Gioacchino Rossini – Il Barbiere di Siviglia, melodramma buffo in due atti di Cesare Sterbini

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Il Barbiere di Siviglia, diciassettesima opera di Gioacchino Rossini (1792-1868), cui la sua fama di compositore è universalmente legata, fu rappresentato per la prima volta al Teatro Argentina di Roma il 20 febbraio 1816. Si trattò di un fiasco colossale, e memorabile, che singolarmente accomuna la venuta alla luce di questo capolavoro alla altrettanto clamorosa caduta della Traviata alla prima veneziana del 1853, nel senso che entrambe furono poi destinate a godere di un favore incontrastato e forse ineguagliato sui palcoscenici di tutto il mondo: segno evidente che non sempre il buono, o cattivo giorno, si vede dal mattino.

In realtà le ragioni di quel fiasco (peraltro subito compensato dal successo delle repliche e dalla immediata straordinaria diffusione dell’opera) dipesero in gran parte dalla preconcetta ostilità di una fetta del pubblico nei confronti di Rossini, reo di osare presentarsi con un’opera sullo stesso soggetto che aveva reso celebre e amatissimo il compositore italiano Giovanni Paisiello (1740-1816). Costui era infatti autore di un Barbiere di Siviglia rappresentato per la prima volta a Pietroburgo nel 1782, ma nel 1816 ancora talmente popolare in Italia da far sembrare quasi provocatoria la messa in musica dello stesso argomento da parte di un compositore giovane, foss’anche dotato e affermato come il ventitreenne Rossini. Della premeditazione di quella ostilità è sufficiente testimonianza questa pagina di un illustre ammiratore di Rossini, Stendhal, che così ricostruiva le fasi della famigerata “”prima”” romana: “”Dopo la grande aria di Basilio, il pubblico rimpianse di nuovo la grazia ingenua, e talvolta così espressiva, di Paisiello. Finalmente, seccato delle vicende banali che cominciano il secondo atto, offeso dalla totale mancanza di espressione, fece calare il sipario. Con ciò il pubblico romano, così fiero della sua competenza, fece un atto di orgoglio che fu anche, come suole, una sciocchezza. Il giorno dopo l’opera fu alzata alle stelle e il pubblico si degnò di accorgersi che se Rossini non aveva i meriti di Paisiello, non aveva neppure la languidezza del suo stile, crudele difetto che così spesso guasta i lavori, simili del resto, di Paisiello e di Guidi””.

Altrettanto leggendarie dell’episodio, del fiasco della “”prima””, sono le circostanze in cui avvenne la gestazione dell’opera, compiuta con strabiliante facilità nel tempo incredibilmente breve di tredici giorni, come Rossini stesso confessò nel 1860 nientemeno che a Wagner. Motivo di tanta rapidità fu un fatto ben preciso, non insolito nella carriera del pesarese: trovandosi a Roma per l’allestimento del Turco in Italia, battezzato alla Scala il 14 Agosto 1814, Rossini, allora impegnato a finire la composizione dell’opera semiseria Torvaldo e Dorliska, il 15 dicembre 1815 firmò un contratto che l’impegnava a consegnare entro la metà di gennaio (cioè entro 30 giorni) una nuova partitura. Non esistendo ancora né libretto, né tantomeno soggetto, Rossini dovette affrettarsi per provvedere di un testo la sua nuova opera; fu così che la scelta cadde su “”Le barbier de Séville””, commedia in prosa di Pierre – Augustin Caron de Beaumarchais (1732 – 99), data per la prima volta alla “”Comédie Française”” di Parigi nel 1775, prima parte del celebre trittico proseguito con “”Le mariage de Figaro”” (1784), da cui Mozart aveva tratto le sue Nozze di Figaro (Vienna, 17861 e “”La femme coupable”” (1794).

Scelta indubbiamente impegnativa, dato che si prestava a innumerevoli raffronti con precedenti, fortunate utilizzazioni, prima fra tutte quella appunto di Paisiello; ma niente affatto provocatoria, tanto è vero che per puro scrupolo Rossini e il suo librettista Cesare Sterbini decisero di mutare il titolo, per la “”prima”” romana, in «Almaviva, o sia l’Inutile Precauzione», spiegando questo cambiamento in un «Avvertimento al pubblico», stampato nel libretto, come testimonianza «dei sentimenti di rispetto e di venerazione» di cui l’autore della musica si dichiarava animato nei confronti del «tanto celebre Paisiello» che aveva «già trattato questo soggetto sotto il primitivo titolo». Inutile precauzione davvero, che ottenne il solo scopo di inasprire ancor più i partigiani di Paisiello, cui sembrava che ai danni si aggiungessero ora anche le beffe, provocando la violenta reazione che si è detta. Rossini, da vero artista quale era, non battè ciglio, e si dedicò piuttosto a correggere quelle imperfezioni della partitura che ai suoi orecchi erano risultate lampanti, soprattutto nelle concessioni fatte per compiacere («per malaugurata condiscendenza» come si espresse lui stesso) il celebre tenore spagnolo Manuel del Pòpulo Vicente Garcia, interprete della parte di Alma-viva. Si trattava per lo più di ingiustificate concessioni al colore e allo spirito spagnoleggiante – ariette e cavatine che il Garcia cantava accompagnandosi con la chitarra appena se ne presentava l’occasione – che avevano finito per coinvolgere anche la Sinfonia d’apertura, al cui posto Rossini inserì, fin dalle primissime repliche, la Sinfonia che aveva composto nel 1813 per l’ “”Aureliano in Palmira””‘ che era stata già riutilizzata (con alcune modifiche di ordine prevalentemente strumentale) nel 1815 per l’ “”Elisabetta regina d’Inghilterra””. Questo trasmutare da un’opera all’altra di pezzi anche autosufficienti come una sinfonia o un’aria (e il Barbiere conta almeno un altro esempio clamoroso, il “”Temporale”” del secondo atto già presente pari pari nella Pietra del paragone e in L’occasione fa il ladro), non deve meravigliare, essendo una prassi pressochè costante nel costume teatrale del Settecento e del primo Ottocento, che solo la personalità di un Verdi avrebbe definitivamente abbattutto; se, dunque, non desta meraviglia, sicuramente pone non pochi nè semplici problemi di ordine critico, nel caso del Barbiere ancor più aggravati dal fatto che la configurazione definitiva dall’autore approntata nel corso delle rappresentazioni romane del 1816 fu spesso tradita, manomessa quando non addirittura saccheggiata da interpreti capricciosi e prepotenti, che consideravano le proprie esigenze virtuosistiche al di sopra di tutto, e persino avallata da editori privi di scrupoli. Un solo esempio, ma macroscopico: quando l’opera pochi mesi

dopo fu ripresa a Firenze, il direttore Pietro Romani si arrogò la licenza di togliere l’aria di Bartolo “”A un dottor della mia sorte””   (che risultava troppo ardua per il basso buffo scritturato) e di sostituirla con     un’altra da lui stesso composta, “”Manca un foglio””, che passò così  in molte successive esecuzioni  e addirittura edizioni a stampa.

Ancor  più macroscopica risultava l’abitudine, invalsa fra le dive dell’epoca a partire dall’esempio dato nel 1819 dalla cantante Ronzi de Begnis, di sostituire l’aria scritta da Rossini per la scena della lezione, con un pezzo di bravura scelto a capriccio ai fini di una mera esibizione canora.

Così, se la Ronzi cantò “”La biondina in gondoleta”” debitamente      agghindata di virtuosistiche colorature, la Malibran preferì una canzone gitana, la Sontag le frivole “”Variazioni”” di Rode: in tal modo si consegnò alla tradizione un completo stravolgimento del personaggio di Rosina, che da voce di  contralto quale Rossini l’aveva pensata (e che corrispondeva a una figura di donna matura e assai padrona diì sè), diventata soprano leggero e persino di coloratura, strumento di cadenze e fioriture a profusione, finì per accentuare sempre più lati convenzionali di ragazzina irriverente e maliziosa, arrivista e irresponsabile.  E questa non è la sola distorsione interpretativa di cui il Barbiere dovette soffrire nel corso dell’Ottocento e, per filiazione diretta, fino ai nostri giorni: che progressivamente la sua esatta prospettiva di  “”commedia di carattere””, come ha scritto Roman Vlad, dalle profonde e rivoluzionarie implicazioni sociali (oltrechè formali) si alterava nella collocazione entro una banalizzante cornice  farsesca, da opera buffa della   più vieta tradizione settecentesca. Così, per ovvia conseguenza, all’alleggerimento o addirittura all’evaporazione dei contenuti ideali dell’opera venne a corrispondere nella tradizione deformante l’appesantimento della veste strumentale dell’opera stessa. All’organico orchestrale previsto originariamente da Rossini furono aggiunti infatti    uno o spesso anche due tromboni, i timpani e un secondo oboe e fu eliminato per converso il secondo ottavino, strumento assai più leggero, acuto, chiaro e agile dell’oboe. Con ciò, tutti i coloriti strumentali risultavano ispessiti, e tradita l’originaria atmosfera timbrica dell’opera, forse troppo mozartiana e nobile per far breccia nel gusto superficiale del pubblico di allora.

Questo insieme di contrastanti tradizioni interpretative del         Barbiere, legate a fatti storici   e ambientali di estremo interesse per la conoscenza del costume musicale del nostro passato (e Rossini stesso, che pure ne aborriva le distorsioni, finiva per accettarle con superiore ironia), è come un coacervo di nodi inestricabili che accompagnano le varie fisionomie in cui l’opera volta per volta si affermava: nodi che la coscienza critica del nostro tempo doveva per forza far venire al pettine, allo scopo di ripristinare la lezione autentica del capolavoro rossiniano contro l’arbitrio di tante diverse versioni. E quanto si deve al fervore di Alberto Zedda, insigne studioso e interprete di Rossini, autore dell’Edizione critica dell’opera compiuta sulla scorta della partitura manoscritta autografa conservata oggi nel Civico Museo Bibliografico Musicale di Bologna e pubblicata nel 1969 con ampio corredo di apparati critici una lezione che, esaltata da una memorabile esecuzione dell’opera al Festival di Salisburgo e poi ripresa alla Scala di Milano, diretta da Claudio Abbado con Teresa Berganza nella parte di Rosina, vero contralto, ha trionfato successivamente in teatri grandi e meno grandi, giungendo ora, per la gioia di un nuovo confronto con la verità miracolosa di questa musica, anche nel piccolo teatro della città di Susa.

E indubbio che nelle avventurose vicende della nascita del Barbiere di Siviglia Rossini ebbe la grande fortuna di imbattersi in un librettista, Cesare Sterbini, capace non soltanto di preparare un testo alla musica adattissimo, ma anche di capire lo spirito con cui Rossini aveva messo gli occhi sulla commedia francese di Beaumarchais, conservandone tutta la vivacità, la briosa comicità e vivezza di caratteri. Superate le vecchie convenzioni, in Paisiello invece ancora in gran parte mantenute, dell’opera buffa con situazioni statiche e personaggi fissi (e proprio il tipo del vecchio tutore in vena di improbabili avventure matrimoniali era presto diventato un luogo comune ricorrente), in Rossini l’interesse si accentrava soprattutto sulla figura di Figaro, esponente emblematico della nuova classe popolare emancipata e anti intellettuale, perno intorno a cui ruotano gli avvenimenti del solito triangolo amoroso (Almaviva – Rosina – Don Bartolo). Questa cura meravigliosa nel caratterizzare i vari personaggi, che si applica anche ai personaggi minori, cui basta un’aria o una “”sortita”” per assumere una fisionomia musicale compiuta (basti citare l’aria della Calunnia per Don Basilio, “”Il vecchiotto cerca moglie”” per la cameriera Berta, la scena esilarante del “”Pace e gioia sia con voi”” per il finto Don Alonso), è senza dubbio l’aspetto più nuovo e appariscente di un’opera che, pur radicata nella tradizione italiana dell’opera buffa settecentesca, travolge quella tradizione ponendosi come l’inizio di un tipo di commedia più moderno ed esigente, mai più superato. Ma non solo: il tratto rivoluzionario del Barbiere lo troviamo anche nel fondersi di quei personaggi e di quelle situazioni in una macchina teatrale sapientissima, organicamente articolata in un tutto unico di pieni e di vuoti, di tensioni e di dìstensioni, di allegria e di serietà nello stesso tempo. Certo, il lato comico predomina, ma quella allegria, quel buon umore aperto e giocondo, chiassoso e scanzonato, sottintende implicazioni umane assai complesse, psicologie profondissime, e non di rado inclina coscientemente verso l’ironia e addirittura l’elegia nostalgica, sia pur serena ed equilibrata. Se giocoforza il pensiero ricorre a Mozart, spiritualmente il modello più prossimo, dal punto di vista musicale si percepisce l’esperienza passata attraverso Cherubini e Spontini; perchè in Rossini quella originaria purezza mozartiana appare come scesa dal cielo in terra, fatta più corporea, sensuale, soprattutto infinitamente più inquieta.

Come la parte orchestrale, nella sua agilità e leggerezza, è sempre mirabilmente adeguata alla situazione drammatica e all’evolversi della vicenda (sia nei culmini dei celeberrimi crescendi che nelle introduzioni strumentali ad arie e concertati), la vocalità, per quanto ricca e fantasiosa, non si carica mai di ornamenti fini a se stessi o meramente virtuosistici, se non là dove l’azione stessa lo richiede, come nell’aria di Rosina durante la lezione di canto (quando però Rosina si rivolge a bassa voce a Lindoro, la musica subito abbandona i gorgheggi ornamentali); essa tende piuttosto a farsi strumento psicologico (ed è inutile dire che i capolavori massimi in questo senso sono il “”Largo al factotum”” di Figaro e “”Una voce poco fa”” di Rosina), toccando il punto focale di individuazione nella abilità rara con cui le voci sono combinate nei concertati.

Ma l’elemento fondamentale dell’opera, dotato di vitalità creativa, è non tanto l’invenzione melodica o armonica, quanto il ritmo, che assume un vero e proprio valore costruttivo e conferisce alla musica un movimento e una dinamica incalzanti di scena in scena; guidato dal ritmo, l’arco che sorregge formalmente l’architettura dell’opera rappresenta quanto di più perfetto, per economia e adeguatezza di mezzi il teatro musicale dell’Ottocento possa vantare. Dal coretto d’introduzione dopo la Sinfonia, “”Piano pianissimo””, fino alla stretta del primo atto è un brulicare continuo di sorprese e d’invenzioni, di caratterizzazioni e di ammiccamenti; nell’atto secondo, fino al fulmineo e gioioso finale, uno sparo continuo di fuochi d’artificio, cui riesce però, quasi incredibilmente, di mantenere in superiore equilibrio virtuosismo e verità drammatica: ecco il frutto maturo di uno stile musicale che Stendhal, uno che se ne intendeva davvero, ebbe un giorno a definire “”mai appassionato, sempre spiritoso, raramente noioso, più raramente sublime””.

Francesco Prestia / Orchestra sinfonica Bulgara, Coro del Festival Musicale Segusino
4° Festival Musicale Segusino 1979

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