La Sesta Sinfonia fu composta nei mesi estivi degli anni 1903 e 1904, finita di strumentare il 1° giugno 1905, eseguita per la prima volta a Essen il 27 maggio 1906 sotto la direzione dell’autore, pubblicata nel 1906 in tre diverse versioni, ritoccata nel 1907 e quindi ancora tenuta sotto osservazione almeno fino al 1910. Non per questo si deve pensare a una creazione particolarmente travagliata: erano, quelli, tempi e procedimenti del tutto consoni al modus operandi mahleriano. In realtà, se si eccettua un problema effettivamente centrale, relativo alla posizione dei due movimenti intermedi (Mahler fu per qualche tempo indeciso se far precedere o posporre l’Andante allo Scherzo, e optò poi per quest’ultima soluzione, di fatto ritornando alla scelta originaria), negli altri casi, più che di vere e proprie revisioni, si trattò di aggiustamenti marginali, soprattutto di strumentazione, volti a ottenere una maggiore trasparenza nella densissima tessitura della Sinfonia; salvo il dettaglio, che marginale non è per via della sua importanza simbolica, del terzo colpo di martello aggiunto nella coda del Finale, anzi prima introdotto e poi eliminato, ma mai definitivamente cancellato dalla memoria. Non sfuggiva a Mahler che il carattere negativo della Sinfonia, da lui stesso definita “”tragica”” (ma di qui a far passare quest’appellativo nel titolo, come comunemente si usa, il passo è lungo e non del tutto giustificato), poteva impressionare sfavorevolmente per la mancanza di una catarsi dopo tante reiterate, spasmodiche tensioni; sicché proprio il gesto esibito di quei colpi di martello, che si abbattono come micidiali mazzate del fato a segnare la fine dell’eroe, gli sembrava in enigmatico equilibrio tra una conclusione necessariamente ricondotta nell’ambito dell’elaborazione compositiva e una strisciante, forse dalla musica non completamente chiarita, sovrabbondanza retorica. Benché le sue dichiarazioni vadano sempre un po’ prese con le molle, non si può dubitare sulla sincerità di quanto egli scrisse, in pieno furore creativo, al suo biografo Richard Specht a proposito della Sinfonia in questione: «La mia Sesta proporrà enigmi la soluzione dei quali potrà essere tentata solo da una generazione che abbia fatto proprie e assimilato le mie prime cinque Sinfonie».
Enigmi, dunque. Come sempre in Mahler un po’ ingenuamente (artatamente?) alonati di mistero. Ma di che genere? Nel caso della Sesta molti di questi enigmi, o presunti tali, sono illustrati dalla sensibilità tutta femminile di Alma Mahler, moglie del compositore e vestale di un fuoco mai spento, loquacissima prima commentatrice di questa Sinfonia e delle sue ambiziose premesse filosofiche. Si comincia col ricordo di «quell’estate [del 1904 nella quiete di Maiernigg sul Wörthersee] bella, felice, senza conflitti. Alla fine delle vacanze Mahler mi suonò la Sesta Sinfonia, ormai completa. Dovevo rendermi libera da tutti i lavori di casa, aver molto tempo a disposizione per lui. Salivamo di nuovo a braccetto nella sua casupola nel bosco, dove eravamo sicuri di non esser disturbati, in mezzo agli alberi. Tutto ciò si svolgeva sempre con grande solennità».
All’idillio segue l’autocelebrazione, con un’inattesa oscura premonizione molto “”casa Mahler”” (e par di leggere davvero il copione di una tragedia antica): «Dopo aver abbozzato il primo tempo, Mahler era sceso dal bosco e aveva detto: “”Ho tentato di fissare il tuo carattere in un tema – non so se mi è riuscito. Ma devi lasciarmi fare””. È il grande tema pieno di slancio del primo tempo della Sesta Sinfonia. Nel terzo tempo [in realtà secondo, lo Scherzo] descrive i giochi senza ritmo delle bambine che corrono traballando nella rena. E’ spaventoso: le voci infantili diventano sempre più tragiche, e alla fine non resta che una vocina lamentosa che va spegnendosi. Nell’ultimo tempo descrive se stesso e la sua fine o, come ha detto più tardi, quella del suo eroe. “”L’eroe che viene
colpito tre volte dal destino, il terzo colpo lo abbatte, come un albero””». Queste sono parole di Mahler, assicura la signora e consorte. Non c’è ragione di dubitarne. Ma chissà che allegria in famiglia, la sera a cena.
Le parole conclusive di Alma sono invece ribollenti del sacro fuoco: «Nessun’opera gli è sgorgata tanto direttamente dal cuore come questa. Piangevamo quella volta, tutti e due, tanto profondamente ci toccava questa musica e quel che annunciava con i suoi presentimenti. La Sesta è un’opera di carattere strettamente personale e per di più profetico. Tanto con i Kindertotenlieder che con la Sesta Mahler ha messo in musica “”anticipando”” [scritto in italiano] la sua vita. Anch’egli fu colpito tre volte dal destino e il terzo colpo lo abbatté.
Ma quell’estate era allegro, cosciente della grandezza della sua opera e i suoi virgulti erano verdi e fiorenti». Così Alma Mahler nelle sue Erinnerungen.
A chi non conoscesse la biografia di Mahler, alcuni passi di quest’appassionante rievocazione potranno sembrare oscuri.
Ma ci vuol poco a chiarirli. Proprio nel giugno del 1904 Alma aveva dato alla luce una seconda bambina, Anna Justine, che aveva dunque pochi mesi quando, alla fine delle vacanze, la Sinfonia stava nascendo; durante la composizione della Sesta, nell’estate del 1904, Mahler aveva ripreso le poesie di Friedrich Riickert ricavandone i due ultimi brani del ciclo dei Kindertotenlieder, quasi uniformandoli al messaggio tragico della Sinfonia: e quell’ostinato cantare la morte di bambini era sembrata ad Alma un “”voler chiamare le disgrazie””. Presentimenti di sciagure che si sarebbero avverate nell’estate del 1907 con un triplice colpo del destino: alla scomparsa improvvisa della figlia primogenita Maria, vittima di una malattia infettiva dell’infanzia, seguirono la prima diagnosi della grave disfunzione cardiaca che avrebbe portato Mahler alla tomba e le sue dimissioni da direttore dell’Opera di Vienna sotto la pressione di meschini intrighi locali. Ad Alma non pareva dubbio che i colpi di martello introdotti nel Finale della Sinfonia – un unicum davvero sorprendente – anticipassero questi eventi lugubri: in questo senso Alma vedeva la Sesta Sinfonia come un’opera non solo strettamente personale e profetica ma anche intimamente autobiografica, il cui “”eroe”” altri non era che Mahler stesso, rappresentato in un autoritratto “”ideale””.
Dobbiamo essere grati a Ugo Duse e Quirino Principe, autori di due monografie su Mahler assai diverse tra loro e che onorano la nostra cultura, per aver da lungo tempo gettato acqua sul fuoco della retorica e ricomposto un quadro forse meno fiorito e sensazionale ma certamente più oggettivo e credibile. Giungendo, a proposito della Sesta, a decifrare gli enigmi con conclusioni opposte. Per Duse, razionalmente: «Caratterizzata da una grande unità tematica, da un trattamento contrappuntistico eccezionale, questa Sinfonia non trova però quella via della chiarezza che il suo autore perseguiva come fine supremo. La Sesta Sinfonia è un passo indietro. Nell’economia dell’opera mahleriana ha indubbiamente un suo peso ma è in sostanza sintomo di una posizione negativa». Per Principe, esotericamente: «S’intravede una catena di corrispondenti figure in sequenza, come gli arcani di un mazzo di carte o le stazioni di una via crucis mahleriana: carcere, evocazione di demoni per sfuggire al proprio peso, speranze e frustrazioni, duro e misconosciuto lavoro, affermazione di sé e solitudine, impossibilità di concludere la propria opera, catastrofe premonitrice, morte. Attraverso questi arcani o stazioni, Mahler sembra finalmente identificarsi senza ataviche insufficienze nella tradizione musicale europea intesa come collettiva dichiarazione di angosce e di sconfitte. L’artista che si realizza in rigoglio è pur sempre minacciato, insieme con la
propria opera, dalla morte, sicché l’opera incompiuta non è casuale ma inevitabile».
La Sesta, in blocco con la Quinta e la Settima, segna il ritorno di Mahler alla sola strumentalità, dopo l’impiego della voce (solistica e corale) nella Seconda, Terza e Quarta Sinfonia.
A differenza delle sue due sorelle più prossime, che sono in cinque movimenti con lo Scherzo al centro, essa si articola nei quattro tempi tradizionali – Allegro, Scherzo, Andante e Finale –, come non accadeva più dai tempi della Prima: Sinfonia peraltro sui generis, permeata di reminiscenze liederistiche giovanili e popolari. Pur rinunciando ai testi poetici, o a citazioni che a questi direttamente rimandino, la partitura della Sesta è seminata di programmi interiori, di drammi e di visioni che configurano un mondo costellato di simboli e di allusioni; tanto che parlare di strumentalità “”pura””, e di costruzione sinfonica assoluta, è praticamente impossibile anche in
assenza di concreti riferimenti a elementi extramusicali.
L’idea che sta alla base della Sesta Sinfonia – ma sarebbe meglio dire che Mahler vi “”mette in scena”” un dramma universale personalizzandolo, proprio come fa la tragedia classica quando incarna in personaggi conflitti ideali – è di natura paradossale: essa risponde all’intenzione di costringere un disegno drammatico generale fortemente individualizzato a realizzarsi nelle forme di una Sinfonia tradizionale in quattro movimenti. Una Sinfonia in quattro movimenti è inevitabilmente legata a schemi e simmetrie più compatti rispetto a un ciclo in cinque o sei parti: e Mahler l’adotta proprio per dare unità e compattezza a un programma interiore che, pur nelle sue intermittenze, si presenta con un carattere grandiosamente monotematico. Tutta la Sinfonia, con la parziale eccezione dello Scherzo, si dipana in tempo binario, in una scansione serrata, marcata, quasi martellata: ritmo di marcia che, nella sua inesorabile brutalità, sembra voler affermare qualcosa di ineluttabile, alla stregua di un’idea fissa. Di solito Mahler rifugge dall’idea fissa per mostrare piuttosto, del suo mondo, gli aspetti più variegati e contrastanti, tra paesaggi della natura e dell’anima, esaltazioni e depressioni, luci e ombre: qui essa diviene invece il motore stesso della Sinfonia.
Volendo racchiudere questo programma in una formula, si potrebbe parlare, citando l’autore, di una «lotta dell’uomo contro il destino»: una lotta che annulla la carica ideale, di forza positiva e autoaffermativa, dell’umanesimo eroico beethoveniano per ribaltarsi in corsa verso l’annientamento totale, in tremenda catastrofe cosmica senza palingenesi. E proprio qui sta il cuore del paradosso, della sfida: per realizzare questo assunto in modo incontrovertibile Mahler si sottomette alla prova di forza della Sinfonia tradizionale, rispettandone in principio gli equilibri, stabilendo collegamenti armonici e tematici tra i tempi esterni e usando i tempi centrali in funzione di questi, per far risaltare ancor più l’evidenza della dimostrazione. Solo che la prospettiva di fondo è diametralmente rovesciata: il colossale edificio sinfonico punta a un approdo lucidamente negativo, non costruisce un sistema di valori che si affermino nella saldezza della forma organica ma al contrario progressivamente li dissolve in una furiosa, allucinante danza macabra, per lasciar da ultimo posto alle macerie di una terribile disfatta. E il buio che si annuncia, i cui echi fantasmatici risuoneranno negli appelli strazianti e nelle spettrali apparizioni della lunga notte della Settima Sinfonia.
Di conseguenza Mahler accresce enormemente nella Sesta lo spessore compositivo, accentuandone la componente dotta, contrappuntistica e combinatoria; ma al tempo stesso dissemina lungo il percorso simboli precisi, che alla stregua di indicatori stradali orientano il senso del cammino e ribadiscono i significati che vi sono sottesi. La novità sta nel fatto che questi simboli, ai quali è possibile ma non indispensabile attribuire il valore di un messaggio più o meno filosofico, sono
espressi con mezzi interamente musicali, senza implicazioni dall’esterno: in altri termini, sono figure che irrompono con forte individualità propositiva – vedi il caso estremo dei colpi
di martello – ma che si realizzano con valore di simbolo nell’autonomia del linguaggio sonoro, presentandosi in veste di ritmi, di temi, di armonie e di timbri. Citeremo solo i due esempi più pregnanti. Il primo è il motto delle tre trombe che appare subito nel primo movimento, un accordo di tonalità maggiore in fortissimo che si trasforma in minore diminuendo al pianissimo, accompagnato dalle sei note del timpano che scandiscono il ritmo del destino: il modo in cui Mahler lo isola e lo riprende senza alcuna trasformazione nei momenti culminanti della Sinfonia ne fa il segnale di qualcosa di immodificabile. Il passaggio immediato dal maggiore al minore richiama, fin dai tempi di Schubert, una sensazione precisa, a cui è però difficile dare un contenuto: uno stato d’animo più che un concetto. Mahler se ne serve proprio per collegare questo stato d’animo all’idea fissa di un destino eternamente presente, ostile all’uomo e alla sua autonomia: quasi una trappola che non lasci scampo, illudendo e subito irridendo.
L’ambiguità però permane, è per così dire strutturale, e non può esser sciolta in immagine di un programma. (Come semplice curiosità noteremo che, in palese osservanza dell’estetica wagneriana dei Leitmotive, se non di quella del poema sinfonico, molti commentatori hanno cercato di dargli un nome e un contenuto, riducendo la pregnanza del simbolo a etichetta: motivo della “”hybris”” cosmica, dell’ineluttabilità del destino, della speranza che si muta in disperazione, e via dicendo).
Il secondo esempio riguarda l’uso di alcuni strumenti del tutto inusuali, come lo xilofono (unica presenza in tutte le Sinfonie di Mahler), le nacchere, la frusta, il già più volte citato martello, le campane tubolari e soprattutto i campanacci delle mucche (“”Herdenglocken””). Anche qui la tentazione di assegnare a questi interventi un significato simbolico di natura extramusicale è molto pronunciata: nacchere e xilofono hanno fatto pensare ai ghigni sardonici del diavolo, le campane basse ai rintocchi delle chiese di paese, la frusta ai colpi sferzanti del destino, prima che il martello compia l’opera di abbattimento. Non negheremo che Mahler potesse essere attratto da questi ingenui accostamenti, che appartenevano al mondo delle sue esperienze sensibili e delle sue visioni all’aria aperta; nel campo vastissimo della Sinfonia essi contribuiscono però in primo luogo a creare un’atmosfera timbrica, a comunicare uno stato di disagio e di angoscia che rapidamente si materializza in epifanie di opposti, in folgorazioni e ricordi, sogni e disincanti, malinconie e improvvise euforie: un magma psicologico che continuamente ribolle e freme, s’inabissa e riemerge trasfigurato, senza che il processo mai si arresti. Aver dato consistenza sonora a questa eruzione senza precisarne univocamente i riferimenti, con una strumentazione di magistrale illusionismo, dove i trucchi del mestiere si confondono con le verità più disarmanti, ci pare un pregio perfino superiore alla indifferibile partecipazione umana che la musica di Mahler provoca beatamente in noi, con le sue perorazioni di sciagure e salvazioni. Poco importa dunque certificare che i campanacci delle mucche, di cui ognuno di noi ha un’esperienza diretta non necessariamente nostalgica di purezze perdute, simboleggino per Mahler la più profonda solitudine e lontananza dal mondo; quando li udiamo inaspettatamente nella compagine tesa e fremente di questa Sinfonia essi aprono davvero, con un effetto magico, una visione di sogno, trasportandoci là dove Mahler vuole: a vibrare con lui con l’emozione più sincera nelle rarefatte altitudini montane e nello stesso tempo a sorridere di tanta capacità incantatoria.
Nel primo movimento (Allegro energico, ma non troppo), in la minore, i tre capitoli della forma-sonata, esposizione sviluppo e ripresa, marmorizzati nella loro monumentale saldezza, sono scossi da tumultuose vicende tematiche. Il materiale è fin dall’inizio sovrabbondante, scolpito a colpi d’accetta il primo tema, che irrompe con tutta la sua energia devastante su un impetuoso movimento di marcia. Salti d’ottava, subitanee discese nell’abisso, ritmi barbaricamente scanditi si raggelano più avanti in una sorta di corale intonato in pianissimo dai legni sul pizzicato degli archi, in pietrificata atmosfera di attesa. Da esso nasce, sull’affermazione prepotentemente ascensionale degli archi, il tema di Alma, una frase in maggiore vibrante di passione, luminosa di espressività, vitalistica nella disperazione, come di cosa desiderata con ardore ma anche forse irraggiungibile, spinta com’è in quella tessitura così acuta dei violini. Tre concetti principali caratterizzano dunque l’esposizione; cui lo sviluppo, dopo l’elaborazione di questi nuclei tematici, sollecitati da trilli e tremoli e resi talvolta diabolicamente sarcastici dalla presenza dello xilofono, aggiunge un episodio del tutto nuovo, in tempo moderato: ai timbri già rarefatti di celesta, archi in pianissimo, corni con sordina e tromboni vaghi di sonorità arcaiche, si uniscono i campanacci delle mucche, a rappresentare l’altrove di intatte solitudini alpestri, il distacco dai tumulti della valle di lacrime, lassù nella pace dei suoni della natura. L’oasi è sogno, effimera la sua durata. La ripresa rimette in discussione tutta la materia già esposta con incisive e complesse varianti, combinate in modo da far campeggiare nella conclusione, euforicamente ripetuto in maggiore, il tema di Alma, gonfio di esaltazione e di tragedia.
A stabilire la continuità dell’idea fissa, lo Scherzo si apre in la minore, sullo stesso ritmo di marcia del primo movimento, ribadito dal timpano solo con pesanti sforzando sul tempo debole. L’idea principale è dunque di natura ritmica, ma si tratta ora di un ritmo zoppicante, in 3/8 martellati senza strascicare. L’atmosfera si fa grottesca, sinistra, a momenti forse ironica: il trillo ne è l’elemento caricaturale caratteristico. Attimi di calcolata sentimentalità, non si sa se oppressa o semplicemente trattenuta, vengono a interrompere il meccanico svolgersi della scena, che ad Alma ricordava gli innocenti giochi sulla rena delle sue due bambine, con orribili presagi. Il Trio in fa maggiore è un grazioso intermezzo in tempo meno mosso che Mahler, quasi a voler sottolineare lo stacco, chiama
“”Altvterisch””, ossia “”alla maniera antica dei patriarchi””: affettuosa rievocazione di un tempo lontano, colta in una luce fredda, con lo stupore di chi scopra in soffitta un vecchio teatrino di burattini e lo osservi con curiosa trepidazione animarsi.
L’Andante moderato che segue, in mi bemolle maggiore, sembra ricollegarsi, all’inizio, con il clima espressivo di struggente rimpianto dell’Adagetto della Quinta Sinfonia, soprattutto quando la delicata trama degli archi viene impreziosita dai tocchi leggiadri dell’arpa; ma già l’uscita del corno con un’ampia e distesa frase melodica fa prendere alla pagina un respiro più robusto e vigoroso, meno crepuscolare ed elegiaco. La sezione del secondo tema, esposto dal corno inglese, ci trasporta nuovamente in vista di alture montane, con insistenti echi di Jodeln e di richiami pastorali, come in una panoramica cinematografica. Dal cuore di questa sequenza idilliaca si origina un violento sussulto, e la parte restante del movimento s’infiamma per salire a una temperatura incandescente, abbandonato il candore di visioni serene e assumendo sempre più il tono di una confessione soggettiva e appassionata, affidata alla voce spiegata degli archi. Raggiunto l’acme, la discesa avviene a poco a poco senza più concitazione, con dignità e misura di proporzioni classiche.
L’ultimo movimento è preceduto da un’estesa introduzione (Sostenuto), luogo di cupi e inquieti presagi, da cui si generano schegge di motivi in caleidoscopiche figurazioni: archi librati in slanci vertiginosi, grotteschi avvii di marcia del basso tuba, lontani richiami del corno, pallide fanfare dei legni, il tutto ossessivamente minacciato dal motto fatale della Sinfonia, l’accordo maggiore delle trombe che cambia in minore sui violenti colpi del timpano. Il vero e proprio movimento conclusivo si mette in marcia con l’Allegro moderato, poi energico, che organizza e riepiloga il conflitto tra volontà catartica e progressiva resa al disfacimento. L’inserzione di un secondo elemento tematico, così teneramente conciliante e consolatorio, crea spazi d’inatteso lirismo e squarci di limpidezze più immaginarie che reali, frenando ma non arrestando il corso impetuoso, sempre più pressante della marcia. La riapparizione dell’introduzione all’inizio della ripresa spinge gli eventi verso l’epilogo. Tra bagliori sinistri e demoniaci, il ritorno dei campanacci ha qualcosa di assurdamente irreale e fantomatico; il secondo tema è ora poco più che una larva e tutto sprofonda pesantemente nel gorgo terribile e tartareo della marcia. Nella notte cupa e senza speranza il destino afferra l’anima dell’eroe, dopo aver infierito sul cadavere a colpi di martello. Sui brandelli che rimangono si stende, in una sorta di preghiera intonata dagli ottoni gravi, un velo intriso di umanissima, amara pietà. Un’ultima impennata di disperazione si leva nel grido dell’accordo di la minore lanciato fortissimo a piena orchestra: annientato dalle pesanti mazzate del timpano. Il resto è silenzio, ben oltre il pizzicato degli archi che sigilla con un singhiozzo il verdetto su questo mondo.
James Conlon / Orchestra dell’Accademia musicale di Santa Cecilia
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Gestione autonoma dei concerti – Stagione sinfonica 1997-98