Giuseppe Sinopoli è stato un interprete del nostro tempo, ma un interprete atipico: il più atipico nella classe dei direttori d’orchestra. Riferito a lui il termine “”interprete”” sta a indicare non soltanto il musicista di successo internazionale (anche se non incontrastato) e il compositore assai stimato (comporre era stato lo scopo primo del suo accostamento alla musica, anche se poi aveva deviato da questa strada), ma anche, se non soprattutto, l’uomo di pensiero, l’intellettuale poliedrico, colto e inquieto. Va ricordato anzitutto che la musica, e tanto meno la direzione d’orchestra, non erano l’unica ragione di vita di Sinopoli. Gran parte del suo tempo e delle sue energie, distribuite con una disciplina maniacale, egli le impiegava nello studio della filosofia e delle arti, trovando nell’archeologia – materia che aveva voluto affrontare anche con regolari studi universitari, dopo una laurea in medicina e una specializzazione in psicologia – la passione più generosa del suo animo. Perché proprio l’archeologia, lo studio delle “”lingue morte”” e delle culture antiche, delle civiltà sommerse? E come coesisteva questa passione con l’esercizio della musica? La risposta sta nella natura e nel carattere di Sinopoli. Un carattere che si potrebbe definire stratificato e problematico, una natura doppia nella quale una concezione fondamentalmente pessimistica si sposava con una strenua ricerca di valori e di simboli, con il mito della totalità ricomposta. La musica ne era per così dire la rappresentazione: in fondo, che cos’è il direttore d’orchestra se non un ricreatore di testi e di mondi espressivi sottratti al silenzio e all’oblio?
In Sinopoli questo atteggiamento aveva portato a scelte radicali, sia nel repertorio sia nel modo di affrontare la professione. Il repertorio, anzitutto: formato elettivamente da autori del tardo romanticismo e del Novecento, ossia da autori nei quali il senso della crisi di tutta una civiltà cominciava a manifestarsi chiaramente. E, tra questi, soprattutto autori tedeschi: ossia autori nei quali la forza del pensiero era intimamente connessa con la coscienza della crisi. Con tali autori, e nel teatro italiano con il Verdi più sperimentale e con il Puccini più decadente, Sinopoli si identificava non soltanto per ragioni di cultura e di storia personale (gli studi a Vienna, la partecipazione alle utopiche battaglie delle avanguardie, la piena consapevolezza del tramonto dell’Occidente, l’odio-amore per il melodramma), ma soprattutto per una adesione insieme emotiva e intellettuale. Infatti, per quanto l’impressione che egli dava fosse quella di un lucido e rigoroso analista, persino refrattario a lasciar trasparire i suoi sentimenti, la componente emozionale e passionale era in lui fortissima, a tratti quasi debordante. Anche nella sua morte, avvenuta sul podio in modo così improvviso e inspiegabile dirigendo l’Aida, che era stato il suo primo successo da giovane, vi è un lato tragico, quasi un eccesso di estasi irrazionale e di follia dionisiaca. E’ come se Sinopoli avesse rivelato in quell’istante la sua fragilità umana, la sua enorme sfida destinata a rimanere incompiuta, il suo completo mettersi in gioco anche nella finzione melodrammatica. Ed è per questo che la sua fine è parsa, oltre che terribilmente ingiusta, quasi paradossale: non si muore così platealmente per cercare di andare con ostinazione al fondo delle cose.
Questi aspetti, che erano la sua forza e la sua debolezza, vanno tenuti presenti anche quando si considera Sinopoli come direttore d’orchestra. Da un punto di vista strettamente tecnico, egli non era il migliore tra i colleghi del suo calibro. Il suo modo di realizzare le partiture non puntava a risolvere con il gesto e con il braccio le difficoltà di intesa, ma a spingere gli esecutori a trovare l’esatta immedesimazione con lo spirito della musica. Nelle prove, per esempio, di fronte a un passo che non veniva, Sinopoli non prendeva le contromisure adattandosi alle circostanze, ma spronava, spesso più con la parola che con l’esempio pratico, a capire il senso del problema, per poi risolverlo con un atto di intuito e di elaborazione individuale non dell’aspetto tecnico, ma di quello strutturale, poetico, formale e spirituale. Tutto ciò risultava oltremodo affascinante, ma solo a patto di lasciarsi coinvolgere completamente. Le sue erano lezioni di riflessione sulla musica: anamnesi, diagnosi e terapia. Poco gli importava dell’aspetto esteriore di una esecuzione. Ancor meno di quello puramente effettistico. C’era in questo atteggiamento una sorta di continuo appello alla moralità, che come in tutti i grandi moralisti riposava inconsciamente sul fondo di una smisurata pretesa, se non di un fondamentale scetticismo. D’altronde, Sinopoli non nascondeva di essersi dedicato alla direzione d’orchestra per due ragioni principali. La prima era di costringersi così ad approfondire le musiche lo interessavano, e che altrimenti non avrebbe potuto conoscere così a fondo sotto ogni aspetto (e qui citava Mahler, come compositore dedito alla direzione d’orchestra). La seconda era che quell’attività, nelle condizioni attuali, era quella che gli consentiva meglio di guadagnare abbastanza da potersi permettere di coltivare i suoi interessi non musicali: comprarsi gli oggetti d’arte che desiderava, collezionare vasi antichi, allestire un museo a sua immagine e somiglianza, finanziare scavi e ricerche archeologiche. Insomma, sentirsi parte attiva delle cose in cui credeva e che amava, e che probabilmente erano quelle che lo facevano vivere in armonia con se stesso. Tra questi c’erano anche affetti profondissimi, come la famiglia e le amicizie, il senso di responsabilità, e gli ideali.
E’ noto che la carriera artistica di Sinopoli non ha avuto in Italia all’inizio molti riconoscimenti ufficiali. Anche all’estero, per la verità, il suo successo è stato lento e faticoso. Neppure Bayreuth, nonostante il clamore suscitato dal Ring dell’anno scorso, lo aveva accolto in modo incondizionato. Solo nella Staatskapelle di Dresda, con cui aveva stretto un meraviglioso sodalizio, aveva trovato lo strumento perfetto delle sue intenzioni. E ciò si spiega con il fatto che a Dresda Sinopoli aveva preso in mano una situazione compromessa e l’aveva risolta con un impegno assoluto, ricevendo fiducia ed abnegazione totali, innalzando non soltanto la qualità artistica e umana di un’orchestra di grandi tradizioni ma anche la situazione di una città prestigiosa in decadenza. In altri termini, Sinopoli a Dresda aveva potuto resuscitare dalle rovine non solo metaforiche un mondo scomparso. E’ probabile che il primo a non creare le premesse perché ciò avvenisse anche in Italia fosse lui stesso, che pure lo desiderava forse più di ogni altra cosa. Anche questo faceva parte dei paradossi del suo carattere. La tarda esperienza all’Opera di Roma, conclusasi rapidamente con un ritiro sdegnoso, ne è la dimostrazione. Sinopoli aveva concepito seriamente un progetto coraggioso e bellissimo, la cui attuazione avrebbe però richiesto pazienza e costanza, gradualità e diplomazia. Del fatto che il suo progetto trovasse in fase di attuazione resistenze e opposizioni, e che dovesse affrontare ogni sorta di ostacolo burocratico e politico, di voltafaccia e di tradimento anche da parte di coloro che avrebbero dovuto sostenerlo, si ritenne offeso sul piano personale, e molto sacrificò per questo sdegno a una pur giusta causa. In questo caso l’orgoglio personale prevalse su ogni altra considerazione. Fu una grande occasione perduta, e una colpa, a cui Sinopoli reagì aspramente, con l’isolamento e con la solitudine. Per lui abituato a non abbandonare nessuna lotta, questa sconfitta aveva l’amaro sapore della resa.
Ma Sinopoli era questo, prendere o lasciare. Una personalità incapace di compromessi che, con le sue contraddizioni e la sua intransigenza, ha costituito un esempio importante per tutti coloro che lo hanno conosciuto di persona o attraverso le sue esecuzioni, nelle quali tutti i suoi pregi e i suoi difetti erano presenti al massimo grado. Sinopoli sarà rimpianto a lungo, e non da pochi: cioè da tutti coloro che vedono nella musica non un fine a se stesso, ma un modo di essere, di pensare e di sentire la cultura. Non una verità assoluta, ma un tentativo di capire e di affrontare il senso stesso della vita, eccedendo molto, ma ponendosi comunque sempre i più alti traguardi.
Giuseppe Sinopoli
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