Con una imponente serie di manifestazioni – un convegno internazionale di studi, una mostra storico-documentaria, un ciclo di concerti allargato alla produzione contemporanea del musicista –, Ferrara ha ricordato Girolamo Frescobaldi nel quarto centenario della nascita (12 settembre 1583); e raramente una occasione celebrativa si è rivelata così proficua di risultati per la conoscenza e l’approfondimento della vita, dell’ambiente e dell’opera di un musicista e del suo tempo. Anche se da Ferrara si staccò assai presto per bruciare le tappe di una sfolgorante carriera, Frescobaldi non dimenticò mai il suo luogo d’origine, nel quale non soltanto aveva svolto il suo apprendistato con un maestro d’alto livello quale Luzzasco Luzzaschi ma anche aveva preso coscienza della propria missione artistica, prima di trapiantarsi in sedi più adatte al suo sviluppo e alla sua concreta realizzazione. Ma anche allora, nel ricordo venato di nostalgia che traspare da molte sue dediche, Ferrara rimase quel «ricovero all’arti più belle» di un’epoca indimenticabile di fulgido mecenatismo e di splendida vita artistica.
Nei quarant’anni trascorsi a Roma come organista della cappella Giulia, Frescobaldi si impose come autentico virtuoso del suo strumento, degno di esser definito dai contemporanei «lo stupore del tasto»: di lui si raccontava aver avuto, al suo debutto in San Pietro, «più di trentamila auditori». Questa fama ci appare tanto più notevole se si pensa che il costume e i gusti musicali del tempo erano orientati e dominati dall’opera in musica e dal suo corrispettivo spirituale, l’oratorio, ad ogni modo in qualche misura condizionati dalla vocalità, nei confronti della quale, fin dagli inizi, Frescobaldi tese ad emanciparsi per proporre un modello di linguaggio strumentale capace di trovare in se stesso ragioni e leggi. E su questa strada proseguì con coerenza instancabile, perfezionando uno stile fatto di concentrazione e di essenzialità, di fantasia e di lucido virtuosismo.
Ciò non significa chiaramente che Frescobaldi tralasciasse di affrontare il problema della vocalità, della trionfante monodia accompagnata come della gloriosa tradizione polifonica.
Prima di fermarsi a Roma, aveva seguito il cardinale Bentivoglio in Fiandra, venendo in diretto contatto, pur nella brevità del soggiorno, con la più grande e ricca civiltà musicale degli ultimi due secoli, quella fiamminga. La genuinità dell’invenzione per così dire naturale, istintiva, ereditata dai padri italiani, si era così cementata con una maestria del comporre portata ai limiti del virtuosismo pratico e concettuale, una vera e propria scienza dell’elaborazione compositiva assimilata fin nelle più intime fibre e messa al servizio della fantasia più sfrenata; eppure in ogni istante tenuta sotto stretto, ascetico controllo. Dicevamo della vocalità. A tacere dei Madrigali giovanili, dei mottetti latini, dei due libri di Arie musicali pubblicati a Firenze all’epoca del servizio presso Ferdinando II dei Medici e delle due Messe di attribuzione quasi certa – tutte composizioni sotto qualche aspetto degne di attenzione –, in tutta l’opera strumentale di Frescobaldi è possibile cogliere un riferimento alla tradizione vocale; solo che questi riferimenti sono messi tra parentesi, distanziati e trasposti (trascesi) in un linguaggio strumentale che col tempo diviene sempre più specifico, autonomo, consapevole di sè e delle proprie possibilità. Da un punto di vista storico, prima ancora che il monumento più imponente della letteratura secentesca per la tastiera, la produzione strumentale di Frescobaldi rappresenta la svolta verso la completa emancipazione di una nuova concezione compositiva, il punto di arrivo di un lungo e faticoso processo di chiarificazione e insieme il punto di partenza della autocosciente affermazione di una nuova cultura e di una nuova dottrina della composizione assoluta, specificamente, puramente musicale.
Poco importa che quest’opera, per realizzarsi compiutamente, si basasse su forme anch’esse in qualche modo legate alla tradizione: Fantasie, Ricercari, Canzoni, Capricci, Toccate e così via. Quel che conta è il nuovo peso specifico, affatto inconsueto che Frescobaldi vi immette ed elabora. Esso si concreta da un lato nell’impegno costruttivo, ma non aridamente schematico, che permea la struttura compositiva fino a renderla solida, tanto granitica all’interno quanto lieve all’esterno; dall’altro lato, nella varietà e nella ricchezza delle combinazioni contrappuntistiche, delle fioriture melodiche, delle tensioni armoniche, delle proliferazioni ritmiche, dei passaggi virtuosistici e brillanti che ammantano l’opera di accattivanti slanci fantastici. Sta qui il segreto di uno stile che si offre immediatamente alla comunicazione, ma di continuo rimanda alla scoperta di più sottili, profonde relazioni.
Col passare del tempo, via via che sempre nuove esperienze si consumano, questo stile si perfeziona, si sintetizza, da ultimo si prosciuga e diviene analitico ed essenziale. Il tardo stile frescobaldiano, non altrimenti di quanto avviene in Bach o in Beethoven, è l’aurora di una nuova era, un nuovo inizio offerto come testamento alle generazioni venture. Con i Fiori musicali, stampati nel 1635, otto anni prima di morire, Frescobaldi sembra guardare al passato scrutando acutamente il futuro, come chi, giunto all’apice del proprio tempo, ripercorre la lunga strada lasciata alle spalle e si consegna all’eternità con poche, austere parole di commiato, gravide però di significati. Dietro l’umile, quasi lapidaria intonazione di queste pagine così condensate e assottigliate, è possibile leggere la raggiunta certezza di una verità musicale e umana definitiva, esemplare.
Dobbiamo essere grati a Ferrara e a tutti quelli che si sono adoperati per la riuscita delle manifestazioni del quarto centenario, per averci consentito di riflettere su questa verità. Di più, per aver riproposto in tutta la sua interezza l’attualità di un musicista problematico ed enigmatico.
Nuova Civiltà, ottobre-novembre 1983