Oggi, a centocinquant’anni esatti dalla nascita, si apre a Bergen in Norvegia il Festival dedicato a Edvard Grieg dalla sua città natale. Una mostra allestita nella casa di Troldhaugen (la «Collina degli gnomi») sul lago di Nordasvatnet vicino a Bergen, dove Grieg visse gran parte dei suoi ultimi anni e dove volle essere sepolto (morì nel 1907, e la sua tomba è scolpita nella collina) accompagnerà una serie di concerti che testimoniano l’opera del compositore. Ingmar Bergman col Teatro di Stoccolma vi porterà la sua edizione del Peer Gynt di Ibsen, dramma a cui appartengono le musiche di scena che Grieg scrisse per la prima rappresentazione del 1876 e che sono ancora oggi fra le sue pagine piú eseguite e famose.
Quella di Grieg è una produzione non vastissima né impegnata nei grandi generi favoriti dai compositori del secondo Ottocento, come la Sinfonia e l’Opera, ma estremamente rappresentativa di una personalità che s’impose assai presto in campo internazionale per il suo carattere e la sua sensibilità. Per quanto possa essere annoverato tra i compositori nazionali, massimo rappresentante di una scuola scandinava peraltro di problematica identità, Grieg ebbe una formazione musicale fondamentalmente europea e segnatamente tedesca (tutto ciò che aveva imparato di musica, era solito dire, lo doveva al periodo in cui aveva studiato a Lipsia, prima con Reinecke e Wenzel, poi con Moscheles), e l’accrebbe instancabilmente con l’attività di pianista e direttore d’orchestra, venendo in contatto con molte delle principali figure del suo tempo: da Liszt, che lo incoraggiò e sostenne raccomandandolo al potente editore Peters, a Brahms, con cui s’incontrò a Vienna scambiando musiche e ricevendo lodi.
Grieg non divenne però mai un compositore cosmopolita, un seguace delle correnti tumultuanti nel gran fiume del suo secolo. Le considerò tutte, questo sì, ma le attraversò incurante delle influenze che avrebbero potuto avere su di lui. Fu per esempio a Bayreuth per la prima rappresentazione integrale della Tetralogia di Wagner, e ne scrisse con ammirazione sul giornale della sua città, ma come se si trattasse di un avvenimento lontano, quasi irreale. Quella reinvenzione dei miti della sua terra, a cui Wagner si era ispirato, lo la-sciava freddo, forse perché di essi conosceva da sempre la realtà viva, e ne era interamente permeato. Ci sono compositori che hanno vagheggiato un mondo di sogno con i contorni della realtà ideale, e compositori che hanno rappresentato non l’immaginario ma la realtà stessa dell’esperienza diretta: Grieg apparteneva per inclinazione e cultura a questa seconda schiera.
Benché la sua appropriazione delle melodie popolari e del patrimonio etnico della sua terra si inquadrasse in una cornice eminentemente romantica e fosse lontanissima dallo studio del folclore come base di un nuovo linguaggio della modernità, ossia da ogni prospettiva novecentesca, nelle sue creazioni Grieg rimase solidamente ancorato a una visione di pronta immediatezza espressiva, di carattere insieme descrittivo ed evocativo. Ma è una evocazione, la sua, che parte dalla realtà e a questa ritorna dopo averla tradotta in suoni; o meglio averne fatto un momento di identificazione di sé: per lo piú sotto specie lirica. Dove il termine significa anzitutto rivelazione di uno stato d’animo, conseguenza di una attitudine tesa a suggerire un sentimento piú che a sviluppare una idea. I temi di Grieg si esauriscono in se stessi, sono alla stesso tempo immagine e forma: possono variare a seconda della disposizione d’animo del momento, ma non prestarsi a sostenere uno sviluppo di ampie dimensioni nel grande arco formale.
Il raccoglimento nell’intimità è il connotato espressivo fondamentale di un musicista che pure conosceva gli ampi spazi della natura silenziosa e sognante, gli orizzonti sterminati del mare solcato dai fiordi, la dolcezza infinita delle aurore e dei crepuscoli, la luce splendida della notte e le ombre ambigue del giorno, lassú. Il salotto domestico affacciato sull’ignoto dell’immensità, l’interno borghese provvisto di pianoforte e di voci amiche, disposte a intonare la freschezza e la magia della poesia, divengono i luoghi di un piccolo mondo rassicurante, un promontorio di certezze e di ordine di fronte al terrore e alla confusione. Ed è di lì che sgorgano i capolavori di Grieg, le raccolte pianistiche dei Pezzi lirici e quelle altrettanto copiose delle melodie per canto e pianoforte teneramente innestate sulla lingua senza storia dei poeti nordici, e tuttavia capaci di circoscrivere un paesaggio dell’anima, fiorito di felicità e di tristezza. Quando Grieg prova a evadere dai suoi confini, la perfezione del linguaggio si attenua, l’equilibrio si confonde e la definizione formale si fa piú intermittente; se ancora basta a contenerla l’ambito della musica strumentale da camera, già nelle dimensioni dell’ambiziosamente acceso Concerto in la minore per pianoforte e orchestra la strada si fa piú tortuosa, e ritrovare il cammino verso casa appare piú faticoso: come se l’avventura nel grande mondo, osservato durante i viaggi frequenti e le numerose tournée con intelligente penetrazione e attenzione, portasse con sé un turbamento sovrannaturale, nel quale all’improvviso, come per un destino ineludibile, si apre il baratro.
A noi, abituati a considerare la cultura scandinava come un’esemplare denuncia di angosce e crudeltà, quello di Grieg potrà sembrare davvero un piccolo mondo. Eppure la sua forza sta nell’aver saputo sentire e creare senza interrogarsi sul nocciolo della cipolla, come il sognatore Peer, e riuscendo invece a esprimere verità in immagini vivide: gaie, fiabesche, giocose, rarefatte e malinconiche, semplicemente, serenamente umane.
da “”Il Giornale””