Falstaff, o della giovinezza ritrovata.
Va’, vecchio John, va’, va’ per la tua via.
Questa tua vecchia carne ancora spreme
qualche dolcezza a te.
Tutte le donne ammutinate insieme
si dannano per me!
Buon corpo di Sir John, ch’io nutro e sazio,
va’, ti ringrazio.
(Falstaff, II, 1)
Il 26 novembre 1890 sul Corriere della Sera apparve un breve trafiletto che non mancò di suscitare sorpresa, interesse e curiosità: Verdi stava lavorando a un’opera buffa “”nella più estesa significazione della parola. Ma quando sarà pronta questo non lo sa nessuno, nemmeno Verdi, perché impegni non ne ha preso con persona al mondo…””. Pochi giorni dopo, con l’autorevolezza dell’editore direttamente interessato, Giulio Ricordi svelava sulla Gazzetta Musicale di Milano di cui era proprietario il titolo della nuova opera, precisamente Falstaff, e insieme i retroscena dell’assidua collaborazione tra Verdi e il librettista Arrigo Boito, aggiungendo: “”Non sappiamo quando Verdi si deciderà a far rappresentare l’opera, perché il maestro ripetutamente dichiarò di aver iniziato il lavoro per semplice suo divertimento, non sapendo quando e se lo finirà…””. La precisazione di Giulio Ricordi rendeva di pubblico dominio quanto, poche sere prima, avevano appreso gli invitati a una cena in casa sua: al momento del brindisi, Arrigo Boito, invece di rivolgersi all’insigne commensale Giuseppe Verdi, aveva invitato a bere in onore del “”pancione””; e il padron di casa si era affrettato, dinanzi alla sorpresa degli ospiti, a chiarire come l’ignoto “”pancione”” altri non fosse se non il protagonista della nuova opera di Verdi, appunto sir John Falstaff.
Dopo l’Otello, che nel 1887 aveva interrotto il lunghissimo silenzio di oltre tre lustri seguito all’Aida, si riteneva che Verdi, allora settantaquattrenne, non avrebbe più ripreso la penna in mano, anche se voci non precisate né documentate parlavano in termini vaghi di progetti di un’opera comica, quasi una tarda rivincita per il fiasco giovanile incontrato, mezzo secolo prima, da Un giorno di regno. Quale fosse il libretto – o meglio l’argomento – per la ventilata opera buffa di cui Verdi dichiarava di aver cercato per vent’anni il soggetto, non era dunque dato sapere. Correva l’estate del 1879 quando, con la mediazione accorta di Giulio Ricordi, si erano riallacciati i rapporti tra Verdi e Boito in vista dell’Otello. Ma circa il venturo Falstaff dovrà passare ancora un decennio prima che Boito, dopo il successo di Otello e del precedente rifacimento comune dell’81 del Simon Boccanegra, sottoponesse all’attenzione di Verdi un abbozzo di opera comica, tratta dallo Shakespeare delle Allegre Comari di Windsor e da numerosi passi dell’Enrico IV riguardanti il personaggio di Falstaff. Con una lettera del 10 luglio 1889 Verdi si dichiarava d’accordo: “”Amen, e così sia. Facciamo addunque Falstaff. Non pensiamo per il momento agli ostacoli, all’età, alle malattie! Desidero anch’io di conservare il più profondo segreto: parola che sottolineo anch’io tre volte per dirvi che nessuno deve saperne nulla!””. Il segreto fu infranto, come si è visto, dal citato annunzio del Corriere della Sera, subito avallato e integrato dall’editore Ricordi: grande fu la sorpresa e l’attesa nel pubblico, tanto più che Verdi stesso aveva dichiarato coram populo di “”aver bruciato con Otello le sue ultime cartucce””.
La composizione procedette in maniera lenta, metodica, attentissima, in uno spirito di distensione. Bastarono poche spiegazioni, fra compositore e poeta, a chiarire l’essenziale del lavoro; e la guida stavolta fu più del secondo che del primo. Non risulta che il compositore, nel ricevere via via il libretto dal poeta, gliene chiedesse modifiche importanti. Nell’autunno dell’89 Verdi aveva già in mano il testo dei primi due atti e il 17 marzo successivo aveva compiuto la composizione del primo, praticamente musicato così com’era: nel frattempo, una decina di giorni avanti, aveva ricevuto il testo del terzo. Poi la composizione rallentò alquanto, e in modo continuativo riprese soltanto nell’ottobre, quando Verdi decise d’interrompere quella del secondo atto e affrontare invece il terzo, che fu steso rapidamente. Il 30 novembre 1890 scriveva al suo biografo Gino Monadi: “”Boito mi ha fatto una commedia lirica che non somiglia a nessun’altra. Io mi diverto a fare la musica, senza progetti di sorta e non so nemmeno se finirò […] Ripeto che mi diverto””. Dopo una nuova interruzione di vari mesi seguita al Natale, anche il second’atto fu portato a termine. Nel settembre 1891 Verdi, ultimata la composizione, era intento a lavorare all’orchestrazione. Il “”semplice divertimento”” non si rivelò sempre tale: “”L’istrumentare questa mia opera”” – confessò nel corso del lavoro – “”è adesso per me un pensiero e una fatica ad un tempo: pensiero per l’importanza dello strumentale nell’opera lirica e per il significato che io intendo dargli””. Di trattative per la rappresentazione non si parlava ancora. Celiando ma non troppo, Verdi aveva confidato al suo editore Giulio Ricordi il 9 giugno 1891: “”Scrivendo il Falstaff non ho pensato né a teatri, né a cantanti. Ho scritto per piacer mio e per conto mio, e credo che invece della Scala bisognerebbe rappresentarlo a Sant’Agata [la villa dove Verdi abitava] “”.
Finalmente la Scala poté annunciarne la presentazione per la stagione 1892-93. Le cure e i preparativi furono eccezionali, e Verdi fu accontentato in tutto: ebbe a disposizione come maestro concertatore e direttore d’orchestra Edoardo Mascheroni, uomo di sua fiducia, recentemente nominato direttore stabile della Scala; come scenografo e costumista un numero uno del teatro lirico italiano d’allora, Adolfo Hohenstein; ebbe i cantanti che volle (protagonista il francese Victor Maurel, già primo Jago nell’Otello), e le prove che volle; nonché la supervisione del tutto, che esercitò attivamente con funzioni quasi di regista assistendo alle prove dal 4 gennaio in poi. La “”prima”” ebbe luogo nella storica serata del 9 febbraio 1893. L’esito fu trionfale: alla fine del primo quadro due chiamate agli interpreti e ripetute grida di Verdi, Verdi! Applausi a scena aperta, richieste accordate di bis nel secondo quadro (al quartetto delle comari), ovazioni al termine dell’atto, quando l’autore si presentò al proscenio tra l’entusiasmo generale; che divenne nel secondo atto e alla fine dell’opera, in un crescendo di intensità, vero e proprio delirio. Verdi dovette uscire a ringraziare sette od otto volte, con gli artisti soli; poi col maestro Mascheroni e con Boito; poi con tutti: poi ancora col solo Boito, e finalmente da solo. E tutti in piedi ad agitare i fazzoletti, tutti commossi, tutti entusiasti. Le acclamazioni si ripeterono in tutte le successive repliche, che ammontarono a ventuno, e proseguirono quando Falstaff nella stessa distribuzione passò il 15 aprile al Teatro Costanzi di Roma, per sei recite.
E’ lecito ritenere che questo trionfo totale, unanime e incondizionato, fosse decretato alla fama indiscussa dell’autore ottantenne più che in specifico alla sua ultima opera: nel senso che Falstaff primo esempio di commedia musicale (“”lirica””, si legge nel frontespizio) veramente moderna, non aveva di per sé i requisiti per andare direttamente incontro ai gusti del pubblico in generale. Certo, la sua novità e la sua intelligenza furono recepite da una élite di conoscitori e di critici avveduti, che fecero da traino; ma se non si fosse trattato di tributare a Verdi l’omaggio di un’ammirazione devota, come per l’avvento di un’impresa soprannaturale, l’accoglienza sarebbe stata probabilmente diversa. Che cosa aveva a che fare con la consuetudine quell’opera nella quale le “”forme chiuse”” erano abolite, le romanze ridotte all’osso, il libretto così screziato in filigrana di preziosismi linguistici, l’orchestrazione così fine e complessa da fare aggio su tutto il resto, l’ironia così sottile da muovere al sorriso più che alla risata sgangherata? E poi, quel finale inatteso con una fuga mirabolante, quel lieto fine che lascia l’amaro in bocca e predica all’universo mondo che “”Tutto nel mondo è burla””: quale significato, di congedo o di superiore distacco, riassumeva? Esso è il suggello e l’apoteosi fantastica di una partitura che corre dall’inizio alla fine a folle andatura, retta però da un magistrale controllo stilistico e inframmezzata da oasi sospensive vuoi di carattere comico-patetico (i grandi monologhi del protagonista nel primo e terzo atto) vuoi di natura lirica (il tenero idillio degli incontri tra Fenton e Nannetta inserito nella vicenda principale come un ricamo). Perno centrale della trama è però sir John Falstaff, personaggio al quale Boito in primo luogo, assecondato dall’intuizione musicale di Verdi, restituì una dignità ignota alle fonti del grande bardo (dove egli è soltanto un maturo, simpatico furfante beffato dall’intraprendenza delle allegre comari), elevandolo a prototipo dell’arguzia. Un’arguzia senile, ma illuminata dal mite raggio di una vagheggiata, eterna giovinezza. Elementi di novità emergono già nell’impianto della commedia, concepita nel segno di una continuità ininterrotta ma costruita per così dire a pannelli contrapposti. Ognuno dei tre atti è suddiviso in due quadri, quasi a configurare l’intreccio di un principio ternario, ciclico, con uno binario, lineare. Nel primo, terzo e quinto quadro il luogo dell’azione è l’osteria della Giarrettiera, specie di antro che rappresenta tutto il mondo di Falstaff, di cui egli, nei suoi sogni di impenitente gaudente, è signore e padrone: lì egli si bea del proprio pancione e disquisisce sull’onore (“”L’onore! Ladri!””), ordisce le sue trame amorose rivolte alle due belle dame Alice Ford e Meg Page, inneggia alle sue doti di seduttore (“”Va’, vecchio John, va’, va’ per la tua via””), si vanta in anticipo delle sue conquiste di fronte a un esterrefatto Ford (“”Voi la moglie di Ford possederete””), si ritempra bevendo un buon bicchiere di vin caldo dopo la disavventura del tuffo nel Tamigi (“”Mondo ladro, mondo rubaldo / Reo mondo””), pronto tuttavia a ringalluzzirsi davanti alla prospettiva di un nuovo invito galante. Giganteggia, Falstaff, in queste scene. I problemi per lui nascono quando si allontana da questa placenta protettiva, esponendosi all’altrove: in altri termini, quando passa dal sogno alla realtà. Il secondo e il quarto quadro si svolgono nella casa di Ford e ne sono protagoniste le donne: la padrona di casa Alice Ford, sua figlia Nannetta, innamorata del giovane Fenton ma promessa al vecchio dottor Cajus, Meg, moglie di Page, e Mrs. Quickly, una signora più attempata delle altre
ma altrettanto allegra e spiritosa. Assistiamo dapprima alla lettura delle lettere amorose inviate da Falstaff e all’architettura di un piano per attirarlo in una trappola; poi alla burla organizzata ai suoi danni, alla quale danno involontariamente man forte gli uomini guidati da Ford, furibondo di gelosia: Falstaff, rinchiuso nella cesta del bucato, verrà rovesciato con i panni nelle acque del Tamigi. La beffa si ripete, enormemente amplificata ma in un certo senso mutata di segno, nel sesto e ultimo quadro, ambientato in un luogo incantato, il parco di Windsor, dove la leggenda vuole che si diano appuntamento le fate e gli spiriti della foresta. I travestimenti danno a questa scena un carattere surreale, di réverie romantica: ed è come se di colpo si squadernasse davanti a noi un luogo immaginario di fantasia e di sogno. Falstaff viene punito per le sue colpe, il duplice inganno perpetrato a buon fine dalle donne raggiunge i suoi scopi, e tutto sembra dirci che si è trattato di un gioco favorito dalla magia del teatro, quello a cui abbiamo assistito. Sembra. Giacché mentre trionfano l’amore e l’onore una nota amara di tristezza si insinua nell’apoteosi finale. Il trionfo delle donne è la sconfitta degli uomini. Ma né per le une né per gli altri vi è salvezza: “”Tutto nel mondo è burla””. C’è in questa perentoria affermazione una verità che va oltre il gioco del teatro, la morale da commedia: una verità quasi metafisica, che oscura e riempie di rimpianto tutto il destino degli esseri viventi. Sembra di ravvisare in essa il rimpianto di Verdi che sa che il gioco è finito, e di esso non restano in mano che vani frammenti, impossibili utopie. Il mondo verniciato di commedia si ribalta in una improvvisa illuminazione in tragedia senza catarsi, il cui ordine si rimette alla serrata, severa, antica forma di una fuga per le ultime note del Falstaff l’ultima parola teatrale di Verdi.
Rimettendosi in discussione e rinunciando almeno in parte, anche sull’abbrivio dello svettante virtuosismo dei versi e delle rime di Boito, evidentemente concepiti in funzione di strutture musicali, ad alcune sue certezze (la “”parola scenica””, la “”tinta””, i culmini drammatici), Verdi puntò su una scrittura orchestrale più sciolta e mobile, aliena da procedimenti stereotipati, più continua, conseguenza del superamento di recitativi e arie, animata da un impulso ritmico incalzante e da un senso armonico più vario e sensibile al particolare. Veri e propri motti sorgono da un flessibile declamato vocale e vengono offerti all’orchestra per essere da questa riplasmati. Le venature liriche si aprono la strada attraverso discrete allusioni portate dalla poesia ed esaltate di continuo nella musica. In questo gioco di dare e avere tra poesia e musica il Falstaff disegna una parabola preziosa che sembra recare le impronte di un aulico classicismo. Già il primo quadro introduce un’aria nuova nelle convenzioni dell’opera, che non lambisce i confini né dell’opera buffa propriamente detta né del dramma musicale moderno: è commedia, felicissimo esempio di commedia musicale radicata su costrutti formali classici. Nella cornice sfavillante di un luminoso Do maggiore serpeggia un motivo discendente, suonato dall’orchestra con frenetica leggerezza.
Su questo flusso s’innesta un tema contrastante in Mi maggiore, poi le due sezioni si alternano come in un Allegro di Sonata sino all’uscita di Cajus, sigillata dall’Amen caricaturale dei due servi Bardolfo e Pistola. Vengono profusi a piene mani già in questo inizio segnali musicali allegorici e ammiccanti al tempo stesso: la vitalistica esaltazione dell’addome del protagonista viene dopo che l’orchestra ha disegnato, mediante un vuoto nel registro centrale, la magrezza da lui aborrita. Segue il monologo dell’onore, dove il declamato di Falstaff suggerisce agli strumenti un caleidoscopico giro l’immagini. L’ambientazione è fissata, l’atmosfera definita e insieme aperta a nuovi sviluppi. Sicché non stride il brusco passaggio al secondo quadro, dominato dalla sapida arguzia delle allegre comari, quasi tratteggiata dall’orchestra ancor prima che si manifesti sulla scena. Essa trova la sua celebrazione nella lettura delle lettere di seduzione – identiche fuorché nel nome delle destinatarie – che Falstaff ha fatto loro recapitare, grandiosamente conclusa da una frase di parodia, sarcasticamente appassionata, di Alice (“”Ma il viso tuo su me risplenderà””) che tornerà a piena orchestra a concludere, con ironia al quadrato, l’atto. Vertice di virtuosismo contrappuntistico è poi il concertato nel quale ai versi ottonari degli uomini si contrappongono quelli in senari delle donne. Verdi li contrappone per far udire le opposte ragioni – sapientemente rappresentate ancora una volta dalla musica – dei due gruppi, trovando una sintesi nel tenero a parte che introduce l’idillio sullo sfondo della vicenda principale: gli amorosi Nannetta e Fenton colgono l’occasione per isolarsi e intonare estaticamente il loro motto “”Bocca baciata non perde ventura / Anzi rinnova come fa la luna””. Verdi connota immediatamente la presenza della giovane coppia con un tono non soltanto di simpatia ma anche di nostalgia per la giovinezza pervasa di purezza e ingenuità: i loro fremiti saranno l’unica isola di verità in un mondo che trama seduzioni e beffe come ultima spiaggia di una senilità incombente. Nella conclusiva ripresa del concertato Verdi ribadisce la forza di questo sentimento isolando l’ampia melodia lirica di Fenton. All’inizio dell’atto seguente assistiamo alla visita dell’attempata Mrs. Quickly in veste di messaggera della finta consenziente Alice: Falstaff, inorgoglito da tanta adulazione, cade come un pero nel tranello. Il fatto che noi, a differenza del protagonista, si sia al corrente della beffa ordita ai suoi danni conferisce a questa scena in sé esilarante un leggero tocco d’ambiguità, se non di fatuità: sia nel promettente invito, che fungerà poi quasi da motto ricorrente, a recarsi al convegno amoroso “”Dalle due alle tre””, sia nell’arioso “”Va’, vecchio John””, in cui Falstaff si compiace per il suo potere di seduzione. E quasi non ci accorgiamo che si tratta già di una marcia funebre. L’atmosfera cambia repentinamente con l’annuncio dell’arrivo di un certo signor Fontana, in realtà Ford travestito: costui è disposto a pagare a suon di monete squillanti (puntualmente dipinte dal tintinnio di tutta l’orchestra) se Falstaff saprà conquistare la donna ch’egli ha provato invano a corteggiare (nella finzione, la propria moglie), in modo da spianargli la strada, giacché “”da fallo nasce fallo”” (strepitoso doppio senso di Boito). Qui librettista e compositore intessono con nonchalance, a cominciare dall’ineffabile “”madrigale”” a due che culmina nella scherzosa allusione “”L’amor, l’amor che non ci dà mai tregue””, una girandola inesauribile di trovate (non solo metaforicamente: una vera girandola è l’immagine delle corna sparata dall’orchestra all’incredulo Ford), a metà strada tra farsa (il motivetto irriverente di Falstaff “”Te lo cornifico, netto, netto!””) e tragedia incombente. Tragedia che irrompe come un’ombra improvvisa nel successivo monologo di Ford rimasto solo, “” È sogno o realtà?””. Allucinazione, tormento, ira, insulto, vendetta: in poche pagine si susseguono sentimenti contrastanti, degni di un’aria da opera seria, in cui il personaggio di Ford si staglia a grandezza naturale sullo sfondo di un’orchestra che mima con divertimento i suoi pensieri inquieti: e ancora una volta torna lo spettro delle corna, evocato misteriosamente dai corni. Per tutto contrasto, una leggiadra marcetta accompagna il rientro in scena di Falstaff agghindato di tutto punto per il convegno galante e il quadro si conclude con una specie di danza buffa fatta di convenevoli e complimenti che mascherano stati d’animo diversi. Il quarto quadro si apre in un clima di euforia descritto concitatamente dall’orchestra. Fervono i preparativi per l’appuntamento e le donne si dispongono all’impresa con animo gaio: quando Alice intona “”Gaje comari di Windsor”” è come se quest’euforia si trasmettesse direttamente a noi e celebrasse una sorta di trionfo dell’animo femminile. L’arrivo del seduttore è annunciato da accordi di chitarra (sublime arcaismo che la dice lunga sulla galanteria vecchio stile di Falstaff) e sfocia nella rievocazione del tempo passato della gioventù in cui Falstaff era magro (“”Quand’ero paggio””). L’irruzione improvvisa della masnada di Ford accende un vero e proprio putiferio sul palcoscenico. La ricerca del seduttore è tanto frenetica quanto disordinata. Ogni luogo viene ispezionato con cura. Due elementi simbolici occupano il centro della scena, il paravento dietro cui dapprima si nasconde Falstaff e la cesta del bucato nel quale egli trova poi angusto e nient’affatto piacevole rifugio: le comiche invocazioni con le quali egli chiede di essere liberato dal tanfo dei panni sporchi appartengono alla più pura tradizione della farsa. Ma ecco come per incanto la farsa tramutarsi in tenero idillio, quando dietro al paravento si nascondono Nannetta e Fenton, quasi isolati dal mondo, per rubare quei pochi attimi di felicità. Sorpresi nel silenzio generale allo schioccar di un bacio che Ford crede di Falstaff, ribaltato il paravento, i due giovani vengono separati e redarguiti dagli uomini, mentre nel trambusto che segue le donne complici rovesciano dalla finestra il povero ostaggio con la cesta del bucato nel fossato sottostante. A questo punto per le comari è facile spiegare la burla agli uomini, e a tutti non resta che godere gli effetti della loro intraprendenza.
All’inizio del terzo atto troviamo Falstaff desolatamente solo, ancora tutto infradiciato, pensieroso e di pessimo umore. Il suo lungo monologo (“”Ehi! Taverniere! Mondo ladro. Mondo rubaldo. Reo mondo!””) è un pezzo di realistica descrizione di un personaggio antieroico, nel crepuscolo ora quasi grandioso, disposto a riaprirsi ai conforti materiali della vita in virtù di un buon bicchier di “”vin caldo”” e a ostentare nonostante tutto il suo ottimismo. Così rigenerato è già pronto per cadere in un ennesimo tranello, ordito questa volta da uomini e donne di concerto e teso da Quickly inviata nuovamente in veste di ambasciatrice: Alice, assai dispiaciuta per l’accaduto, gli manda a dire che lo aspetta quella notte stessa nel bosco di Windsor sotto la quercia di Herne, travestito da cacciatore nero; e gli narra la macabra storia di costui e la leggenda che gli è legata. Falstaff acconsente (quadro primo). Nel parco di Windsor (quadro secondo, sesto e ultimo dell’opera) risuonano i richiami misteriosi del corno. Entra Fenton per intonare un appassionato inno d’amore costruito sulla forma di un sonetto (“”Dal labbro il canto estasiato vola””), la cui ultima terzina riprende il motto “”Bocca baciata”” e chiama la risposta dell’innamorata “”non perde ventura””. E un momento di magica sospensione, di tenerezza infinita racchiusa nella perfezione di un lunare astrattismo, ripresa poco dopo dalla canzone “”Sul fil d’un soffio etesio””, accompagnata da un’orchestra tenue e delicata come morbida seta, con la quale Nannetta annuncia l’arrivo delle fate. Ha inizio la burla della mascherata, la tregenda degli spiriti travestiti. L’azione si fa di colpo incalzante. Falstaff, nei panni del cacciatore nero e con due corna enormi sulla testa, è terrorizzato da quanto ha udito raccontare (non dovrà incrociare lo sguardo degli spiriti, pena la morte) e si accuccia per terra mentre tutti lo pungono, lo pizzicano, lo bastonano. Si adatta al gioco restando suo malgrado se stesso, rispondendo agli inviti a pentirsi con l’implorazione di salvargli almeno “”l’addomine””. Poi torna in sé, si dichiara stanco e reclama un po’ di pace. La rottura della finzione scenica (Bardolfo nella foga perde il cappuccio e Falstaff lo riconosce) avvia, complice una modifica dei travestimenti architettata da Alice, la conclusione dell’opera in un clima di bonaria distensione: credendo di maritare Nannetta al dottor Cajus, Ford congiunge invece la figlia a Fenton. Tutti, a modo loro, sono gabbati. A salvarsi è solo la coppia dei giovani innamorati, che rappresentano il futuro, forse l’avvento di una nuova era, favorita dall’acume delle donne. Ma come in ogni commedia che si rispetti, non può mancare la morale conclusiva: e questa, come si è detto, è la fuga buffa che rimbalza coralmente di bocca in bocca e assicura che non vale la pena di prendersela troppo perché “”Tutto nel mondo è burla””: amaro epilogo di una favola gioconda.
Nessuno, neppure i più freddi ammiratori di Verdi, disconosce a Falstaff lo statuto di capolavoro: capolavoro di finezza decantata, di cesello, ma anche di sostanza. Più controverso è il giudizio circa la sua collocazione in una ideale classifica della produzione verdiana. Per l’immensa maggioranza della critica, e d’ogni paese, il Falstaff è l’opera più perfetta di Verdi, quella che assomma tutte le sue virtù ma depurandole da ogni scoria, recandole tutte sopra un piano più alto: insomma, il suo capolavoro assoluto, la punta più avanzata di una ricerca proiettata sul nuovo secolo, nella quale, nonostante le radici profondissime nella tradizione italiana, si intessono relazioni non passeggere con la contemporanea cultura musicale europea. Gli oppositori di questa opinione continuano ad affermare una superiorità del Verdi “”popolare”” della Traviata, del Trovatore, del Rigoletto, del Ballo in maschera o dell’Aida, dove si manifesta una maestria d’invenzione più energica, sanguigna e appassionata. Rossini sosteneva che Verdi, maestro di carattere malinconicamente serio, fosco e mesto, non sarebbe mai stato capace di scrivere un’opera semiseria, e tanto meno buffa; al che Giulio Ricordi gli avrebbe risposto che bastava considerare il personaggio di Fra Melitone nella Forza del destino per smentire questo giudizio. Il fatto è che, se Fra Melitone è inserito per contrasto in un contesto eminentemente tragico, neppure Falstaff è un’opera buffa, ma come si è detto una commedia atipica: genere di cui prima di allora non si aveva avuto in Italia alcun esempio ad essa paragonabile. Ma non è questo ciò che conta. Ciò che conta è che, nel quadro di una evoluzione personale arricchita dalla riflessione su una generale situazione storica, Verdi, con il contributo essenziale della cultura cosmopolita di Boito, pervenne a concepire e realizzare nella sua tarda età una visione del mondo traboccante di spirito e di giovinezza, se non tipicamente giovanile; anzi, di una ritrovata giovinezza che è espressione dell’animo di un uomo che, giunto al traguardo di un’esistenza lunga e operosissima, si volge indietro a contemplarla con malinconico, seppur sereno distacco, sulle ali di una dolce memoria. Nulla, se non l’anagrafe, denuncia la senilità di Verdi alle prese con un soggetto che nella sua ultima, definitiva trattazione giunge perfino a superare le tracce del più grande drammaturgo d’ogni tempo: smussando asperità e dislivelli, immedesimandosi con animo finalmente lieto in un personaggio e nei suoi comprimari, trattando tutti e tutto con umoristica gentilezza, con indulgenza, con un sorriso. Sotto questo profilo Falstaff è il risultato di una conquista umana non meno che artistica: il punto di vista di chi, fra l’altro celebrando la superiorità intuitiva delle donne sulla forza raziocinante degli uomini, sa che il futuro appartiene alle Nannette e ai Fenton ma nel contempo riconosce, alle soglie della fine, che la vita è, come quella di Falstaff, il sogno di un’eterna giovinezza, da ritrovare a ogni istante, ad onta di ogni fallimento. Per questo il suo lavoro fu sereno come non mai. Eppure una tenerezza nuova dové provare anche lui, l’uomo tutto d’un pezzo, sano e “”normale”” per eccellenza, quando l’opera fu terminata per davvero. Parecchi anni dopo l’apostolo riconosciuto del Falstaff , Arturo Toscanini, consultando la partitura autografa trovò fra le pagine un foglietto su cui era scritto: “”Le ultime note del Falstaff – Tutto è finito! Va’, va’, vecchio John… Cammina per la tua via, finché tu puoi… Divertente tipo di briccone; eternamente vero, sotto maschera diversa, in ogni tempo, in ogni luogo!!! Va’…va’… Cammina, cammina… Addio!!!””.
Josè Collado / Antonio Calenda, Gian Maurizio Fercioni, Claudio Schmid, Alberto Rinaldi, Enrico Marrucci, Svetla Vassileva, Elisabetta Fiorillo, Raquel Lojendio, Paola Gardina Antonis Koroneos, Ricardo Cassinelli, Manrico Signorini, Davide Cicchetti, Orchestra del Teatro Lirico “Giuseppe Verdi”
Fondazione Teatro Lirico “Giuseppe Verdi” di Trieste, Stagione lirica e di balletto 2003-2004