Nel settembre del 1828 Schubert venne componendo, oltre al Quintetto in do maggiore per archi, tre Sonate per pianoforte, rispettivamente nelle tonalità di do minore, la maggiore e si bemolle maggiore. Il 2 ottobre, evidentemente poco o nulla sperando ancora dai mercanti viennesi, si rivolse all’editore Probst di Lipsia per offrirgli questi lavori: «Ho composto fra l’altro tre Sonate per pianoforte solo, che vorrei dedicare a Hummel. Ho pure composto alcuni Lieder su testi di Heine di Amburgo [gli ultimi sei, poi confluiti nella raccolta postuma Schwanengesang, “”Canto del cigno””], che qui sono piaciuti in modo straordinario, e infine un Quintetto per due violini, una viola e due violoncelli. Ho già eseguito in vari luoghi le Sonate con molto successo, mentre il Quintetto sarà provato solo in questi giorni. Se qualcuna di queste composizioni per caso Le conviene, me lo faccia sapere». Probst rispose a stretto giro di posta che «delle Sue nuove composizioni mi interesserebbero soprattutto i Lieder e La prego di inviarmeli», tacendo su tutto il resto. Poco dopo, il 19 novembre 1828, Schubert morì all’età di trentun anni. Suo fratello Ferdinand, nel dicembre dello stesso anno, offrì le Sonate all’editore viennese Tobias Haslinger, chiedendo per ogni pezzo una somma assai modesta. Haslinger ne annunciò la pubblicazione il 18 dicembre sulla “”Wiener Zeitung””, ma l’intenzione non ebbe concretamente seguito. Le tre Sonate furono pubblicate solo nel 1839 dall’editore Diabelli di Vienna come «ultime composizioni di Franz Schubert»; e poiché Hummel era morto da due anni, l’editore le dedicò a Schumann, che in quegli anni andava vigorosamente affermando la grandezza di Schubert nella rivista di cui era fondatore e direttore, la “”Neue Zeitschrift für Musik””.
Schubert morì dunque senza veder pubblicate le ultime tre Sonate: che sono non soltanto le sue composizioni per pianoforte più mature e più alte ma anche, nell’insieme, il contraltare, o il complemento, del ciclo delle ultime Sonate di Beethoven. A tale consapevolezza si è giunti tuttavia in epoca abbastanza recente, per molti anni il giudizio complessivo sull’opera sonatistica di Schubert essendo rimasto fortemente limitativo: nonostante l’ampia profusione di valori melodici e armonici, ad esse sembravano mancare la ricchezza di contrasti e la varietà della scrittura pianistica così marcate in Beethoven; mentre la stessa idea formale, basata sull’iterazione e sulla digressione più che sulla drammatizzazione dello sviluppo, risultava indefinibile, troppo intimamente romantica e comunque lontana dall’esprimere conflitti di portata universale. I grandi virtuosi della fine dell’Ottocento le disdegnarono del tutto, creando una frattura che si sarebbe colmata, a poco a poco, solo nel nostro secolo. Fino al 1940 l’unico grande pianista che eseguisse regolarmente le Sonate di Schubert fu Artur Schnabel: e il suo Schubert era quello di un pioniere che guardava al passato del classicismo viennese, privilegiando la trasparenza delle linee e il colore crepuscolare della malinconia. Solo nel dopoguerra le esecuzioni cominciarono progressivamente a infittirsi, portando in primo piano, via via che mutavano le tesi critiche su Schubert in generale e sulle sue Sonate per pianoforte in particolare, l’originalità della logica formale e la pregnanza degli atteggiamenti espressivi.
Se l’acquisizione di questi capolavori è una conquista culturale prima ancora che semplicemente musicale, ad essa non rimane estranea la sensibilità dell’interprete, cui si chiede di essere, prima ancora che virtuoso da concerto, un ricercatore inquieto, mediatore d’un viaggio che non ha mai la consolazione d’una certezza.
Anche Schumann ebbe la sua parte di responsabilità nel costruire un’immagine falsa di Schubert che si protrasse per tutto l’Ottocento. «Chi possiede un po’ di sentimento e di cultura» – scriveva nel 1838 – «riconoscerà e distinguerà Beethoven e Schubert già dalle prime pagine. Schubert ha un carattere di fanciulla, rispetto a Beethoven è assai più loquace, più tenero e più ampio: è come un bambino che gioca spensierato fra i giganti. […] Certo: anche lui ha i suoi punti di forza, mette in azione le masse; ma si comporta sempre come una donna nei confronti di un uomo, dove questi comanda mentre quella prega e persuade. Ma tutto ciò vale solo nel confronto con Beethoven: rispetto agli altri egli è pur sempre abbastanza uomo, e anzi è il più ardito e il più libero di spirito di tutti i musicisti moderni». Schubert scelse per le sue Sonate una strada affatto personale, nella quale la sfida sovrumana e la tensione dialettica di Beethoven non parevano aver lasciato traccia. Il trattamento della tastiera è concepito come espressione intima e naturale della voce, non finalizzato al confronto tematico ma alla progressiva scoperta delle infinite sfumature d’una melodia, sviluppata nel segno di una variazione continua più che del contrasto; il ritmo vi assume una funzione determinante, altamente simbolica, non meno delle metamorfosi dell’armonia e dei piani tonali, accostati secondo un sistema di rapporti molto più sfumati, flessibili e mutevoli. Ancora Schumann ne colse questo aspetto con molto acume, differenziando il carattere peculiare delle ultime Sonate all’interno della produzione pianistica schubertiana: «Comunque sia, queste Sonate mi sembrano notevolmente diverse delle altre sue, in particolare per la molto maggiore semplicità dell’invenzione, per la volontaria rinuncia alla novità brillante su cui egli altre volte dimostrava di puntare molto, e infine perché qui egli tende a intessere idee musicali generali laddove nelle altre Sonate aggiungeva continuamente nuovi fili nell’ordito dei periodi».
Benché evidentemente fossero nate per formare un’unicaraccolta, ciascuna delle tre Sonate ha un carattere diverso, come se Schubert vi esplorasse aspetti distinti e complementari di una stessa idea pianistica. La prima in do minore è la più cupa e densa, in un certo senso vicina all’eloquio beethoveniano già nella scelta della tonalità di do minore, ma permeata di peculiari tratti stilistici sia nel trattamento della tastiera, concepito come perenne tensione al canto, sia nell’atmosfera che la pervade da cima a fondo e che non si allontana mai da un fondamentale senso di malinconia e di ripiegamento interiore: financo di pessimismo, che lottando contro la depressione anela alla trasfigurazione.
L’intimismo che la caratterizza si condensa in una gamma ricchissima di invenzioni melodiche, di tono struggente, e in figurazioni armoniche tortuose e gravi, cui fanno da contrappeso la vivacità dei ritmi di danza e il repentino cambiamento di scena nella luce di paesaggi e proiezioni prospettiche. La visione di un pessimismo cosmico vicino a quelli di certi Lieder coevi, come Der Atlas, si apre a sognanti divagazioni nel primo tempo, si inabissa nell’inquietudine angosciosa dell’Adagio e riemerge nella tranquilla, intenerita contemplazione del Menuetto; per poi slanciarsi nella danza macabra del Finale, ansioso e febbrile nel suo ritmo di Tarantella esteso alla forma di un ampio Rondò.
Mitsuko Uchida
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Gestione autonoma dei concerti – Stagione di musica da camera 1996-97