Prima, Seconda, Terza, Quarta, Quinta. E poi Sesta, Settima, Ottava, Nona. Un nuovo inizio, definitivamente interrotto, con la Decima. Se proviamo a scandire di seguito, come intonando d’un sol fiato una scala immaginaria, le Sinfonie di Gustav Mahler, viene istintivo fermarsi dopo la Quarta e isolare la Quinta tra due punti di respiro. Essa sta da sola, al culmine di una sequenza ascensionale, al vertice della piramide. Tutto sembra predisposto per lei. Tutto ricomincia da capo dopo di lei. La Sinfonia delle certezze, volute e ricercate. La Sinfonia del fallimento, amaro e ineluttabile.
Da questo punto di vista non è soltanto la collocazione numerica a fare della Quinta il perno centrale della produzione sinfonica di Mahler. Il suo equilibrio si presenta instabile, scosso da una vertigine che a ogni passo (e tanto più quando si propone di avanzare) minaccia il crollo dalle fondamenta. Neppure il principio del brusco cambiamento, che qui Mahler sembra elevare a legge formale primaria, appare in grado di reggere il peso di ciò che vi accade. Ma vi accade veramente qualcosa? O il senso della Sinfonia, dopo l’agghiacciante marcia funebre che l’apre (e che cos’è una marcia funebre se non già una conclusione) è solo quello di un disperato girare a vuoto, di un insensato rincorrere illusorie speranze e barriere di salvezza? Certo, c’è l’Adagietto, momento di dolcissima intimità e di conforto, nel quale l’ansia sembra placarsi per intonare di fronte al mondo, impudicamente, un canto senza parole pieno di consolazione e di protezione: ma l’Adagietto, un’oasi lirica che deve la sua maggior fortuna a esecuzioni estrapolate e isolate (isolamento nell’isolamento), fa tutt’altra impressione quando lo si ascolti al suo posto nella Sinfonia, schiacciato com’è tra il tumultuoso Scherzo e l’ossessivo Rondò finale: troppo effimero anch’esso, quasi sintomatico dopo tanta attesa e prima di tale ripresa. Neanche lí è possibile trovare un punto di appoggio al vorticoso, a tratti pesante ed estenuante roteare e avvolgersi della Sinfonia. I Eppure, apparentemente, Sinfonia della svolta, ad apertura del periodo centrale della creatività di Mahler. Cesura rispetto all’esperienza delle opere precedenti, le cosiddette Wunderhorn-Symphonien;
segnale d’inizio della trilogia puramente strumentale completata I dalla Sesta e dalla Settima. Spariscono le ispirazioni folcloristiche, i programmi poetici, gli elementi favolistici e infantili, la tematica liederistica, le voci. Al loro posto, in questo lavoro affidato alla sola orchestra, una nuova, granitica durezza sinfonica, trascinata da un’espansione formale che fa del continuo prolungamento della tensione quasi una ragion d’essere morale prima ancora che linguistica. L’orchestra è piena, con sei corni, quattro trombe e tre tromboni, una ricca percussione, e l’arpa per la magia timbrica dell’Adagietto; la durata, ampia (70 minuti); vi sono cinque tempi divisi in tre parti, e solamente dopo i primi due (vistosamente imparentati dal punto di vista tematico) incontriamo una disposizione apparentemente familiare, anche se non è così che si costituisce davvero un ritorno alla norma.
I primi abbozzi della Quinta risalgono al 1901. Un anno importante per Mahler, sia nella sfera privata (l’incontro con Alma Schindler, sua futura moglie) sia nell’ambito professionale (i primi promettenti successi come direttore dell’Opera di Vienna). Il grosso della composizione nacque nel 1902, durante il soggiorno estivo nella villa di Meiernigg. Ma anche dopo il completamento della partitura, terminata nei primi mesi del 1903, e dopo la prima esecuzione, avvenuta a Colonia il 19 ottobre 1904, Mahler aveva continuato a rivedere questa Sinfonia «molto, molto complessa», soprattutto nella strumentazione: fino all’ultimo. L’8 febbraio 1911, pochi mesi prima della morte, scriveva all’amico Georg Göhler: «Ho finito la Quinta: in pratica ho dovuto istrumentarla di nuovo da capo. Neppure io riesco a capire come allora potessi commettere tanti errori, come un principiante. Evidentemente la routine acquisita nelle prime quattro Sinfonie qui mi aveva del tutto abbandonato: il fatto è che uno stile completamente nuovo esigeva una tecnica nuova».
Se la svolta avviene con questa Sinfonia, non è per tratti esteriori e volontaristici, ma per fatti interni al suo percorso. La Quinta non è tanto la sinfonia della svolta quanto la sinfonia capitata nel vortice, nella corrente della svolta. A qualcuna doveva accadere. Capitò a questa. Qui per la prima volta Mahler abbandona un supporto pro-grammatico di carattere extramusicale, rinunciando sia alla descrizione sia alla traccia dei testi. In una lettera a Max Kalbeck di quel tempo egli si espresse su questo aspetto in modo quasi esaltato, ma molto chiaro: «Non c’è musica moderna, a cominciare da Beethoven, che non abbia un programma interno. Ma nessuna musica è valida se all’inizio occorre avvertire l’ascoltatore delle esperienze che vi sono contenute, o rispettivamente dirgli ciò che dovrà provare. Ancora una volta dunque: pereat qualsiasi programma. Bisogna e basta avere orecchie e un cuore e, non ultima cosa, sapersi abbandonare di proposito al rapsodo. Una parte di mistero rimane sempre: perfino per il creatore!». Per Mahler queste riflessioni costituivano una chiarificazione sul piano concettuale; artistica-mente coincidevano con l’annuncio di un cambiamento di stile: anche se non contraddicevano l’affermazione egocentrica secondo la quale ogni sinfonia si proponeva di affrontare un problema interno alla sua visione del mondo.
Nella Quinta permangono tuttavia alcuni riferimenti ad opere precedenti. Nell’Adagietto c’è un preciso legame tematico col Lied Icb bin der Welt abbanden gekommen, terzo dei Rückert-Lieder, e nel Rondò-Finale col Lied Lob des boben Verstandes: nel primo tempo si trova una citazione da Der Tamboursg’sell e del primo dei Kindertotenlieder, oltre ad allusioni tematiche alla Quarta Sinfonia nel motivo iniziale della tromba. Queste citazioni non individuano però un campo semantico a cui sia possibile rifarsi per dare un significato alla Sinfonia: sono piuttosto frammenti di un’unità spezzata, che galleggiano in un mondo fondamentalmente estraneo, come la memoria di un tempo che fu. E ciò si rispecchia nella concezione generale della Sinfonia, refrattaria tanto a seguire un percorso di progressiva ascesa verso una trasfigurazione (Seconda, Terza, Quarta Sinfonia) quando a sospendersi in visioni interiori e incantamenti capaci di annullare il senso del movimento e della vertigine. Ognuna delle tre parti di cui essa si compone (una suddivisione che è necessario tener presente nell’articolazione d’insieme) circoscrive un capitolo a sé stante, repentinamente contraddetto in favore d’un atteggiamento completamente diverso: e ciò che tiene uniti questi passaggi è l’idea stessa del movimento, antidoto forse già scaduto di un incrollabile e schizofrenico horror vacui.
In nessun’altra delle precedenti Sinfonie il piano tonale è distribuito in modo così elementare e chiuso. Il primo movimento è in do diesis minore e comprende già al suo interno (nella seconda parte del Trio) un’anticipazione della tonalità del secondo, la minore. Tutto il primo blocco è dunque dominato dalle tonalità minori, ed è emotivamente e tematicamente una sorta di allucinata peregrinazione nella valle di lacrime, per bere fino in fondo – tra irruzioni di rivolta e nostalgiche rimembranze – il calice amaro della vita, della vanità. La seconda parte, interamente occupata dallo Scherzo, è in re maggiore e oppone all’umore nichilistico della prima una gioiosa affermazione di vitalità, o quanto meno una robusta dichiarazione di forza. Ciò che risulta evidente fin dall’impaginazione è che fra le due parti non vi è mediazione né continuità, ma giustapposizione: le due diverse impostazioni coesistono, come due modi opposti e speculari di guardare agli eventi e dentro di sé. Il terzo e ultimo blocco comprende gli ultimi due movimenti. La sproporzione fra l’Adagietto e il Rondò finale è in sé vistosa, ma tonalmente non crea alcuno scarto. Da fa maggiore si placa quasi dolcemente a re maggiore sfruttando una nota comune dell’accordo, ma subito risvegliandosi di colpo: come dire che il ripiegamento interiore è solo una parentesi prima che di slancio si ritorni là dove eravamo rimasti. E da un certo punto di vista la Sinfonia ricomincia proprio dal Finale, la struttura più problematica e densa di prospettive finora costruita da Mahler.
Per compiere un tragitto estremamente breve ma teso, da do diesis minore a re maggiore, divisi melodicamente appena da un semitono, Mahler imbocca la strada più diretta, addirittura prefigurando già la conclusione nel tempo centrale, per avvalorarla poi alla fine in una colossale sintesi della forma-sonata con il rondò. Il procedimento è così insolito da sembrare fin troppo carico di significati: Mahler abolisce qui la dialettica delle tonalità per togliere alla Sinfonia qualsiasi parvenza di un campo di sviluppo libero e predeterminarlo nella semplice aspirazione di una nota sensibile che anela alla tonica. E difatti il processo compositivo non è basato sulle relazioni tonali, ma sul contrappunto, che ne è l’elemento costruttivo fondamentale. Solo che l’edificio contrappuntistico, anche quando mira ad ordinare polifonicamente l’accavallarsi di forze espressive disperse e disgreganti, riposa su una fondamentale staticità e simultaneità di elementi, e non disegna un itinerario più o meno lineare, ma accumula tensioni su tensioni, strati su strati, avvitamenti su avvitamenti, passando repentinamente da uno stato d’animo all’altro: come se ciò che contasse fosse non interrompere mai il movimento, non dare spazio alla riflessione, tregua all’incalzare delle tensioni.
Mancano, in questa Sinfonia, non soltanto l’idea di un centro, ma anche la delimitazione di un prima e di un poi, di un punto iniziale e di uno finale. Se tutto si muove e si trasforma, ma senza che nelle trasformazioni vi sia un nesso coesivo, ogni momento racchiude e riorganizza in sé ciascuna possibilità, isolatamente e con-temporaneamente. L’instabilità elevata a sistema ne è fattore determinante: e la musica lo rappresenta accettando il caos dei molteplici linguaggi, la intercambiabilità di gioia e disperazione, perfino la non distinzione di suoni e rumori. Che cosa è suono e che cosa rumore nella mostruosa visionarietà dello Scherzo, così innocentemente e perfidamente scandito dai richiami rassicuranti del corno obbligato; che cosa è vero e che cosa falso, realtà o illusione, nella esultante conclusione del Rondò, con la fin troppo esibita affermazione del grandioso corale di ottoni? La stessa calda perorazione dell’Adagietto, con la rarefazione della scrittura sottolineata dalla strumentazione per soli archi e arpa, è un sogno che dura quanto vibra la musica, ma non oltre; e su un altro piano l’energia primordiale del ritmo non s’incarna in marce e danze di reale concretezza, di terrestre umanità: impossibile marciare e danzare su quei ritmi. Tutto è dunque spostato altrove, rimanda ad altri agganci, ad altri vuoti, ad altre storie. Ed è lí che probabilmente si trova la verità di questa Sinfonia. Per non perderla di vista, dobbiamo ricercarla in una sfida che si rinnovi ad ogni esecuzione (e in questa che ci apprestiamo ad ascoltare forse più che in altre) e che costringa ogni volta a ripartire da capo: da quella fanfara solitaria della tromba che già all’inizio annuncia, col suo ritmo zoppicante, un male oscuro dell’anima e insieme il desiderio meraviglioso d’una certezza finale.