Il Quartetto per archi, un unicum nella produzione di Petrassi, fu composto a Roma nel 1958 e dedicato a Guido Turchi. La prima esecuzione avvenne a Venezia il 27 settembre di quell’anno nell’ambito dei concerti del Festival Internazionale di Musica Contemporanea, ad opera del Quartetto Parrenin. La composizione è costituita da un unico lungo movimento articolato in cinque parti, ognuna delle quali presenta una diversa indicazione agogica: rispettivamente “”allegretto comodo, un poco allegretto, presto, vigoroso, adagio””. Questa suddivisione non comporta però cesure tali da essere nettamente percepibili all’ascolto; anzi accuratamente le evita con la sovrapposizione di figure metriche e ritmiche che conferiscono al processo musicale una continuità che, come spesso accade in Petrassi, non è altro che il risultato della connessione di sezioni e idee compositive liberamente svolte, in modo quasi autonomo. Più che di sviluppo, quindi, si può parlare di saldatura di episodi che si snodano e confluiscono l’uno nell’altro in un arco tenuto insieme da una dinamica nello stesso tempo coesa ed energica: successione di idee che nella loro diversità svelano alla fine una parentela.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare il ricorso alla forma del Quartetto non significa affatto un omaggio alla tradizione, neppure in quel senso pienamente novecentesco in cui lo erano per esempio i Quartetti di Bartòk, assai ammirati da Petrassi. Il termine “”Quartetto”” non vale qui come genere con tutte le sue implicazioni storiche ma semplicemente come organico, come ipotesi formale: in quanto omogeneo e fondamentalmente monocromatico (quattro archi soli), tendente a una purezza architettonica di nudi contrappunti e di figure lineari. Era esattamente l’opposto di quanto Petrassi era solito ricercare, ossia dell’invenzione concertante, della contrapposizione violenta di blocchi sonori, dell’estro coloristico caratteristici del suo stile strumentale. Organico e ipotesi formale avevano però una ragione: sperimentare ex novo e di conseguenza mutare un modo di concepire la musica, di adoperare e maneggiare il materiale musicale, di comporlo, e perfino di stenderlo. È Petrassi stesso a confermare questa ipotesi e a fornire indicazioni preziose sulla collocazione del Quartetto: «Il Quartetto presenta delle curiosità: comincia in un modo abbastanza tradizionale e poi piano piano lascia i modi tradizionali per avventurarsi verso altre regioni. Di lì è cominciato questo mio senso di liberazione e parallelamente si è sviluppata in me la coscienza di poter procedere verso quei luoghi che prima mi inibivo pensando: “”Hic sunt leones””. Dicevo fra me e me: “”Voglio andare in quei luoghi dove stanno i leoni, voglio vedere se i leoni mi sbraneranno, se sarò loro vittima oppure se riuscirò a domarli e a convivere con loro””. Questo è stato il mio iter e il Quartetto è stato su quella via il mio primo tentativo» (in Petrassi, a cura di Enzo Rostagno, EDT, 1986).
Dove stavano, chi erano i leoni? Non basta identificarli coi radicali assetati di sangue della Nuova Musica raccolti nella fossa di Darmstadt, né circoscrivere alla serialità dodecafonica, o al suo contrario, l’appello all’assoluta liberazione dell’alea, il nodo del problema, verso il quale Petrassi sentiva inconsciamente un misto di attrazione e di repulsione. La risposta più completa a questa domanda la offre proprio il Quartetto, nel quale per così dire si fanno personaggi reali i motivi stessi di questo conflitto: secondo una progressione, dall’autore stesso indicata, da modi tradizionali a regioni inesplorate, dove essi sembrano muoversi, dopo essersi qualificati tematicamente in rapporto alla serie, come eccitati protagonisti (la frenesia motoria del Presto) o pallidi fantasmi (la desolazione dell’Adagio conclusivo). Nell’alternanza continua di aggregazione e disgregazione, di linee e punti, di geometrie e ritmi, di pieni e vuoti, di figure tematiche e di schegge intervallari i cui riflessi sbiadiscono la trama dei collegamenti, tra euforia e depressione, si consuma una battaglia senza spargimento di sangue, architettata con sapiente eleganza e completa familiarità: tale da rendere perfino il nemico una presenza necessaria, consequenziale e utile, e da ultimo radiosa la liberazione.
Quartetto per archi
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Gestione autonoma dei concerti – Stagione di musica da camera 1993-94