Gustav Mahler iniziò la compoizione della Nona Sinfonia nell’estate del 1908 a Dobbiaco, e lì la terminò nell’estate dell’anno successivo. Da quando aveva lasciato la direzione lell’Opera di Vienna, nel 907, per trasferirsi negli Stati Uniti e fissare a New York la sede prevalente della sua atività di direttore d’orchestra, era diventata un’abitudine per lui dedicare i mesi estivi dopo il ritorno in Europa esclusivamente alla composizione, isolato dal mondo e dai grandi centri urbani, a stretto contatto con la natura nel ritiro di Dobbiaco. Qui, già stanco e malato, ossessionato dall’idea che a morte lo incalzasse, Mahler aveva fatto precedere l’inizio della nuova Sinfonia dal completamento del Lied von der Erde (Il canto della terra), l’ultimo suo lavoro nel quale alla compagine orchestrale si uniscono le voci: nella convinzione, sempre più incombente, che, dopo l’Ottava, il limite di una nona sinfonia che recasse nel titolo quel numero gli sarebbe stato fatale, come lo era stato per Beethoven e per Bruckner. Lo stratagemma di considerare come IX il Canto della terra, sicché la Nona Sinfonia sarebbe stata in realtà la decima nell’ordine progressivo di composizione, non funzionò; quello fu davvero l’ultimo lavoro sinfonico portato a termine da Mahler: segno che l’idea fissa, per quanto oscura, era ben più di un vago presagio. Sempre a Dobbiaco, nell’estate del 1910, Mahler iniziò una nuova Sinfonia – la Decima – ma dovette interromperla dopo aver scritto il primo movimento e solo abbozzato gli altri. Non avrebbe più avuto a disposizione un’estate per riprenderla e completarla: morì infatti nel maggio 1911 a Vienna, dove era dovuto rientrare precipitosamente interrompendo la sua attività negli Stati Uniti. Non fece neppure in tempo a dirigere o a sentire eseguita la Nona, che fu presentata per la prima volta a Vienna nel giugno 1912 da Bruno Walter.
Non è soltanto per queste circostanze biografiche, accortamente romanzate da Alma Mahler nei suoi ricordi, che la Nona Sinfonia ci appare come il congedo di Mahler dalla vita e dalla sinfonia, al centro di un trittico di lavori fra loro intrecciati cui piacque dare il nome di «trilogia della morte». In effetti, se consimile è in clima emotivo, psicologico o sentimentale che fa da sfondo a questi tre ultimi prodotti del sinfonismo mahleriano – quasi riunendone gli aspetti più tipici in un accumulo di slanci e di sospensioni da testimonianza estrema, incapace però di essere definitiva oltre il pensiero della fine -, ancora più evidenti sono i riferimenti compositivi, perfino tematici, che sottolineano i legami fra le tre partiture, come se Mahler tendesse le fila di un discorso sempre differito e approfondito, in attesa di concluderlo con l’arresto finale. Così, la cellula tematica che chiude il «Congedo del Canto» della terra sulla parola emblematica «ewign», «eternamente», ritorna nel primo tema della Nona a tessere una nuova trama di motivi; e il sospiro delle viole che «ersterbend», «morendo», esalano l’ultimo soffio di vita nel pianissimo che conclude l’Adagio della Nona si presenta, intriso di nuova forza vitale, nel tema delle viole che apre l’Andante della Decima. Quasi prefigurando a sua volta un nuovo inizio verso mete sconosciute.
Erta al centro di questo vasto percorso ad arco, la Nona Sinfonia al tempo stesso ne racchiude in sé un tratto in forma assolutamente compiuta. La forma è un unicum non tanto perché l’Adagio è proposto alla fine pur nell’economia di un’articolazione in quattro movimenti – del resto esempi in questo senso già si erano avuti a cominciare dalla Patetica di Ciaikovski -, bensì perché Mahler si libera del supporto extramusicale dei suoi lavori immediatamente precedenti alla ricerca di una pura espressione sinfonica: capace in se stessa di divenire significativa e autosufficiente. Al punto che l’Adagio finale assume la stessa funzione che nella sinfonia «classica» rivestiva il tempo allegro: quella di chiudere coerentemente il tragitto nel superamento dei conflitti esposti nelle pagine precedenti. E da questo punto di vista l’unicum è il risultato di un’intima necessità espressiva, realizzata in modo adeguato in rapporto ai suoi contenuti.
Questo carattere di forte densità espressiva unita alla massima trasparenza formale è la conseguenza di una progressiva decantazione del programma spirituale sotteso alla Nona Sinfonia. Esso è mosso dal pensiero della morte, che irrompe con tutta la sua drammatica violenza nello sviluppo del primo movimento; qui, al ripresentarsi del primo gruppo tematico, e prima della sua veemente elaborazione, Mahler annota in margine: «O giorni svaniti della gioventù, o disperso amore». L’irruzione di questo pensiero della morte segna una svolta nel percorso della Sinfonia, che fino a quel momento si era dipanato sul piano di una distesa cantabilità, in un’atmosfera rarefatta e appena velata di nostalgia. Nell’introduzione, tuttavia, Mahler aveva accostato alcune figure elementari dotate di diversa proprietà, affidate ognuna a differenti strumenti dell’orchestra: quasi frammenti sparsi dalla cui progressiva concatenazione nasceva l’impressione di un discorso da ricostruire nella sua originaria identità. Nella prima di queste figure – l’aritmico pulsare dei violoncelli – si è voluto riconoscere il battito irregolare del cuore di Mahler inguaribilmente malato. La distensione che segue all’apparire del primo tema sembra sospendere questo presentimento di morte in un respiro dilatato e sempre più profondo; ma quando all’inizio dello sviluppo essa riappare, questa volta ai corni, l’illusione cade per spalancare un abisso di disperato terrore.
Alban Berg ha lasciato una descrizione dell’«Andante comodo» che costituisce il primo movimento della Nona Sinfonia di Mahler meritevole di citazione, perché esprime con parole semplici e adeguate ciò che vi accade. «Il primo tempo – scrive dunque Berg – è quanto di più stupendo Mahler abbia scritto. È l’espressione di un amore inaudito per questa terra, del desiderio di vivere in pace su di essa, di godere della natura fino nelle sue più ‘profonde profondità’, prima che venga la morte. Perché essa viene inarrestabilmente. Questo intero movimento è concentrato sul presentimento della morte. Esso si annuncia sempre di nuovo, in esso culmina ogni trasognato motivo terreno (con crescendi irrompenti come sempre nuove ondate dopo i passi più delicati) e naturalmente con la massima forza laddove il presentimento di morte diventa certezza; dove, nel bel mezzo della più intensa manifestazione di gioia vitale, la morte si annuncia con la più grande violenza! Con tremendi a soli di viole e violini e con suoni cavallereschi: la morte nell’armatura. Contro di essa non v’è più resistenza. Quello che succede dopo mi appare come rassegnazione – col pensiero sempre all’al di là che ci appare nel passo ‘misterioso’, come in un’aria del tutto rarefatta – ancora sopra i monti – come nello spazio vuoto».
Il passo «misterioso» («Schattenhaft» nell’originale) cui allude Berg è quello, insieme rabbrividente e carico di tensione, che precede l’inizio della Ripresa, con la riesposizione lacerata dei gruppi tematici. Essa avviene in una progressiva dilatazione del tempo, sempre più rallentato fino all’«esitando» finale, cui si aggiunge a poco a poco una sempre maggiore rarefazione della scrittura, che nella Coda torna a impiegare gli strumenti in episodi solistici, quasi frammentari. Il movimento si chiude così in una sorta di «spazio vuoto», per riprendere l’immagine di Berg, che inghiotte le ultime fantomatiche apparizioni di schegge tematiche prosciugate in suoni. Lo svanire della musica non è però ancora una conclusione, bensì solo una sospensione che, attraverso i due movimenti centrali dal carattere completamente contrastante, si connette, per riprendere di lì il discorso, all’Adagio finale. Qui, per ora, siamo soltanto al momento dell’addio, che prepara il lungo, interminabile attimo del congedo vero e proprio.
Ma molte cose debbono ancora accadere prima che si arrivi ad esso. Il secondo e il terzo tempo, che messi assieme giungono appena alla durata di ciascuno dei due movimenti estremi, sono rispettivamente uno Scherzo in forma di Ländler (anzi nel tempo di un comodo Ländler, come intesta Mahler) e un Rondò-Burlesca. Essi illustrano l’altra faccia. insieme antitetica e complementare, dell’atteggiamento compositivo di Mahler e della sua poetica: l’estroversione e il desiderio impellente di catturare in immagini vive la realtà del mondo circostante, sia della natura sia degli uomini. La volontà di descrivere, quasi rappresentare fisicamente questo mondo, per trovare un contatto e una ragione in esso, assume spesso in Mahler i tratti di una deformazione grottesca, abnorme, contrassegnata a turno da dispersione tragica o da distacco ironico, tra bizzarre esasperazioni che si compiacciono di effetti distorti per ritrovare poi la tersa quiete di visioni oggettive, statiche, quasi trasognate.
Nei due tempi centrali della Nona ciò accade a uno stadio molto avanzato, che colpisce anzitutto per il virtuosismo della tecnica orchestrale e per la sbalorditiva «ovvietà» dei passaggi che concatenano la successione degli episodi all’interno della costruzione complessiva. Nel Ländler, per esempio, la mimesi di una festa contadina all’aria aperta con le sue movenze goffe e pesanti, lo strimpellare dei violini tra le grevi interiezioni dei corni, trapassa di colpo nell’allegria sfrenata di un valzer fastoso, che si sfigura via via che acquista spessore sinfonico, quasi allontanandosi da un contesto vivo e reale di tipo descrittivo; per assumere poi nel terzo episodio un carattere da danza infernale, irreale e tenebroso, ma anche scherzoso e ingenuo, come nelle raffigurazioni di danze macabre delle pitture di villaggio: incutendo comunque sensazioni di orrore. E qui scatta, come è tipico di Mahler, il meccanismo della riflessione, o meglio della autoderisione, che diviene poi autocommiserazione: la realtà sfugge, il desiderio di possederla è solo un bel sogno che si allontana ineluttabilmente. Egli si volge allora alla natura, ai suoni della natura che parlano nella loro immediatezza e vorrebbero consolare. Ma anche questo mondo più solo essere contemplato, non afferrato. Quando ritorna, al termine del movimento, il tempo di Ländler della danza contadina, un’ombra di tristezza e di sgomento cala sulla festa prima così animata; e la scena si svuota, mentre la musica a poco a poco scompare.
Le conseguenze di questa disillusione si consumano nel Rondò-Burlesca. Già l’indicazione espressiva del tempo – «Sehr trotzig», cioè insieme tracotante ed ostinato – ne dà la misura; se non bastasse il gesto plateale dello sberleffo della tromba che l’introduce. Il senso di un tremendo girare a vuoto, alla ricerca di qualcosa di stabile su cui fermarsi, la rabbia impotente che monta sino ai limiti della furia distruttiva, selvaggiamente, sono acuiti dalla forma del Rondò, con il suo svolgimento circolare fatto di periodici ritorni: dove la parodia va ben oltre le intenzioni burlesche del titolo. Una improvvisa apertura luminosa, in re maggiore, viene a interrompere questa lugubre cavalcata inserendo inopinatamente un motivo nuovo ed estraneo, proiettato verso altezze siderali; e subito programmaticamente un intervento ironico volutamente pesante lo riconduce a misure terrene. Da esso tuttavia trarrà origine il nucleo tematico dell’Adagio finale.
Se il primo tempo della Sinfonia aveva indugiato sul momento solenne dell’addio, i due tempi centrali reintroducono il tema della reminiscenza, come se Mahler ripensasse ora al passato – alla vita e al mondo – accumulando ricordi, immagini, suoni e sensazioni di tutta un’esistenza, e ripercorrendola per istanti distinti un’ultima volta nel suo insieme. Rivivere questi istanti, per confermarne la potenziale bellezza e l’impossibilità di cogliere la felicità, accentuando anzi il senso di estraneità e di dissoluzione, equivale a liberarsi per sempre del passato e dei suoi fantasmi, per prepararsi al congedo. Mai come nella Nona Sinfonia Mahler affida a un’opera d’arte musicale il compito di indagare nel profondo l’essenza misteriosa dell’anima.
Di fronte a una pagina smisurata come l’Adagio conclusivo, ogni tentativo di analisi rischia di rimanere fine a se stesso, travolto dall’immenso pathos dell’espressione sonora. Il salto di ottava dei violini all’inizio, verso l’alto, sembra trasferire simbolicamente tutto ciò che è stato in un’altra dimensione, di una purezza incontaminata: il grande orchestratore diviene quartettista, e un semplice gruppetto di quattro note è sufficiente a dar voce alla commozione dell’epicedio. Certo, conta il modo in cui Mahler lo elabora in una variazione ininterrotta, in un misto di contrappunto lineare bachiano e di armonie romantiche: ma tutto, perfino la desolazione e la rassegnazione che via via s’insinuano, è ridotto all’essenza, per trasfigurarsi e sublimarsi in una realtà superiore di irreversibile quiete. In attesa dell’attimo in cui il cuore cesserà di battere per sempre.
Non soltanto perché è l’ultima, la Nona Sinfonia può essere considerata una testimonianza soggettiva e riassuntiva, fors’anche una confessione estrema, dell’uomo e artista Mahler. Ma è anche il superamento di una visione individuale dell’espressione artistica nel campo della Sinfonia, che ritorna a servirsi di mezzi assolutamente musicali per circoscrivere il proprio ambito: creando una forma che, nella sua unicità, rispecchia valori «classici» di equilibrio e perfezione. Valgono in questo senso le parole di un interprete non certo prevenuto o insensibile quale Arnold Schönbérg: «In essa l’autore non sembra più parlare in quanto individuo. Si direbbe quasi che quest’opera sia di un autore ignoto che si serve di Mahler come se fosse il suo portavoce o il suo interprete. Questa Sinfonia non è concepita in chiave personale. È piuttosto fatta di un’obiettiva, purificata bellezza, comprensibile soltanto a chi sa rinunciare al calore animale e sta bene nella freschezza dello spirito».
Riccardo Chailly / Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Ente autonomo del Teatro Comunale di Bologna, Concerti sinfonici 1987-88