Goffredo Petrassi – Concerto n. 6 (“Invenzione concertata”)
Composto in Roma fra l’ottobre 1956 e il marzo 1957 su commissione della B.B.C., a celebrazione del decimo anniversario del Terzo Programma, ed eseguito per la prima volta alla Albert Hall di Londra il 9 settembre 1957, il Sesto Concerto racchiude e porta ad alto grado di maturazione le esperienze fatte da Petrassi a partire dal « Secondo Concerto » del 1951, anno in cui, dopo una lunga parentesi occupata principalmente dall’interesse per la musica vocale, egli ritornò a dedicarsi, e questa volta stabilmente, a quella strumentale. Qui la stessa scelta dell’organico strumentale si pone come una tappa importante nell’evoluzione stilistica di Petrassi, caratterizzata in tutto il suo arco oggi non ancora concluso dalla luce di una fantasia vigile nella ricerca di nuove figure timbriche e di strutture sottilmente percosse da un sapiente giuoco di contrasti.
Anche la vecchia e cara associazione ottoni-percussione, che ritorna in quest’opera ma con la fondamentale aggiunta degli archi, testimonia del cammino compiuto verso esiti profondamente diversi rispetto a quelli del capolavoro della prima maturità, il madrigale drammatico « Coro di morti» (1940-41); nel « Sesto Concerto » essa si risolve infatti in una serie di configurazioni timbriche assolutamente originali, immesse in una rigorosa architettura a sezioni contrappuntisticamente assai elaborate: qui sembra essere la radice di quella predilezione che si farà sempre piú cosciente per la essenzialità e la concentrazione e che, passando attraverso l’esperienza della musica da camera, si incarnerà nella plasticità quasi epigrammatica della « Musica di ottoni » per ottoni e timpani (1963). Gli strumenti sono distribuiti in tre gruppi distinti: archi (classico quartetto d’archi piú i contrabbassi), ottoni (quattro corni, tre trombe e due tromboni) e una vasta sezione di percussione affidata a quattro esecutori, che comprende, oltre a tamburo con corde, casse, piatti e triangolo, strumenti piú insoliti quali tam-tam piccolo e grande, gong cinese e Maracas grandi. Nonostante che il titolo originale privilegi la dizione di « Invenzione concertata », l’opera è organizzata come un vero concerto in tre movimenti, susseguentisi senza soluzione di continuità e collegati da frequenti ritorni o vere e proprie «transizioni », come il recitativo dei primi violini (« libero, con fantasia ») che introduce il terzo movimento. Ma proprio questo aver posto l’accento sul termine « Invenzione » da una parte (quasi la memoria di una forma legata alla libertà stessa del linguaggio musicale, e di cui fra l’altro Petrassi si era già servito in una importante opera per pianoforte del 1944), e sull’aggettivo « concertata » dall’altra (concertata, non concertante, quasi a voler significare il superamento della poetica del dialogo con funzioni emergenti e solistiche fra i protagonisti dell’orchestra pur cosí cara all’estro di Petrassi), definisce meglio il carattere dell’opera, legata a una varia di umori ma rigorosa pianificazione delle parti e degli sviluppi.
Le influenze della « scuola viennese », e di Schönberg in particolare, che trovavano già sia pur a un differente livello una acquisizione nel « Quinto Concerto » per archi soli (1954), si concretizzano ora nella esplicita assunzione da parte di Petrassi della tecnica dodecafonica. Ma, a differenza di Dallapiccola dove essa è non soltanto la logica che informa di sé l’intera concezione musicale dell’opera ma anche il rispecchiamento di uno stato d’animo, in Petrassi tale assunzione avviene in maniera non problematica, con le licenze che detta il libero evolversi delle idee e dei rapporti strumentali senza alcuno schema formale prefissato, ma solo contemplando che a seconda delle necessità espressive dei singoli episodi il compositore racchiuda ín unità il continuo giuoco di contrapposizioni e di sbalzi, con procedimenti ora intenzionalmente semplici ora complessi. In questo contesto non stupisce che si possano trovare agglomerati sonori simili a figure tematiche (l’ansia verso l’individualizzazione tipica dell’umanesimo petrassiano) , nel senso, come ha scritto Bortolotto, di « linee, in sé alquanto neutre ed indifferenti, che costituiscono il materiale originario da cui deriveranno fin le più piccole strutture musicali ».
Coerentemente con quello che è il punto di vista di Petrassi, la stessa tecnica dodecafonica è come filtrata e quasi vista in filigrana attraverso i connotati stilistici di altri linguaggi storici, le cui categorie entrano a far parte della composizione: l’impressionismo di Debussy, sia nel modo di legare significativamente fra loro brevi episodi o figure elementari, sia nella ricerca timbrica di sonorità ora estatiche ora immateriali ora fonicamente accostate con violenza; il neoclassicismo di Stravinsky, soprattutto nella ritmica — basti l’esempio degli ostinati — e nella metrica, ma anche in certe simmetrie fraseologiche e astrazioni di proporzioni, dove è lecito indicare alcune delle costanti piú ricorrenti dello stile di Petrassi.
L’opera, della durata di minuti quattordici circa, è come si è detto scandita in tre parti: « Mosso inquieto – Adagio – Energico » (prima parte), Adagio sostenuto » (ampia sezione centrale), da cui scaturisce il finale, il piú vario e libero, in tempo piú mosso, da Petrassi indicato in modo emblematico con la sola indicazione di «liberamente».
Pier Luigi Urbini / Stephen Bishop-Kovacevich
Ente autonomo del Teatro Comunale di Firenze, Stagione Sinfonica di Primavera 1977