Giovanni Salviucci – Serenata per nove strumenti
La Serenata per nove strumenti è l’ultimo lavoro di Salviucci. Salviucci la compose nella primavera del ’37, su commissione del piccolo complesso costituito da Guido M. Gatti (il Gruppo Strumentale Italiano, cui è dedicata) che la eseguì sotto la direzione di Nino Sanzogno il 7 settembre 1937 al Festival di Venezia, esattamente tre giorni dopo la morte precoce dell’autore, avvenuta all’età di soli trent’anni. Per esaudire il desiderio degli amici Salviucci aveva momentaneamente interrotto il lavoro alla partitura della cantata Alcesti (1936), suo opus maximum, che sarebbe così uscita postuma, senza l’ultima revisione. Nel programma del concerto veneziano figuravano anche le Tre laudi di Luigi Dallapiccola, al pari commissionate da Gatti, che il cartellone del Maggio di quest’anno presenta in altra sede quasi a voler rievocare un momento cruciale della storia musicale italiana del Novecento.
ll caso di un compositore, massime nel Novecento, che scompaia a trent’anni lasciando appena otto lavori editi, scritti fra il ’32 e il ’37, si presta naturalmente a problematiche interpretazioni. L’interrogativo su che cosa sarebbe stato Salviucci se, come i suoi quasi coetanei Dallapiccola e Petrassi, avesse continuato a scrivere musica oltre quella soglia, per quanto vano, è ineludibile. Tanto più che le premesse sono tali da farcelo apparire degno compagno di strada di quei due, ossia dei due massimi compositori italiani del Novecento. E del resto già nel gennaio ’37, in un saggio apparso sulla «Rassegna musicale», Ferdinando Ballo li accomunava sullo stesso livello affermando apoditticamente che su quei tre giovani «tanto la critica quanto il pubblico possono puntare a colpo sicuro»: e se almeno per quanto riguardava Salviucci il suo giudizio era motivato da definizioni anche gravemente improprie, soprattutto nel cercare legami con la poetica dell’espressionismo, Ballo non falliva nel riscontrare una vocazione «europea» sorretta da straordinario talento.
La formazione di Salviucci era avvenuta per vie abbastanza strane. Aveva studiato privatamente con un maestro, il romano Ernesto Boezi, che lo aveva educato sulla polifonia vocale classica; diplomatosi in composizione, s’era iscritto al corso di perfezionamento di Respighi presso l’Accademia di Santa Cecilia, mantenendo però una posizione appartata, cauta e poco incline ad estendere il campo delle proprie esperienze. La sua cultura musicale era dunque limitata (di Mahler, di Schönberg, di Busoni, di Berg, Salviucci non conobbe mai una nota), ma vivificata da un eccezionale istinto di compositore che lo portò sovente, con candore intellettuale e morale tutto particolare, a intuire certi problemi che erano nell’aria, e a farsene carico con immediatezza passionale inequivoca, e quel che più conta originale.
Ricorda Fedele D’Amico, in un saggio scritto per il ventennale della morte di Salviucci: «La sua mentalità iniziale, in accordo con l’educazione ricevuta, era nettamente contrappuntistica; ma la sua tendenza intima era esattamente opposta a quella prevalente nel contrappuntismo del secolo. Per lui il contrappunto non era una insurrezione antiromantica, come per Hindemith; né un’evasione dalla chiarezza dei sentimenti elementari verso ermetismi, allucinazioni e magie, come stava avvenendo soprattutto nell’espressionismo: e neanche il veicolo d’un ripensamento, come le rievocazioni barocche dei grandi lavori corali di Petrassi. Per Salviucci il contrappunto era una seconda natura, il modo più istintivo di cominciare a parlare: un punto di partenza. Ma quello a cui poi Salviucci tendeva irresistibilmente, era la conquista d’un’espressività dichiarata al massimo, aperta, sfogata, all’occorrenza passionale: l’opposto dunque di quello a cui il contrappuntismo tende normalmente, massime nel secolo ventesimo. Non per questo nutriva clandestine nostalgie stilistiche per l’Ottocento; al contrario, il suo contrappunto era tonalmente ardito, spregiudicato, ‘moderno’: uno stimolo permanente alla ricerca. Ma che al suo fondo balenasse la meta di un tematismo incisivo e luminoso, dell’Einfall riassuntivo d’una situazione, romanticamente proiettato in avanti, è impossibile negare».
Una espressione diretta, non intellettualisticamente o culturalisticamente mediata, appare dunque l’agente primo della musica di Salviucci. Ma a scorrere la partitura della Serenata per nove strumenti ci si accorge subito che questa vocazione si realizza con una disciplina e un controllo severi, davvero impressionanti. I nove strumenti (flauto, oboe, clarinetto, fagotto e tromba, quartetto d’archi) formano un corpo unico contrappuntisticamente elaborato attraverso una scrittura intensa e densissima, ma tersa e lucente, nelle cui linee arabescate che si tendono la mano come in una polifonia dalle proporzioni classiche l’aria circola liberamente, piena di vita e di grazia mite. Un senso di freschezza traspare anche nei passaggi in cui l’invenzione si fa febbrile, come nello Stretto del primo movimento Allegro molto, compensando l’esibita franchezza del gioco di sentimenti e passioni che vi è apertamente sottinteso. Altrove la tendenza all’autonomia delle linee melodiche fa scaturire dalla scrittura polifonica una distensione piena, di natura quasi lirica, che si incarica di far risaltare i momenti decisivi dell’arco compositivo, connotandoli emotivamente.
Il movimento centrale, intitolato Canzone (Andantino), è la gemma della Serenata. Il tema in do diesis minore intonato da fagotto, clarinetto e flauto, la cui adamantina purezza è appena ombreggiata dalle appoggiature dissonanti del primo violino, passa dopo quattro battute in contrappunto agli altri quattro strumenti, o meglio vi si rispecchia come cercando la sua completa identità. Identità che l’isolata, ampia frase cantabile del violoncello nel registro acuto sembra imperiosamente richiedere: e viene in mente Mozart, capace come nessun’altro di condensare un groviglio di stati d’animo pur nell’ordine di appena otto battute. Ma solo alla fine, dopo l’oscuro intrico delle variazioni che seguono, il tema si chiarisce nella sua completa gittata espressiva, pregna di tutto il drammatico travaglio sofferto, e tuttavia risolta in luminosa epifania della felicità; che il terzo movimento (Allegro) celebra con impetuosa visionarietà ritmica ma non dissennatamente sperpera, come se si trattasse di un bene raro e prezioso. Così ce lo ricordano le ultime otto battute della Serenata, nelle quali il gesto violentemente drammatico, ma non disperato, di un accordo dissonante e sforzato si placa nella diafana eco di una triade maggiore, piano e diminuendo: pacificato, e forse denso di un tremendo presagio. È l’ultima immagine, l’ultimo gesto simbolico, carico di una verità disarmante, di un compositore purtroppo sfortunato.
Diego Masson / London Sinfonietta (Sebastian Bell, Robin Miller, Roger Fallows, John Orford, Paul Archibald, Nona Liddell, Joan Atherton, Paul Silverthorne, Melissa Phelps )
Ente autonomo del Teatro Comunale di Firenze, 67° Maggio Musicale Fiorentino