George Bizet – Carmen, opera in tre atti di Henry Meilhac e Ludovic Halèvy

G

Il trionfo dei vinti

 

Cette obscure clarté qui tombe des étoiles…

(Corneille, Le Cid )

 

Carmen, il capolavoro del teatro musicale francese dell’Ottocento. Una storia singolare. Non ebbe, agli inizi, vita facile: cadde alla prima rappresentazione, al Teatro dell’Opèra Comique di Parigi il 3 marzo 1875, per risollevarsi, è vero, nel corso delle repliche; ma vide, ancor fragile creatura in balia delle tempeste, la morte del suo autore, avvenuta a tre mesi esatti di distanza, il 3 giugno 1875, quando Bizet contava appena trentasei anni e mezzo (era nato infatti a Parigi il 25 ottobre 1838). La fama di Carmen cominciò non in patria, ma all’estero, con le trionfali rappresentazioni al Teatro dell’Opera di Vienna nell’autunno dello stesso anno (alla replica del 6 novembre, era presente Wagner, cui l’opera piacque molto): fatto di per sé non straordinario, se non fosse legato a tutta una serie di vicende che ne snaturano in maniera decisiva e duratura il carattere originario, sia drammaturgico che musicale.

Carmen, infatti, è originariamente un opéra comique, ossia un tipo di opera, di tradizione e carattere puramente francesi, che alterna alla musica, in luogo dei recitativi musicati dell’opera italiana e del grand opéra francese, i dialoghi parlati, in prosa Questa struttura, per molti versi affine al Singspiel tedesco, già di per sé colloca l’opera in una dimensione affatto diversa dalla grande opera romantica del tempo, e incide anche sulla veste propriamente musicale, formata di soli numeri chiusi (arie, canzoni, cori, duetti, ensembles) e contrassegnata da una strumentazione scintillante e briosa, sempre raffinata e nobile.

A Vienna, per ragioni facilmente intuibili se si pensa al gusto e al costume teatrale dell’epoca, i dialoghi parlati furono sostituiti da recitativi tradizionali composti per l’occasione (con molto gusto, occorre aggiungere) da Ernest Guiraud, grande amico e collaboratore di Bizet; recitativi che rimasero poi in uso quasi dappertutto e furono consacrati definitivamente dalla stampa della partitura, pubblicata a Vienna nel 1880. Di fatto, Carmen fu così assimilata al genere della grande opera romantica francese e italiana. E proprio in una versione in lingua italiana, del 1878, l’opera si affermò dovunque nel mondo, riscuotendo un successo internazionale in gran parte basato su un grossolano equivoco. A definire il quale, basti un’unica osservazione: da opera da camera, seppur aperta su grandi spazi scenici e corali, qual era all’origine, Carmen divenne un’opera da parata per grandi teatri e virtuosi del bel canto, atleti dell’acuto e del gesto plateale; divenne il pezzo favorito delle grandi arene, e soprattutto dell’Arena di Verona, con sfoggio di comparse e cavalli sulla scena.

Ma non è tutto: per salvare la rappresentazione, Bizet, durante le prove, aveva dovuto cancellare i punti più difficili e semplificarne altri, sopprimendo pagine intere della versione originaria. Morto l’autore, Guiraud, mosso senz’altro da buone intenzioni verso l’amico, non si limitò a comporre i recitativi ma, rendendo definitiva la versione ridotta imposta a Bizet dalle circostanze, intervenne pesantemente sia sullo strumentale, che rese più massiccio e compatto, in altre parole più teatrale ed effettistico, sia sulla struttura stessa dell’opera, ampliandone l’azione dai tre atti originari a quattro, e rimpopolando il quarto atto con musica per balletto messa insieme da altri pezzi di Bizet. Non stupisce perciò che l’opera potè affermarsi come il prototipo dell’opera verista, tipicamente meridionale e passionale; e a fissare questo dato contribuì certo anche la famosa adesione di Nietzsche che, in aperto contrasto con Wagner e alla ricerca di qualcosa da contrapporgli, parlò dell’opera (che lui vide a Genova nel 1881, senza neppur sapere che Bizet era morto da sei anni) in termini fin troppo entusiastici: «Questa musica è malvagia, raffinata, fatalistica: malgrado ciò essa resta popolare – ha la raffinatezza di una razza, non quella di un individuo. E’ ricca. E’ precisa. Costruisce, organizza, porta a compimento: con ciò essa è in antitesi alla musica tentacolare, alla «melodia infinita». Si sono mai uditi sulla scena accenti tragici più dolorosi? E in che modo essi vengono raggiunti! Senza smorfie! Senza battere moneta falsa! Senza la menzogna del grande stile!» Eccetera (Il caso Wagner, subito all’inizio).

Le differenze che si son dette, non sono affatto marginali. Esse mutarano alla radice l’essenza musicale e drammatica dell’opera. Ora, ciò non significa necessariamente che la versione originaria di Carmen sia superiore in tutto e per tutto a quella da sempre in uso, così come il Boris originale di Mussorgski non da tutti è ritenuto superiore al rimaneggiamento di Rimskij-Korsakov. Ma giustizia vuole che si dia a Bizet quel che è di Bizet. Ciò è possibile da quando Fritz Oeser curò e pubblicò la «Nuova edizione critica secondo le fonti» della Carmen (1964), basandosi su una copia della partitura originale del 1874 (quindi antecedente alle modifiche apportate da Bizet stesso), rinvenuta a Parigi negli archivi dell’Opéra Comique. Su questa partitura, in tre atti e coi dialoghi parlati originari, è condotta la presente esecuzione del V Festival Musicale Segusino. Va dato atto ai suoi artefici che si tratta di una scelta coraggiosa, e culturalmente importante. Le sorprese non mancheranno; e con esse le delizie per tutti coloro che sono disposti a non adagiarsi nella pigra, anche se sovente lussuosa e gratificante, routine di una Carmen dai grandi effetti spettacolari e scenografici.

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La scelta della novella di Prosper Mérimée (scritta nel 1845) come soggetto per un’opera, entusiasmò subito Bizet, che in una lettera del 17 giugno 1872 all’amico Guiraud scriveva: «Mi hanno commissionato un’opera in tre atti per I’Opéra Comique. Meilhac e Halévy mi fanno il libretto. Sarà gaio, ma d’una gaiezza che permette lo stile». Henri Meilhac e Ludovic Halévy, due ottimi librettisti con cui Bizet lavorò in perfetto, felice accordo, avevano approntato il libretto della Carmen in pochi mesi, nel 1872; Bizet, invece, appena cominciata la composizione, la interruppe per altro lavoro da cui sperava maggior gloria (Le Cid, un dramma eroico commissionato dall’Opéra), per poi riprenderla, in seguito all’esito sfavorevole di quel progetto, alla fine del 1873 e terminarla entro il 1874. Nel frattempo, la direzione dell’Opéra Comique aveva giudicato il libretto scandaloso (una storia d’amore fra zingari, ladri, sigaraie e contrabbandieri!), e inammissibile la conclusione tragica, senza precedenti nella storia di un teatro «familiare» come quello, la cui funzione sociale stava principalmente nel favorire e preparare i fidanzamenti dell’alta borghesia. Nere nubi incombevano minacciose quando, nel dicembre 1874, l’opera fu messa in prova. Bizet, come già detto, fu costretto ad apportare alcune modifiche, e pare che per alcun tempo fosse addirittura incerto se accettare il lieto fine che gli si richiedeva: quest’imposizione fu scongiurata soltanto dalla decisa solidarietà dei due cantanti protagonisti. In cambio, la protagonista femminile, la celebre Marie – Célestine – Laurence Galli Mariè, chiese per ben tredici volte di riscrivere la sua sortita. Alla fine, Bizet la sostituì con una canzone di un compositore spagnolo di musica leggera, Sebastiàn Yradier, debitamente rielaborata: l’attuale, famosissima Habanera.

Gli aneddoti sulla prima rappresentazione di Carmen sono tanti, e succosi: si sa che la direzione del teatro fece circolare fra gli abbonati un comunicato in cui si consigliava di portare con sé le mogli e le figlie. Alla serata intervenne tutto lo stato maggiore della musica francese: Gounod, Thomas, Delibes, Offenbach, Massenet, Lecocq, mentre Saint-Saëns vide una replica, e ne uscì entusiasta. La critica, invece, reagì con violenza, accusando la musica di Bizet di essere «wagneriana», ossia tedesca. Per un francese, quello era l’oltraggio peggiore che si potesse fare.

Non ci meraviglia che l’opera sembrasse di una novità sconvolgente. Quella novità non era data tanto dal libretto quanto dalla musica. Nel libretto di Meilhac e Halévy, infatti, certi tratti più marcatamente realistici della novella di Mérimée erano stati addolciti, e stemperati nella visione fantastica di una Spagna colorata e brillante, festosa e animata. Alla leggerezza di tocco nel disegnare i quadri più scabrosi (le sigaraie che fumano in scena, i contrabbandieri, le stesse arti di seduzione di Carmen), si univa il taglio sicuro, estremamente efficace e conciso, nella presentazione dei personaggi: per esempio, il toreador Escamillo, che in Mérimée è soltanto un modesto picador di nome Lucas, nell’opera assurge a vero antagonista di Don José, caratterizzato splendidamente fin dalla sua sortita del secondo atto, il celebre Couplet «Votre toast», la cui melodia era già stata anticipata nel preludio dell’opera. Inoltre, i librettisti introdussero ex novo il personaggio «positivo» di Micaela, la dolce fidanzata dalle trecce bionde e dagli occhi azzurri, facendone il simbolo di un anelito verso la purezza dei sentimenti e le gioie di un vero amore borghese (il ritorno al paese, la benedizione della madre), da opporre alle furie anarchiche della protagonista: una indubbia concessione al gusto del luogo e del tempo, ma riscattata, quanto a spessore drammatico, dalla musica; basti pensare all’aria famosa del terzo atto, «Je dis que rien ne m’épouvante», miracolo di estasi notturna sulle cime delle montagne, con quel contrappunto sublime dei corni.

Lo stesso Don José, che nella novella si è macchiato di una serie di omicidi già prima di conoscere Carmen, nel libretto diviene la vittima di un contrasto interiore, lacerante, segnato dai dubbi e insidiato dai rimorsi. Proprio accentuando la sua franca generosità, si ottenne di rendere ancor più drammatica la parabola che da uomo semplice e buono qual’è lo porta a diventare un assassino, un uomo roso dalla gelosia e dalla furia di autodistruzione, trascinato alla catastrofe dalla «tragica ironia che costituisce l’essenza dell’amore» (Nietzsche).

Infine, Carmen, la fatalità che annienta: ma è veramente l’apparizione di Carmen una fatalità, o non piuttosto una necessità vitale? Se nel libretto Carmen è il personaggio più fedele all’originale di Mérimée, la sua novità esaltante e inaferrabile si palesa nella musica, che a ragione dovette apparire di un’audacia insopportabile. E’ molto importante che Carmen abbia il timbro di mezzosoprano, e che sappia passare con ugual verità dai momenti solistici di grande estroversione espressiva (come nell’Habanera, nella Séguedille «Près des remparts de Séville», o ancora nella canzone che apre il secondo atto), ai momenti di più sottile ripiegamento in se stessa, di più alto contenuto drammatico: il cui culmine, inutile dire, è rappresentato dalla grande scena delle carte del terzo atto. Perché Carmen, come tutti i grandi personaggi vivi e veri, è una figura complessa, che racchiude molteplici caratteri; come Lulu, è la femminilità in tutte le sue forme e manifestazioni, la messaggera dell’eros, forza vitale e distruttiva allo stesso tempo: femminilità calda e meridionale, come Lulu lo è fredda e nordica. Ma soprattutto: Carmen non è mai volgare, come troppe volte accade di vedere sulla scena, né, come avrebbero detto le nostre nonne, una poco di buono, una mangiatrice d’uomini. La modernità sconcertante di Carmen sta nell’essere colei una donna vera e completa, come nessun’altra, a parte forse Violetta, nell’Ottocento romantico e borghese: una vittima dell’emarginazione e dell’oppressione sociale (gli imbecilli vi diranno una femminista), che all’inizio reagisce selvaggiamente e quasi inconsciamente, per acquistare solo poco a poco chiarezza di sé e scegliere con assoluta coerenza il destino di morte, difendendo il diritto alla libertà (che non è arbitrio) e alla vita interiore (che è angoscia) con fede morale pari a quella di Don Giovanni di fronte alle perentorie imposizioni di pentirsi del Commendatore. Per questo, è riduttivo dire che Carmen sfida i limiti delle convenzioni sociali dell’epoca (o forse di tutte le epoche) e per ciò deve morire. La sua è sì una sfida alla legalità, ma anzitutto una sfida a se stessa, un tentativo di realizzarsi che conduce, come sovente accade, alla tragedia. Non a caso Nietzsche ravvisò in lei la statura di un’eroina greca.

Tutto questo è suggerito e compiuto dalla musica di Bizet con una perfezione limpida e sfuggente allo stesso tempo: è il passo di danza su cui l’opera si regge, «come tutto ciò che è divino, su piedi leggeri» (Nietzsche), e che trova una singolare capacità di definizione nei dettagli come nell’insieme. Il canto, l’orchestra aderiscono al dramma con una proprietà e una copia di sfumature inesauribile: la stessa ambientazione spagnola (la favolosa Siviglia), che pur tanto arricchisce nella musica le possibilità tematiche ed espressive, non significa mai concessione al folclore o a un decorativismo esotico e popolareggiante, ma, come scrive D’Amico, «definizione realistica incaricata di un compito drammatico preciso: quello di contrapporre un mondo morale a un altro». E dunque: di fronte alla sfrenatezza di certi ritmi eccitanti e di splendori sonori e timbrici resi con gusto infallibile (si ricordi l’accenno di Bizet alla gaiezza che permette lo stile), il realismo psicologico di Carmen, che a torto si è voluto vedere come una anticipazione del verismo italiano, quel calare in questo sfondo la verità di personaggi che amano e soffrono con la totalità della loro persona. Di qui, infine, il veemente trapasso dalla variopinta animazione della piazza di Siviglia, all’inizio dell’opera (stupendamente resa dal coro d’apertura «Sur la piace – Chacun passe, – Chacun vient, chacun va»), all’aura tragica di un meriggio infocato di sole e di sangue, percorso dal demone di una tristezza, infinita e sconsolata.

Già nel breve, travolgente preludio che apre l’opera, si ha un esempio supremo della fantastica efficacia drammatica di cui è capace questa musica: al motivo della corrida, gioioso e brillante («magnifico strepito da circo», lo definì acutamente Nietzsche), che ritroveremo nel Finale del terzo atto come contrappunto fuori scena dell’ultimo dialogo e dell’uccisione di Carmen, seguono il canto estroverso e superbo di Escamillo, il toreador vittorioso, e poi il motivo di cinque note («un epigramma sulla passione», secondo Nietzsche) dell’amore di Carmen, con il suo caratteristico, lacerante intervallo di seconda eccedente, che oscura come all’improvviso quel quadro assolato e festoso. E’ un contrasto duro, quasi verdiano nella sua concisione, che riassume il rifrangersi nell’intimo dei personaggi; da Carmen a Don José, a Escamillo, a Micaela, fino allo scioglimento tragico reso ancor più incalzante e ineluttabile dalla scansione in tre atti, dove il terzo atto accosta, separato solo da un breve intermezzo orchestrale, il quadro della notte oscura sui monti, con la sua serrata successione di episodi, all’ultimo ingresso alla «plaza de toros». Il secondo atto, invece, sembra concedere qualcosa di più al colore lo-cale, come una pausa prima del precipitare degli eventi. Ma dopo il preludio, grottescamente guidato dai due fagotti e dal tamburo, e la canzone zingaresca di Carmen, di forte seduzione erotica; dopo il celebre Couplet di Escamillo e l’altissimo, aereo Quintetto, coll’entrata di Don José (annunciata dal canto fuori scena), la temperie drammatica cresce progressivamente fino alla grande romanza del fiore (che vorremmo sempre sentire eseguita con la raffinata nobiltà profusa da Bizet); si accende nell’inno alla libertà di Carmen, e infine precipita nel duello e nella fuga di José con Carmen. I dadi sono tratti, il destino segnato.

Carmen è opera di tale equilibrio e perfezione stilistica, di tale pienezza di contenuti, di così sapiente realizzazione musicale, da far nascere spontaneo l’interrogativo su cosa avrebbe potuto ancor fare Bizet se una morte prematura non l’avesse sottratto alla creazione. Quasi profeticamente, il suo ultimo canto è un canto di morte: il canto di un dragone inginocchiato in una piazza bruciata dal sole e deserta, mentre si odono le urla di trionfo della corrida, che si consegna alla giustizia degli uomini per aver ucciso (tragica, terribile ironia) proprio l’oggetto della sua adorazione. Nell’«oscuro baglior che viene dalle stelle», come dice il poeta, legato dal nodo inestricabile di un tremendo groviglio di sentimenti che trascendono l’uomo, Don José si accascia vinto. E il suo trionfo è il trionfo dei vinti.


Francesco Prestia / Orchestra Filarmonica di Stato di Plovdiv, Corale “San Gregorio Magno” di Trecate, “Ensemble Chanteurs de Paris”, Coro di Voci Bianche “Primavera” di Susa
5° Festival Musicale Segusino 1980

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