Gustav Mahler – Sinfonia n. 3 in re minore per contralto, coro femminile,coro di bambini e orchestra

G

“”E vide che questo era buono””

 

“”Il fine al quale io voto fino all’ultimo

tutti i mezzi che ho a disposizione è di

rendere udibile tutto ciò che risuona al

mio orecchio interiore””

(Gustav Mahler, estate 1896)

 

Per comporre la Terza Sinfonia Mahler impiegò, com’era suo costume, diverso tempo: quattro anni per l’esattezza, tanti quanti gli erano occorsi perché vedesse la luce la Prima Sinfonia, portata a termine a Lipsia nel 1888, ma meno di quelli necessari alla nascita della Seconda, iniziata ancora a Lipsia nel 1887 e finita durante le vacanze estive a Steinbach sull’Attersee, precisamente il 25 luglio 1894. Proprio a Steinbach, il 6 agosto 1896, Mahler scrisse la parola fine sulla partitura della Terza, i cui primi abbozzi, relativi ai tempi centrali, risalivano appunto all’estate del 1893; e occorre qui ricordare che egli poteva dedicarsi pienamente alla composizione soltanto nei mesi estivi, durante le vacanze dal suo lavoro principale di direttore d’orchestra e di teatro, in quel tempo prima a Lipsia e Budapest, poi ad Amburgo.

Nonostante il successo di alcune prove parziali, per la prima esecuzione integrale della Terza Sinfonia si dovette attendere fino al 9 giugno 1902, quando l’autore la diresse a Krefeld in una memorabile occasione. Alma Mahler, nel suo libro di ricordi, racconta così l’avvenimento: «L’esecuzione era aspettata con trepidazione, perché già alle prove tutti avevano capito con sempre maggior chiarezza quant’era grande e importante l’opera che si stava affacciando al mondo. Dopo il primo tempo scoppiò una manifestazione entusiastica. Richard Strauss si fece avanti sotto il podio e applaudì ostentatamente, tanto che suggellò, per così dire, il successo. E, dopo ogni tempo, gli ascoltatori sembravano più emozionati; anzi, alla fine nel pubblico che si era alzato in massa e premeva verso il podio si scatenò un vero delirio. L’atteggiamento di Strauss diventò sempre più passivo: da ultimo era scomparso!». E Mahler? I sci anni di attesa lo avevano reso sempre più cosciente del valore dell’opera; quel che gli mancava era solo un riscontro pratico, e già durante le prove si era mostrato soddisfatto. Narra ancora Alma: «Dopo il primo movimento, che veniva eseguito allora per la prima volta, arrivò ridendo allegramente e mi gridò già da lontano: “”E vide che questo era buono””».

L’architettura generale della Sinfonia, articolata in sci movimenti, è tagliata in due grandi blocchi: il primo è costituito per intero dal solo primo movimento, al termine del quale è prescritta in partitura una pausa di almeno cinque minuti; seguono senza soluzione di continuità i rimanenti cinque movimenti, i primi due strumentali, il terzo e il quarto vocali, l’ultimo nuovamente strumentale, nella forma di un lungo Adagio. In origine a questo Adagio doveva seguire un settimo tempo, la visione della vita celestiale, passata poi a costituire il Finale della Quarta Sinfonia, che con la Terza è quindi in stretto collegamento. La decisione alquanto insolita (il cui unico precedente confrontabile è dato dalla Patetica di Cajkovskij, di soli tre anni anteriore) di far finire una Sinfonia con un Adagio, che troverà poi la sua sublimazione nel Finale della Nona Sinfonia, pare senza dubbio il frutto di una necessità interiore.

Se la Prima Sinfonia, in quattro movimenti, era nata come un’estensione sinfonica dei Lieder eines fahrenden Gesellen, con lo scopo di proiettare sul piano della forma sinfonica le caratteristiche peculiari di un linguaggio fortemente autobiografico, la Seconda Sinfonia in cinque movimenti compie un salto notevole nella individuazione di un nuovo ambito formale, legato a un programma di più vaste dimensioni: argomento della Sinfonia è, secondo le parole dell’autore, il significato della vitae della morte, che trova nella grandiosa scena finale del “”grande appello”” e nel “”corale della resurrezione”” fideistico sbocco. Mahler si addentra così nel mondo della Sinfonia alla ricerca di una totalità in cui speculazione filosofica e fervore religioso traducano il contenuto programmatico in una architettura musicale più liberamente articolata ma fondamentalmente salda.

Anche nella Terza lo schema tradizionale in quattro movimenti è superato, al pari di ciò che accadeva nella Seconda; ma mentre questa, sia formalmente che spiritualmente, guarda alla Nona di Beethoven, mutandone l’apoteosi corale della “”gioia”” in apoteosi della fede eterna, di Beethoven essa ricorda, nella logica costruttiva, lo stile degli ultimi Quartetti, dell’op. 130 (in sei tempi), 131 (in sette tempi), 132 (in cinque) e 135: di quest’ultimo citando perfino un inciso nel movimento finale. Un altro aspetto di singolare importanza è che il monumentale primo movimento, quasi Sinfonia nella Sinfonia, fù composto per ultimo (tra l’agosto 1895 e l’agosto 1896), quando gli altri erano già compiuti o comunque largamente abbozzati (tra l’estate del ’93 e l’estate del ’95): circostanza, questa, che se da un lato aiuta a comprendere la relazione fra i due blocchi (un movimento contro cinque), dall’altro autorizza una lettura basata su un procedimento a ritroso o addirittura circolare, in cui il primo movimento è insieme conclusione e nuovo inizio. Questa ipotesi, oltre a stabilire ulteriori analogie con gli ultimi Quartetti di Beethoven, è avvalorata dalla presenza di collegamenti tematici e ponti psicologici, chiaramente simbolici in figure come citazioni, reminiscenze e metamorfosi, tra prima e seconda parte.

Anche la Terza fu composta seguendo la traccia di un programma poetico assai elaborato, di cui rimangono parecchi appunti, in ben cinque diverse varianti sul tema di fondo del rapporto fra l’uomo e la natura. Via via la Sinfonia avrebbe dovuto intitolarsi Pan (donde l’appellativo di Sinfonia del canto del grande Pan con cui fu per certo tempo nota), la Gaia scienza (evidente riferimento a Nietzsche, di cui veniva utilizzato un passo di Così parlò Zarathustra nel quarto movimento), La vita felice e infine Sogno di una notte di mezza estate (con la postilla, tra il serio e l’ironico: “”Non da Shakespeare. Nota per i critici e per gli shakespeariani””). Accanto a questi titoli generali, che furono poi i primi a cadere, ogni movimento ebbe dei brevi sottotitoli con il compito di «offrire qualche indicaúone per le sensazioni che debbono visualizzarsi»; tale progetto, più a proprio uso e consumo che per beneficio altrui, venne comunicato da Mahler all’amico Fritz Löhr in una lettera del 1895:

1. “”Risveglio di Pan. Irrompe l’estate””. Introduzione, fanfara e marcia giocosa.

2. “”Quel che mi raccontano i fiori di campo””.

3. “”Quel che mi raccontano gli animali del bosco””.

4. “”Quel che mi racconta la notte””. A solo di contralto: “”O Mensch! Gibt Acht!””.

5. “”Quel che mi raccontano le campane del mattino””. Coro di bambini, contralto e coro femminile: “”Es sungen drei Engel””.

6. “”Quel che mi racconta l’amore””. Motto: “”Padre, guarda le mie ferite: non abbandonare alcuna creatura””, dal Des Knaben Wunderhorn.

7. “”La vita celestiale””. Soprano solo: “”Wir geniessen die himmlischen Freuden””.

Se il settimo movimento, come si è detto, trovò altra destinazione, il contenuto e i sottotitoli scomparvero tanto nell’edizione a stampa, pubblicata a Vienna da Weinberger nel 1898, quanto nel programma della prima esecuzione, per riapparire con piccole modifiche soltanto una volta, in occasione di una ripresa a Berlino agli inizi del 1907, all’evidente scopo di facilitare l’impatto con il pubblico di una partitura considerata quasi incomprensibile. Del tutto ingiustificata, soprattutto oggi, deve quindi considerarsi la pretesa di mantenerne a qualsiasi titolo il valore.

Il fatto che tale programma fosse soppresso prima della pubblicazione non significa però che Mahler non se ne sia servito nel predisporre il piano compositivo, nell’organizzare il materiale tematico e i suoi sviluppi; tanto quanto appare certo che la sua scomparsa dipendesse in primo

luogo dall’assorbimento dei riferimenti extramusicali nel tessuto musicale della composizione. Ma non solo. Proprio lavorando alla Seconda, Terza e Quarta Sinfonia, un trittico dominato da evidenti relazioni con il mondo poetico di “”oscure sensazioni”” del Des Knaben Wunderhorn, Mahler giunse a distinguere con chiarezza tra un “”programma interno”” (o interiore, radicato nell’anima del musicista e a lui necessario per esprimersi) e tematiche programmatiche estrinseche alla musica, più che esteriori, accidentali, caduche: «In quanto a me so che non posso far musica fintantoché la mia esperienza si può raccogliere a parole. La mia esigenza di esprimermi musicalmente  – sinfonicamente – inizia solo quando dominano le “”oscure”” sensazioni, ed esse dominano sulle soglie che conducono all’altro mondo, il mondo in cui le cose non si scompongono più nel tempo e nello spazio. Come trovo volgare inventare musica su programmi prestabiliti, così considero insoddisfacente e sterile voler dare un programma a un’opera musicale. Non cambia niente il fatto che l’occasione per una creazione musicale sia un’esperienza del compositore, dunque qualche cosa di reale che avrebbe tali caratteri di concretezza da poter essere espresso a parole. Anch’io mi sono costruito un “”sistema”” e su di esso ho lavorato; ma dopo aver scritto alcune sinfonie, con autentiche doglie, e dopo essermi imbattuto sempre negli stessi malintesi e negli stessi problemi, finalmente per quel che mi riguarda ho raggiunto questa visione delle cose».

Mahler fu assolutamente consapevole che la Terza avrebbe rappresentato qualcosa di eccezionale, non solo o non tanto per le sue proporzioni davvero abnormi sia per durata (più di un’ora e mezza, con un primo movimento che raggiunge da solo i quaranta minuti) sia per organico (orchestra colossale in ogni sezione, batteria sterminata, cui si aggiungono la voce solista del contralto, il coro femminile a tre parti e il coro di bambini; Busoni ironizzava che per eseguirla ci sarebbero voluti «i passeggeri dell’Arca di Noè: coccodrilli contralti, tenori e bassi, serpenti cromatici, uccelli del Paradiso a pedale!»). L’eccezionalità stava nella novità del “”programma interiore”” sotteso alle idee musicali: «La mia Sinfonia sarà qualcosa che il mondo non ha ancora udito. La natura parla qui dentro e racconta segreti tanto profondi che forse ci è dato presentire solo nel sogno. Talvolta mi sento veramente a disagio e mi pare di non essere io a comporre: proprio perché riesco a realizzare ciò che voglio». Natura e sogno sono evidentemente termini-chiave per comprendere l’essenza di un programma che nasce come idea totale insita nella musica stessa e non prima di essa: sotto questo profilo natura significa non solo un concetto astratto bensì anche un’entità concretamente comunicabile, ossia i “”suoni della natura”” che emergono come per forza propria dall’incontaminato accordo primordiale e rappresentano le voci dell’ordine razionale e spirituale, contraltare alle angosciose visioni del mondo, agli incubi dell’esistenza. Ciò che il musicista può presentire solo nel sogno, e nel sogno religiosamente evocare, viene sottratto al mistero silenzioso del nulla e alla paura della solitudine, diventando esso stesso un atto di riscatto, una forma di amore.

L’ultimo movimento è, in questo senso, decisivo. Il l ° luglio 1896, dunque al culmine della sua composizione, Mahler scriveva ad Anna von Mildenburg: «All’incirca potrei definire l’ultimo tempo così: “”Ciò che Dio mi racconta””. E precisamente proprio in quel senso che Dio infine può essere inteso solo come amore». Dio è amore: ecco la rivelazione, la mèta ideale verso la quale conduce il sentiero del lungo Adagio nel percorso tortuoso dell’intera Sinfonia. Riconosciutosi parte integrante della natura accanto ai fiori di campo e agli animali del bosco, l’uomo apprende il suo destino attraverso il sentimento della morte, che porta con sé rassegnazione e dolore. Ma quando le campane del mattino, animate dal canto dei bambini che col loro Bimm-Bamm accompagnano il tenero dialogo angelico fra San Pietro e Gesù, fugano le ombre della notte e restituiscono all’uomo il senso della sua vita, ecco che allora parla l’amore; all’improvviso il vuoto si trasforma in ricchezza e la disperazione in vita: la certezza dell’esistenza dell’amore diviene qualcosa di reale nel mondo degli uomini. E la rivelazione della “”gioia celeste”” schiude un nuovo ciclo, una nuova esistenza, forse una nuova totalità: solo l’amore può vincere il dolore e la morte. Sappiamo che Mahler pensava di concludere la Sinfonia con la rappresentazione della vita celestiale, arrestandosi però su quel limite: l’idea di una speranza. Da questo punto di non ritorno parte l’immensa arcata dell’ultimo movimento, che invece torna a evocare, con cupa drammaticità, gli spettri inquieti della notte, dove il desiderio ardente e la rinnegazione, il dubbio e la fede, si agitano in rinnovata battaglia, ricollegandosi infine, come in una giostra senza fine, all’inizio.

Il primo movimento reca l’indicazione: Vigoroso. Risoluto. Pur nella sua grande complessità può essere suddiviso nelle tre parti tradizionali di esposizione, sviluppo e ripresa, piegate però a funzioni che si allontanano sempre più dalla logica della Sinfonia classico-romantica. L’idea formale è data dall’impulso di una sorgente che si muove nel tempo e nello spazio secondo un sistema di relazioni internamente costituite, con equilibri differenziati. La ripresa diviene così anzitutto ritorno, ricapitolazione, memoria che per così dire si avvita su se stessa in profondità; lo sviluppo elabora idee e materiali che non tendono a integrarsi ma semmai a disperdersi, per cercare associazioni sempre più lontane e criptiche per mezzo della tecnica delle varianti. L’esposizione, una gigantesca marcia, non propone figure con una individualità tematica assolutamente distinta ma piuttosto una parata di motivi che proliferano e si allinea-no senza mediazioni né transizioni. Lo stesso tema principale che apre la Sinfonia, affidato a otto corni all’unisono: in fortissimo, perde a poco a poco la sua forza e la sua decisione per svaporare nel pianissimo di una sequenza spettrale, enigmatica, un motto oscuro che riapparirà come figura autonoma ai violoncelli e contrabbassi all’inizio del Lied di Zarathustra. Passaggi come questi individuano fin dall’inizio il clima e allargano gli orizzonti della Sinfonia: nel momento in cui si apre il sipario di un teatro virtuale si è come trasportati in un’altra dimensione, con la sensazione di aver già vissuto o sognato quanto ora ascolteremo.

Un primo gruppo di temi si dipana “”pesante e cupo””, con movenze quasi di recitativo: la fanfara lacerante delle trombe prefigura un dramma di proporzioni apocalittiche. La marcia inesorabile ha inizio, scandita dal rullare della grancassa e dalla parata di brandelli di motivi fittamente intrecciati. Il secondo gruppo di temi, guidato dalla lunga melodia dell’oboe subito ripresa dal violino solo, ha qualcosa di allucinato, di fantomatico; ad esso si contrappone un grottesco recitativo di violoncelli e contrabbassi, che si perde all’improvviso sul semplice ritmo della batteria e muore in una pausa di silenzio generale. Una breve attesa e l’esposizione riprende da capo: dopo la ripetizione in forma abbreviata dei due gruppi tematici, il trombone solo diviene protagonista di una lunga sezione basata sul tema principale dell’Introduzione, che riconduce nuovamente al punto prima segnato dalla pausa generale. “”Wie aus weiter Ferne””, “”come da molto lontano”” e piano, un ritmo marziale degli archi impone la marcia vera e propria, che ora passa dallo sfondo in primo piano su ulteriori varianti tematiche e in un progressivo crescendo di intensità sonora; fino al punto di massima tensione, che coincide con il culmine del parossismo, in cui tutta la musica della marcia va letteralmente in pezzi, chiudendo formalmente l’esposizione.

 

La seconda metà della Sinfonia differisce considerevolmente dal terribile spasmo del primo movimento. In un paesaggio meno esacerbato risuonano motivi melodici e ritmici arcaici, che ricordano le canzoni popolari imparate nell’infanzia, e mai dismesse dal cuore. Il secondo movimento è un Minuetto per modo di dire: esso si inscrive piuttosto nella cornice fra bizzarra c rococò dei Blumenstücke, con non poche affinità con i quadri d’argomento floreale. Il motivo iniziale dell’oboe, che par provenire direttamente dalla campagna austriaca, si presenta successivamente sotto diverse varianti, alternandosi con la sezione contrastante del Trio. Caratteristici di questo movimento, distensivo nonostante la notevole elaborazione contrappuntistica, sono il continuo mutamento metrico in connessione con i frequenti passaggi dal modo maggiore al minore, e un senso timbrico tanto rarefatto quanto ade-guato a intimità cameristiche.

Lo Scherzo che segue non è in partenza altro che la trasformazione sinfonica di uno dei Lieder giovanili tratti dalla raccolta Des Knaben Wunderhorn, cioè di Ablösung in Sommer (Cambio della guardia in estate), composto da Mahler al principio del 1880. Vi si narra, alla maniera tipicamente feroce di questa famosa antologia di poesie popolari, della morte del cucù, causa di un gravissimo problema di successione nella gerarchia degli animali del bosco: chi canterà al suo posto durante l’estate? Del tutto inopinatamente, e dopo molte discussioni, viene eletto certamente il meno adatto: nientemeno che l’usignolo. In questa adesione sentimentale ai giochi degli animali del bosco intesi come lo stato di natura originario Mahler si appropria con la sua musica, ironia a parte, di effetti che ricevono una veste di originalità proprio per il fatto di essere in realtà citazioni di materiale non originale: il verso del cucù, il gorgheggio dell’usignolo, il raglio dell’asino. Di qui all’invenzione veramente originale il passo è breve: come accade nel Trio dello Scherzo, preceduto da una

transizione ricca di attese nella fanfara della tromba con sordina e sostenuto magicamente dall””`a solo”” della cornetta del postiglione, strumento di larga tradizione popolare e in uso soprattutto nelle bande di paese. Nella stessa prescrizione che esso suoni da dietro il palcoscenico “”con libertà e alla maniera di un postiglione””, si fa evidente ciò che Mahler vuole evocare: un richiamo, un annuncio misterioso che giunga da un altro mondo, da un’altra dimensione. L’episodio della cornetta del postiglione, in assoluto il momento più emozionante e inafferrabile della Sinfonia, dà origine a una serie di interludi come sospesi sul vuoto, nei quali gli strumenti dell’orchestra dialogano in forma concertante, prima di riconsegnare l’appello alla solitudine e al silenzio. Improvvisamente l’orizzonte si oscura: la citazione da parte di due trombe con sordina della fmfara con cui culmina la scena del carcere del Fidelio di Beethoven, anziché suggellare una pacificazione, introduce di colpo in un paesaggio più drammatico, che segna il passaggio dalla beata e scherzosa innocenza del mondo animale alla tragica sofferenza umana, con la melodia del postiglione che ritorna ora come un miraggio lontano, eco di un ricordo irreale.

Nel quarto movimento (Molto lento) il contralto solista intona, su un accompagnamento di violoncelli e contrabbassi ripreso dal primo movimento, le parole del Canto della mezzanotte da Così parlò Zarathustra di Nietzsche.

Lo sfondo che avvolge questo canto “”con espressione piena di mistero””, come indica la didascalia, è l’esatto corrispettivo musicale delle profondità evocate dal testo: il lungo pedale con la quinta vuota nei bassi che sospende e rende statica l’armonia dall’inizio alla fine; gli armonici degli archi e delle arpe con funzione non soltanto timbrica ma anche ipnotica; la ricorrenza ossessiva dell’intervallo discendente di seconda nella variante maggiore-minore; i “”Naturlaute”” in cui i suoni della natura si esprimono in prima persona, qui affidati all’oboe. La melodia interiorizzata del Canto della mezzanotte crea un ponte psicologico verso il quinto movimento, il “”canto degli angeli”” nuovamente tolto dalla raccolta del Wunderhorn, già proiettato verso il materiale compositivo della Quarta Sinfonia e in particolare verso quel Finale (il Lied “”Noi godiamo le gioie celesti””) che originariamente doveva figurare come conclusione della Terza. Il cambiamento di atmosfera è        

reso in partitura dall’impiego delle campane e del coro di bambini che ne imitano i rintocchi con regolari sillabe onomatopeiche (Bimm-Bamm): quasi a valorizzare gli effetti della spazialità sonora Mahler prescrive la loro collocazione in alto, mentre il coro femminile che intona col contralto solista le strofe del Lied Es sungen drei Engel è posto più in basso vicino all’orchestra. Motivi semplici e armonie depurate arieggiano il tono arcaico della ballata popolare; la grazia semplice e la purezza angelica della prima sezione si mutano in canto disteso con l’intervento solistico del contralto, per concludersi, dopo la ripresa della strofa corale, in una coda nella quale le voci femminili si congiungono ai bambini nella luminosa imitazione delle “”campane del mattino””, segnale dell’aurora dopo il sonno della profonda notte.           

Con un crescendo emotivo di grande intensità, cui corrisponde un itinerario formale non meno denso, l’Adagio finale in forma di Rondò torna ad indossare la veste strumentale, ma non perde l’anelito al canto. Il tema è esplicitamente desunto dal Lento assai del Quartetto op. 135 di Beethoven, e idealmente quartettistica, nella polifonia degli archi, è la scrittura che ne governa lo svolgimento. Articolato come una serie di variazioni su questo tema tanto semplice strutturalmente quanto carico di reminiscenze e di presagi, l’Adagio si snoda in una visione panica dell’impeto cosmico che sostanziava il primo movimento, a cui si ricollega con chiare relazioni tematiche. In un processo dilatato a dismisura e non privo di aspre incrinature drammatiche, la Sinfonia sembra ripercorrere da capo il suo periplo, per attestarsi da ultimo su un pedale di re maggiore che la stessa conclusione di fatto scandisce e rimanda, additando oltre il frastuono del mondo una speranza silenziosa, insieme tangibile e irraggiungibile.

 

Giuseppe Sinopoli / Waltraud Meler, Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Coro di Voci Bianche dell’Arcum
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Gestione autonoma dei concerti – Stagione sinfonica 1994-95

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