuto a disposizione un’altra estate per riprenderla e completarla. Il musicista morì infatti il 18 maggio 1911 a Vienna, dove era dovuto rientrare precipitosamente, interrompendo il soggiorno americano, per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Quindi la Nona Sinfonia fu eseguita per la prima volta, postuma, il 26 giugno 1912 a Vienna dai Wiener Philharmoniker diretti da Bruno Walter.

Non è soltanto per queste circostanze biografiche che la Nona Sinfonia è stata interpretata come il congedo di Mahler dalla vita e dalla sinfonia. Ben altre ragioni la pongono al centro del trittico in cui si consuma l’ultimo tratto dell’esperienza sinfonica di lui e del suo mondo. Se la sinfonia è anche un mezzo di conoscenza di sé e del mondo (come per Mahler fu) nella Nona il processo si concentra in un istante, dilatato a dismisura, che coincide non tanto con l’apparizione della morte quanto con la coscienza dei limiti della sua rappresentabilità. Dove ciò che conta non è che lo stesso Mahler, già stanco, malato e ossessionato dall’idea che la morte lo incalzasse, si sentisse ormai alle soglie della fine, bensì è la sua volontà di superare quei limiti, che importa, per cogliere e dare un senso alla visione della vita oltre la morte.

Da questo punto di vista, possiamo accettare la definizione di “”trilogia della morte”” che è stata data ai tre ultimi prodotti del sinfonismo di Mahler. Se consimile è il clima emotivo, psicologico o sentimentale che fa da sfondo, ancora più evidenti sono i riferimenti compositivi, tematici, che legano fra loro le tre partiture. Così, il motivo del contralto che nell””`Addio”” del Lied von der Erde chiudeva il ciclo sulla parola ripetuta “”ewig”” (eternamente), riappare subito al principio della Nona, in veste ora strumentale, a tessere una nuova trama di motivi; e i sospiri delle viole che “”ersterbend”” (spegnendosi), esalano l’ultimo soffio di vita nel pianissimo che la conclude, si ripresentano, questa volta pregni di una nuova forza vitale, nel tema delle viole che apre l’Andante della Decima Sinfonia.

Posta al centro di questa parabola intrecciata di citazioni, la Nona Sinfonia ne racchiude però in sé un ampio tratto in forma musicalmente compiuta. Pur approfondendone i temi, Mahler si libera sempre più del supporto extramusicale dei suoi lavori immediatamente precedenti alla ricerca di una espressione nuovamente, e assolutamente, sinfonica: capace di divenire in se stessa significativa e autosufficiente. La forma ritorna ai canonici quattro movimenti, ma ne altera, o meglio trasfigura, le posizioni e le funzioni, per ricomporle in un nuovo ordine: l’Adagio è posposto alla fine, al secondo posto sta lo Scherzo, al terzo il Rondò; e già il primo movimento, Andante comodo, sembra racchiudere in sé, sovrapponendoli, gli schemi della forma sonata e del rondò, su un tempo tendenzialmente scorrevole ma non allegro. Si può notare, con Quirino Principe, che «…esposizioni, sviluppi, riprese si concatenano dando l’illusione di appartenere a un sistema di regole tradizionali, ma imboccano sempre una strada anomala». Si potrebbe però anche ribaltare l’immagine: pur imboccando sempre una strada anomala, appartengono a un sistema di regole tradizionali. E lo stesso vale per i rapporti fra le tonalità, con la loro corrispondenza a chiasmo: al re maggiore del primo corrisponde il re bemolle maggiore dell’ultimo, mentre il nesso fra i due tempi centrali è dato dalle tonalità relative, rispettivamente, di do maggiore e la minore. Ancora Principe, vi vede «… due facce, l’una onirica e l’altra demoniaca, del medesimo fantasma» mentre «le tonalità del primo tempo, re maggiore, e dell’ultimo, re bemolle maggiore, hanno qui un colore notturno, profondo e uguale, e una lenta e ampia effusione di suono […] La discesa da re a re bemolle, in un dominio sempre più buio del modo maggiore, mostra un ritirarsi dall’esistenza, un rinunciare». Ma non sarebbe del tutto inesatto rilevare che l’Adagio finale della Nona, che si chiude nella stessa tonalità sospesa in cui Wagner adagiò la conclusione della Tetralogia, assume la stessa funzione “”classica””, mutata di segno dinamico e adeguata ai contenuti, di chiudere l’arco della Sinfonia nel superamento dei conflitti esposti nelle pagine precedenti.

Il carattere, solo apparentemente contrastante, di una forte, intima necessità espressiva unita alla aspirazione verso la trasparenza formale e la rarefazione timbrica, è la conseguenza di una progressiva decantazione del programma spirituale sotteso alla Nona Sinfonia. Il pensiero della morte, all’inizio solo presagito, irrompe in tutta la sua drammatica violenza nello sviluppo del primo movimento; e dove accade, al ripresentarsi del primo gruppo tematico e prima della sua veemente elaborazione, Mahler sentì ancora il bisogno di un chiarimento extramusicale, annotando in margine sul manoscritto: «O gioventù! Svanita! O amore! Passato!». Questo cedimento, di lui così tipico, scomparve ben presto dalla partitura per il semplice fatto che era divenuto cifra e segno musicale nell’indicazione espressiva a quel passo relativa: «zart gesungen, aber sehr hervortretend» (ossia: teneramente cantato, ma molto distinto). Il passaggio è significativo: l’irruzione di questo pensiero della morte radicato nella vita segna una svolta nel percorso della Sinfonia, che fino a quel momento si era dipanato in una piana, fluente cantabilità, in un’atmosfera nobilmente distesa e appena increspata dalla nostalgia.

Nella Introduzione, Mahler accosta alcune figure elementari dotate di diverse proprietà ritmiche, armoniche e melodiche e affidate ciascuna a differenti strumenti dell’orchestra: violoncelli, corni, arpa e viole. Nella prima di queste figure – l’aritmico pulsare dei violoncelli imitato dal corno – si è voluto riconoscere il battito irregolare del cuore inguaribilmente malato di Mahler. Da questi frammenti sparsi e progressivamente concatenati, variati, si ricostruisce l’originaria identità del materiale della Sinfonia, ma sotto specie di attesa e di preparazione a un evento che distruggerà quell’immagine pacificata che riempie il silenzio. La distensione successiva all’apparizione del primo tema sembra a sua volta sospendere l’attesa in un respiro sempre più profondo, dilatato: quando all’inizio dello sviluppo le figure dell’Introduzione ritorneranno con ansiosa violenza per dare vita a una sorta di spettrale marcia funebre, l’illusione cade e si spalanca l’abisso del terrore.

All’interpretazione contenutistica non si sottrasse neppure Alban Berg, che di questo primo movimento ha lasciato una descrizione esemplare: «Questo intero movimento è concentrato sul presentimento della morte. Esso si annuncia sempre di nuovo, in esso culmina ogni trasognato motivo terreno (con crescendi che irrompono come sempre nuove ondate dopo i passi più delicati), e naturalmente con la massima forza là dove il presentimento di morte diviene certezza: dove, nel bel mezzo della più intensa manifestazione di gioia vitale, la morte si annuncia con la massima violenza! Con tremendi soli di viole e violini e con suoni cavallereschi: la morte nell’armatura. Contro di essa non vi è più resistenza. Quello che accade poi mi appare come rassegnazione: col pensiero sempre rivolto all’al di là come nel passo “”misterioso””, come in un’aria del tutto rarefatta – ancora sopra i monti – come nello spazio vuoto».

Il passo “”misterioso”” (Schattenhaft nell’originale) a cui allude Berg è quello che precede e incalza in un’accelerazione sinistra la ripresa e la riesposizione dei gruppi tematici, introdotta “”con la massima violenza”” dall’irruzione (ottoni e percussioni) della figura-simbolo dell’Introduzione. Più che di una ripresa, si tratta del culmine descritto da Berg. Ora la marcia funebre esplode con le sue fanfare e le sue armature, con ritmi pesanti e laceranti intervalli. Ma a poco a poco, con quella tecnica della rarefazione e della sospensione di cui Mahler era maestro assai astuto, il tempo torna a dilatarsi e a rallentarsi come all’inizio, lasciando perfino spazio a una cadenza di strumenti solistici da cui emergono, nell””`esitando assai”” che annuncia la dissolvenza, prima un solitario episodio del flauto davvero inerpicato «sopra i monti» e poi il motivo dell’addio connesso con la citazione del motto – «Lebewohl» – della Sonata op. 81 di Beethoven, Les Adieux. La Coda si chiude così in una sorta di “”spazio vuoto””, per riprendere l’immagine di Berg, che inghiotte le ultime fantomatiche apparizioni di schegge tematiche prosciugate in suoni e timbri puri: carichi, però, di significati allusivi.

Il secondo e il terzo tempo presentano scenari assai diversi. Già nelle indicazioni dinamiche e di espressione, lo Scherzo “”nel tempo di un comodo Làndler, un po’ goffo e molto grossolano e robusto”” e il Rondò-Burlesca “”molto ostinato e arrogante”” mirano a illustrare l’altro lato, insieme antitetico e complementare, della poetica di Mahler: l’estroversione e la spinta centrifuga mossa dal desiderio di catturare in immagini vive la realtà quasi fisica del mondo circostante, sia della natura sia degli uomini, per trovare un contatto e una ragione in questo. La volontà di descriverlo e di non poterlo cogliere realisticamente, ma solo sotto forma di illusione, sogno o incubo, assume come sempre, ma qui a uno stadio molto avanzato, i tratti di una deformazione grottesca, abnorme, sovente demoniaca: contrassegnata a turno da dispersioni tragiche o da intenzioni ironiche, in bizzarre esasperazioni che si compiacciono di effetti distorti per far risaltare – come da programma – la tersa quiete di visioni infine purificate, immobili, quasi trasognate.

Nel Ländler, per esempio, o meglio nella serie di Ländler che costituiscono la nevrotica struttura dello Scherzo, la mimesi di una festa contadina all’aria aperta con le sue danze goffe e robuste, tra lo strimpellare dei violini e le grossolane interiezioni dei corni, trapassa di colpo nell’allegria sfrenata e un po’ sinistra di un valzer fastoso: che tuttavia si sfigura via via che acquista maggiore spessore sinfonico, per perdere definitivamente quasiasi contatto con la realtà e assumere un carattere, spettrale e angoscioso, di danza infernale; come nelle raffigurazioni di danze macabre delle pitture di villaggio, capaci comunque, anche nella loro ingenuità popolare, di suscitare sensazioni di orrore nelle “”anime sensibili””. E qui scatta, come è tipico di Mahler, il meccanismo della riflessione, o meglio della autoderisione che diviene poi autocommiserazione: la realtà sfugge, il desiderio di possederla è solo un sogno abitato da fantasmi. L’uomo si rivolge allora al paesaggio, ascolta i suoni della natura che parlano nella loro immediatezza e vorrebbero consolare; ma anche queste voci si disperdono, possono essere solo registrate e contemplate, ma non ricomposte e afferrate. Quando al termine del movimento ritorna il primo tempo di Ländler della danza contadina, un’ombra di tristezza e di sgomento è calata sulla festa prima così vivace e animata: e la scena è ormai vuota anche prima che la musica scompaia.

Gli effetti di questa disillusione – amara o benefica, non importa precisare – si consumano nel Rondò-Burlesca. Nell’abbozzo manoscritto il tempo portava la dedica: «Meinen Brüdern in Apoll» (Ai miei fratelli in Apollo). E che di ironia qui si tratti, di genere pesante, scopertamente demoniaca, basta a dirlo il plateale sberleffo della tromba che con gesto tracotante introduce la Burlesca. Il senso di un tremendo girare a vuoto, la rabbia impotente che monta sino ai limiti della furia distruttiva, selvaggiamente, sono acuiti dalla forma del Rondò, con il suo svolgimento circolare e i suoi periodici ritorni: dove l’insistenza su effetti grotteschi, specchi mirabolanti di invenzioni timbriche e strumentali inaudite, va ben oltre le intenzioni parodistiche del titolo. L’andamento circolare diviene ciclico, con calcolata trasfigurazione formale, quando una improvvisa apertura luminosa in re maggiore interrompe la lugubre cavalcata per inserire un motivo nuovo ed estraneo, proiettato verso altezze siderali; non conta che un intervento ironico volutamente greve tenti di ricondurlo a misure terrene, appartenenti al passato: perché da quel nucleo tematico ampliato a sezione nascerà, è già nata, la materia musicale dell’Adagio conclusivo.

Il tema della reminiscenza sviluppato da Mahler nei due tempi centrali dopo il momento solenne dell’addio celebrato nel primo movimento sembra avere, pur nello scenario allucinato in cui si manifesta, un valore catartico. E come se Mahler prendesse le distanze dal mondo e dalla vita dopo averne rivissuto, per istanti distinti, le potenziali bellezze (potenziali proprio in quanto irraggiungibili e rappresentabili solo in negativo) e averle dissolte in un orrido senso di estraneità. Nell’Adagio, siamo ora trasportati in un’altra dimensione. Il salto ascendente di ottava dei violini all’inizio proviene direttamente dalla Coda del primo movimento (episodio del flauto solo) ma ha ben altro slancio e consapevolezza; la spinta verso l’alto sembra trasferire simbolicamente tutto ciò che è stato in una regione di assoluta purezza, di statica fissità: qualcosa di limpido e di desolato insieme. L’indicazione di tempo, “”sehr langsam und noch zuriickhaltend”” (molto lento e ancora trattenendo), abolisce fin dal principio ogni idea di movimento e di divenire: la tendenza alla dilatazione è portata fino all’estremo, ma si realizza per così dire nello spazio, non nel tempo. Ed è un cammino che sale verso i registri più acuti degli strumenti, rarefacendosi e assottigliandosi; ma mantenendo e anzi accrescendo la forza di un immenso pathos quanto più rinuncia alla dovizia dei mezzi finora impiegati. La nobile semplicità della scrittura, nell’esordio degna di un quartettista – dove un semplice gruppetto di quattro note, un convenzionale abbellimento, è sufficiente per sciogliere la commozione -, è naturalmente solo apparente: ma è il risultato di una riduzione all’essenza che si ricollega a ideali classici, di una classicità non ancora neoclassica e forse non classificabile. Lo stesso trattamento dei motivi in una variazione ininterrotta, in una sempre più arcaica e distante mescolanza di contrappunto lineare bachiano e di armonie cromatiche stranamente consonanti, tende a un culmine che non arriva perché non esiste più; e tutto, perfino la desolazione e la rassegnazione che via via s’insinuano nelle vertigini del ripiegamento interiore, si scarnifica per sublimarsi nella realtà superiore di una irreversibile quiete. Nell’attesa dell’attimo in cui il cuore cesserà per sempre di battere, il limite invalicabile si annebbia e i confini della coscienza divengono onnicomprensivi. La morte, così esorcizzata, non fa più paura. Ma la possibilità di conoscere rimane un’utopia.

Riccardo Chailly / Associazione Orchestra Filarmonica della Scala
Teatro alla Scala

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