Rivolti di una triade
Rossini, Haydn, Beethoven. L’accostamento di questi tre autori nel programma di un concerto è esemplare ben oltre lo schema consueto basato sulla successione Ouverture d’opera – piccola sinfonia – grande sinfonia. Anche l’ordine, che rivolta come in una triade quello cronologico (Haydn = fondamentale, Beethoven = terza, Rossini = quinta), stabilisce non solo la posizione dei singoli autori nella storia ma anche una trama sotterranea di collegamenti: un bell’accordo di quarta e sesta. In questa prospettiva Rossini, che pure è l’ultimo della serie, è piuttosto la fermata che precede la cadenza: con lui si ha un’idea di che cosa avrebbe potuto essere la storia della musica italiana dell’Ottocento se il melodramma avesse consentito innesti di tradizioni diverse, sovranazionali, e non avesse di fatto impedito la continuazione degli scambi tra le culture strumentali che ancora nel periodo classico era una regola aurea, se nella triade si comprende Mozart. Haydn, nonostante la sua grandezza ancora troppo poco riconosciuta, è autore di un’epoca di mezzo, che media la trasformazione tra estreme propaggini barocche e spirito classico, tra monumentalità in via di estinzione e nuova coscienza della forma e del linguaggio, emancipati fino a diventare capaci di esprimersi in assoluta autonomia. Benché la lunga carriera di Haydn sia perfettamente chiusa in se stessa e disegni ciò che vorremmo fosse sempre la vita di un uomo e di un creatore – una meravigliosa sintesi di talento, studio e realizzazione artistica attraverso gli stadi dell’età, dalla giovinezza alla maturità alla vecchiaia -, la sua posizione nella storia è sospesa fra un prima e un poi, e nello splendore del suo presente mantiene i tratti caratteristici di un’epoca di passaggio. Beethoven è invece in ogni senso un culmine: con lui l’evoluzione storica sembra bloccarsi per sempre, innalzare una catena montuosa così alta e impervia da non lasciare quasi più vedere l’orizzonte. L’immagine del macigno, del titano che getta la sua ombra anche in coni di luce faticosamente sottratti alla sua influenza, è un luogo comune non solo retorico nato già nell’Ottocento, che bene rappresenta la figura di Beethoven: un vertice insuperabile non soltanto per la grandezza della sua musica ma anche, se non soprattutto, per l’aura metafisica che l’avvolgeva, insieme con il suo creatore, in un rango quasi divino. Si poteva aggirare l’ostacolo e scoprire paesaggi circostanti di incredibile bellezza, ma non proseguire su quella strada (le popolose schiere dei viandanti romantici sono orfani di Beethoven alla ricerca di una mèta: solo alcuni la trovarono, ma lassù non arrivarono mai).
Né in ordine soltanto cronologico può essere vista la mutata condizione del compositore nei confronti della sua epoca, e della stessa coscienza del musicista in rapporto alla propria opera. La progressione qui è: integrazione – identità – alienazione. Rossini rappresenta un caso non unico, ma più vistoso proprio in quanto consapevole, di sconnessione non solo tra artista e mondo circostante ma anche fra creatore e opera. Non sono soltanto dati esterni (la decisione di ritirarsi nel pieno degli anni e del successo per coltivare un proprio orticello di sublimi peccati; la continua trasmutazione di pezzi da un’opera all’altra, che presuppone una coerenza interna accanto a una totale disistima per un’idea esteriormente «nobile» della musica, ridotta invece a mercato: dove l’abilità, se non la salvezza, sta nel governare da artista le manipolazioni e sottrarsi a questo mercato) a rivelarlo: al fondo agì in Rossini una dissociazione col mondo, il cui risultato fu la dissociazione con l’opera. Ciò appare naturalmente molto moderno: altro motivo per cui Rossini segna l’inizio traumatico più che la fine serena di un modo di essere artista.
Al polo opposto sta Haydn: organicamente integrato nel suo tempo e nella sua opera, tanto che l’una si rispecchia nell’altro e ne trae vantaggio. Haydn potè rafforzare lo stile classico attraverso conquiste graduali perché l’idea di questo stile corrispondeva non solo alle sue esigenze artistiche ma anche alle aspettative di un’epoca: nella quale il rapporto stesso fra artista e committente si basava su regole chiare e reciprocamente stabilite. L’artista non aveva ancora perso il controllo sui prodotti della sua creazione, e questi potevano innestarsi su condizioni favorevoli, che venivano sostituite da altre in modo spontaneo una volta superate. L’evoluzione delle Sinfonie di Haydn, da quelle «private» per gli Esterhàzy a quelle «pubbliche» di Londra, non è solo determinata da sviluppi interni alla composizione ma anche da precise situazioni ambientali che ne arricchiscono le motivazioni: e Haydn le coglie al volo per realizzare le sue esigenze in perfetta integrazione con quelle.
Beethoven sposta considerevolmente questo equilibrio: con lui è l’artista a dettare le condizioni della sua arte, a creare aspettative sempre più insistenti. Il mondo coincide con la sua opera, e l’opera è in sè il mondo: la perdita dell’integrazione porta a un nuovo concetto di identità che non è né il risultato di un contrasto insanabile con l’esterno – un senso di vacuità e di estraneità che dava i brividi a Rossini – né il ripristino apparente di un’impossibile reintegrazione. Beethoven, categoricamente, eleva il suo mondo ideale a modello dell’universo. Per lui la storia non conta, perché se essa contraddice la visione dell’artista egli semplicemente la cancella e la riscrive. Di questi atteggiamenti così diversi possiamo vedere gli effetti sullo sfondo che accompagnò la genesi dei tre lavori presentati in questo concerto: Il viaggio a Reims di Rossini è una parodia non soltanto dell’opera ma anche della musica encomiastica; la Sinfonia «Maria Theresia» di Haydn è una celebrazione in piena regola di chi crede non soltanto alla musica celebrativa ma anche al dovere delle cerimonie; l’Eroica, in prima istanza pensata per onorare Napoleone Bonaparte, divenne poi, con un gesto rabbioso di sfida, drammatica evocazione del «sovvenire di un grand’uomo»: un sosia immaginario di Beethoven stesso.
La prima rappresentazione de Il viaggio a Reims ossia L’albergo del Giglio d’Oro, primo lavoro scritto da Rossini dopo il suo trasferimento a Parigi, ebbe luogo il 19 giugno 1825 al Théậtre Italien in occasione dei festeggiamenti per l’incoronazione di Carlo X a re di Francia. Il successo non fu brillante, e dopo solo quattro recite Rossini ritirò la partitura dalle scene e ne vietò la pubblicazione, utilizzando però nel 1828 una buona metà della musica nella sua opera francese Le Comte Ory. Considerata a lungo perduta, la partitura del Viaggio è stata solo di recente ricostruita e offerta più volte all’attenzione sia della critica che del pubblico, ma in un’unica edizione, quella promossa dal Rossini Opera Festival. Da queste vicende, piuttosto complesse e tutt’altro che lineari, resta però esclusa l’Ouverture, che nonostante ne rechi il titolo non fu eseguita né nel 1825 né nelle successive riprese non autorizzate dell’opera. Ciò non deve sorprendere, conoscendo il modo di lavorare di Rossini, che era solito rielaborare in contesti diversi materiali di fonti disparate, e complicare il gioco con riferimenti depistanti: nell’«Ouverture per il Viaggio a Reims» si trovano schegge tematiche provenienti da Le siège de Corinthe, composta nel 1826, e perfino dall’opera giovanile La cambiale di matrimonio. Quel che conta è solo il risultato, ed esso fa di questo pezzo uno dei gioielli di quel «sinfonismo in miniatura» che Rossini perseguiva proprio nelle Ouvertures più astratte, dove poteva rifarsi ai modelli venerati della tradizione classica. Un altro spunto può essere quello delle Arie di danza dell’opera francese nell’articolazione «Andantino-Allegretto», con temi spiccatamente diversi ma non contrastanti, l’uno di carattere cantabile (introdotto dall’oboe, ripreso dal flauto e poi esteso a tutta l’orchestra), l’altro spiritoso e danzante, intriso di umore quasi viennese. La finezza e la leggerezza dello strumentale non tolgono respiro sinfonico all’insieme, che palpita di estri continuamente tendenti a sciogliere l’invenzione in capacità di sviluppo, proprio alla maniera dei viennesi: ironizzando, quasi contemplandosi allo specchio, perfino sul famigerato «crescendo», qui soltanto abbozzato.
Pare sicuro che la Sinfonia nota col titolo apocrifo di «Maria Theresia» (n. 48 in do maggiore, Hob. I:48) non sia stata composta in occasione della visita dell’Imperatrice Maria Teresa alla residenza dei principi Esterhàzy a Eisenstadt, dove Haydn prestava servizio come primo maestro di cappella, nel 1772, ma vada retrodatata di almeno quattro anni. Una antica tradizione la collega però a quel nome, per il suo carattere non solo fastoso ma veramente imperiale: dove l’aggettivo non riguarda tanto il legame d’occasione con un tributo speciale quanto la vastità della concezione, lo splendore della forma, la densità del contenuto espressivo: degno di una rappresentazione quasi utopistica del fasto di un impero, come solo un vero sovrano della musica poteva immaginare. La stessa apparente contraddizione di un lavoro che è manifestazione palese degli impeti più veementi e oscuri dello «Sturm und Drang», e che tuttavia fu ricordata come un omaggio tanto simbolico quanto straordinario all’Imperatrice, si spiega col fatto che qui la musica sintetizza gli slanci del cuore e i fremiti di una nuova temperie drammatica con l’equilibrio, la vitalità e la logica dello stile classico: creando una misura che trascende ogni convenzione e che stabilisce essa stessa una nuova convenzione. Per cogliere la quale è necessario anzitutto mettere da parte la più perniciosa di tutte le abitudini esecutive, l’omissione dei ritornelli. Una volta ripristinati, tutti i ritornelli che sono scritti, la Sinfonia apparirà nella sua dimensione grandiosa e perfino monumentale, nella sua ampiezza di respiro e di articolazione, nella sua regale maestà di ombre e di luci: tutt’altro che una «piccola» sinfonia del Settecento.
Basti pensare al modo in cui l’organico dichiaratamente solenne, nel quale svettano due corni e due trombe e i timpani scandiscono una pulsazione che è già psicologica, si flette alle più intime sfumature della caratterizzazione tematica, che pure è proseguita altrove, nella trama contrappuntisticamente robusta degli archi o nel canto luminoso degli oboi. O al percorso armonico, che dal cerimonioso do maggiore dell’inizio col suo incedere marziale scivola presto in un allusivo do minore, cromaticamente ripiegato sul «simbolo del dolore», subito ravvisandovi un contrasto che sarà poi sviluppato nel Trio del Menuetto. Nell’Adagio in fa maggiore gli archi mettono la sordina, mentre trombe e timpani tacciono, quasi a non voler disturbare l’austera nobiltà della melodia. Non è solo la tradizionale alternanza degli affetti a richiederlo: dopo la tensione del primo tempo, tanto energica all’esterno quanto sfaccettata all’interno, s’impone una riflessione, una decantazione. Ma già qui Haydn mostra una insofferenza verso la forma chiusa, e lancia semi che fruttificheranno nel Finale, dove il rapporto si ribalta: ora è la ribollente esuberanza del materiale col suo moto perpetuo in stile imitativo a cercare una conferma nella saldezza della struttura, a richiedere una compensazione nell’ordine costruttivo della forma. Rondò e forma sonata si sovrappongono fino a scomparire, perché gli schemi appena inventati hanno già lasciato il posto alla irripetibile individualità degli eventi, cui non basta una cornice brillante per dare un aspetto rassicurante e pacifico.
Beethoven stacca la musica dalla cornice e con gesto imperioso la getta nell mischia della vita, che non è più il luogo di un altrove. Nell’Eroica la cornice non contiene più tutto il ribollente paesaggio sonoro ma è ridotta alle funzioni di un sipario: due accordi perfetti maggiori all’inizio, ben sedici ripetuti fino all’autoesaurimento alla fine; anche un pezzo di musica delle proporzioni inaudite di questo deve comunque aprirsi e chiudersi. Alcuni brandelli galleggiano sul mare in tempesta degli sviluppi del primo movimento, «Allegro con brio» (per esempio verso la fine dell’esposizione, nella drammatica serie di strappate sincopate di tutta l’orchestra), o del secondo, «Marcia funebre: Adagio assai» (nei laceranti appelli di corni e trombe prima della ripresa della parte iniziale): ma sono frangiflutti che si oppongono alla violenza della marea, non elementi di una cornice. Fuori dalle metafore, la forma della Terza Sinfonia in mi bemolle maggiore op. 55 è un unicum che non sarà mai più ripetuto da Beethoven: per il durevole fatto che in esso la forma era conseguenza dell’idea e del gesto che l’aveva originata. La storiografia più recente tende a sottovalutare l’importanza del gesto e ad assolutizzare, trasferendola per lo più sul piano dell’analisi formale, le novità della concezione: l’aggiunta di una grandiosa coda di 120 battute, una specie di nuovo sviluppo, alla fine del primo movimento; l’inserzione di una Marcia funebre al secondo posto; la sostituzione del Menuetto con un più sostanzioso Scherzo, che nel Trio motiva l’aggiunta di un terzo corno; il ricorso alle variazioni figurate nel Finale, «Allegro molto». Ma nessuna di queste, a parte forse la prima, è una vera innovazione, tale da spiegare di per se stessa l’unicità della Sinfonia.
L’idea che la informa (e non solo le dà forma) è la brutale irruzione di una volontà rigeneratrice, interiore, nel complesso della Sinfonia, tanto esibita quanto tradotta in una serie di conflitti e di risoluzioni che si incarnano in gruppi tartarei di temi, in elaborazione e lotta con la materia, in trasfigurazione e rilancio della posta in gioco. Ciò produce non soltanto un progressivo aumento di tensione ma anche un processo di affinamento della capacità di risolvere ogni elemento in evidenza tematica e in logica compositiva: e porta, da ultimo, allo scioglimento di quella tensione. La scommessa di Beethoven nell’Eroica fu quella di conciliare un contenuto espressivo che era fortissimamente l’espressione di una visione del mondo e di una convinzione ideale con la resistenza che avrebbe opposto la materia nel rappresentare l’una e l’altra in termini essenzialmente musicali. E.T.A. Hoffmann, che intuì precocemente questo nodo fondamentale senza banalizzarlo in etichette (vuoi di carattere biografico, vuoi di natura programmatica), ne trasse motivo per assegnare a Beethoven un anelito romantico: ma non dalla volontà di sostituire al mondo reale un mondo fantastico più vivo e vero, come volevano i romantici, esso dipende, bensì, al contrario, dalla volontà di conformare il mondo reale a quello ideale; e soprattutto dall’intento di dare al mondo la forma di una Sinfonia, di cui l’autore fosse nello stesso tempo creatore e creatura, attore e spettatore.
Fu così che l’idea divenne prima di tutto gesto. In origine, assai prima di comporla materialmente (il che avvenne tra il 1802 e i primi mesi del 1804), Beethoven voleva scrivere una «grande» Sinfonia in onore di Napoleone Bonaparte; nello stesso anno 1800 in cui dedicava a un’altra Maria Teresa, la moglie dell’Imperatore Francesco, un più modesto (seppure bellissimo) Settimino. Le tappe successive sono troppo note per doverle ancora ripetere. Note nei fatti, ma non chiarissime nell’interpretazione. In testa l’autografo recava dapprima questa indicazione: «Sinfonia Grande / Intitulata Bonaparte / Del Sigr. / Louis van Beethoven / Geschrieben / auf Bonaparte». La seconda riga («Intitulata Bonaparte») fu poi cancellata, ma il Geschrieben auf Bonaparte rimase. Molto diverso è invece il frontespizio (tutto in italiano) delle prime edizioni: «Sinfonia Eroica composta per festeggiare il sovvenire di un grand’Uomo, e dedicata / A Sua Altezza Serenissima il Principe di Lobkowitz, da Luigi van Beethoven». Dunque: una Sinfonia non Grande ma Eroica, materialmente dedicata a un mecenate cui Beethoven doveva molto ma idealmente composta per altri. La ragione sovente avanzata per spiegare questo cambiamento – la delusione provata da Beethoven per la decisione di Bonaparte di incoronarsi imperatore, atto effimero di un «uomo volgare» come tutti gli altri – può essere convincente a patto di non caricarla di significati politici: Beethoven non vedeva più in lui l’eroe, cioè un grand’uomo, perché il suo eroe non poteva essere identificato con un personaggio della storia, rivoluzionario o imperatore che fosse (ecco la distanza da Haydn). E gesto è tutto qui: nel sottrarre la musica a ogni riferimento alla storia per proiettarla in una sfera ideale, propria di lei stessa.
Resta però da chiarire il significato del «sovvenire». E qui si torna dal gesto all’idea. E possibile che nell’italiano non sicurissimo di Beethoven «sovvenire» significasse non tanto «sopravvenire» o «ricordare», come di solito si interpreta, quanto «entrare in scena», alla maniera teatrale. Ciò che vi si festeggerebbe sarebbe dunque non l’annuncio rivolto al futuro o il ricordo del passato ma l’entrata in scena dell’eroe: e ciò caricherebbe la Sinfonia di un peso drammatico che non sfuggì per esempio a Wagner. Ciò non toglie che in alcuni momenti la raffigurazione di un eroe puro (di cui si celebra il compianto nella «Musica funebre»: episodio per un eroe presunto più che reale) sia scossa da sussulti di collera, di sdegno quasi morale per il suo destino nel mondo: fino a diventare, nello Scherzo, parodia di un’immagine convenzionale e riaffermazione di un principio vitale. Sotto questa luce anche la svolta del Finale, con l’utilizzazione del tema del balletto Le Creature di Prometeo estratto dalla scena materiale in cui era già apparso e piegato a nuove, molteplici avventure nelle variazioni di stile sinfonico, acquista rilievo: di marca non solo teatrale (Fidelio era alle porte e avrebbe reso evidenti gli sviluppi nella specificità del genere) ma anche contenutistica, nel segno di un vittorioso umanesimo prometeico. Ma se davvero con l’Eroica Beethoven intese inscenare l’eroismo, che è qualcosa di più di un eroe, il suo obiettivo restava l’idea di un grand’Uomo: se non lui stesso, qualcuno che partecipasse nella solitudine degli eletti a un regno metafisico.
Riccardo Muti / Wiener Philharmoniker
“”Intorno a Rossini”” – Ravenna Festival 1992