Franz Schubert – Sinfonia n. 9 in do maggiore, D. 944, La Grande

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Franz Schubert

Sinfonia n. 9 in do maggiore, D. 944, La Grande

 

Andante – Allegro ma non troppo

Andante con moto

Scherzo (Allegro vivace)

Finale (Allegro vivace)

 
La Sinfonia in do maggiore D. 944 (tale il numero d’opera ch’essa reca nel fondamentale catalogo di Otto Erich Deutsch) è l’ultimo lavoro sinfonico portato a termine da Schubert. L’appellativo di «La Grande» le fu dato in contrapposizione all’altra Sinfonia in do maggiore composta da Schubert, la «Piccola» del 1817-18, che è anche l’ultima sua Sinfonia intera e completa prima di questa. Ciò non significa che nel frattempo Schubert non si occupasse del genere sinfonico: è anzi vero il contrario. A parte la celeberrima (postuma, s’intende, giacché fu conosciuta soltanto nel 1867) Sinfonia in si minore, lasciata incompiuta – l’Incompiuta, appunto – dopo il secondo movimento nell’ottobre 1822, Schubert aveva iniziato altri progetti sinfonici rimasti, per vari motivi, allo stadio più o meno frammentario: di una Sinfonia in re maggiore (maggio 1818) abbiamo gli schizzi preparatori per pianoforte di due movimenti; di una Sinfonia in mi maggiore (agosto 1821) gli abbozzi in partitura (rinvenuta nel 1934, questa Sinfonia fu strumentata per intero da Felix Weingartner ed entrò nel catalogo schubertiano con il numero di settima); di una Sinfonia detta di «Gmunden-Gastein» perché ivi composta nel giugno-settembre 1825 addirittura nulla se non la dedica e l’offerta alla Società degli Amici della Musica di Vienna (pare ormai accertato che questa Sinfonia vada identificata con «La Grande», di cui sarebbe per così dire una prima stesura; e ciò spiegherebbe il fatto del suo mai avvenuto rinvenimento). Tutto ciò ha generato una notevole confusione nella numerazione dell’ultima produzione sinfonica di Schubert: a seconda che si contino o meno i frammenti e le opere incomplete, «La Grande» e la stessa Incompiuta assumono matricole diverse. Sposeremo pertanto l’accreditata tesi del più recente catalogo di Maurice J. E. Brown, che accetta come settima la Sinfonia in mi maggiore e assegna i numeri di ottava e nona rispettivamente alla Sinfonia in si minore e alla Sinfonia in do maggiore. La quale, fosse o meno anticipata dalla perduta Sinfonia di «Gmunden-Gastein» e dunque risalisse al 1825, fu composta nella stesura a noi nota nel marzo 1828, come si evince dall’indicazione posta in testa al manoscritto completo e in bella copia della partitura. Sappiamo inoltre che subito dopo averne terminata la composizione Schubert offrì il lavoro, per la seconda volta, alla Società degli Amici della Musica di Vienna, che ne annotò il ricevimento nel proprio catalogo ma la respinse giudicandola «troppo lunga e difficile», se non ineseguibile. A Schubert non rimase altro che riprendersi il manoscritto e metterlo a dormire in un cassetto in casa di suo fratello Ferdinand, che a quel tempo l’alloggiava. Pochi mesi dopo, il 19 novembre 1828, Schubert moriva portandosi dietro, fra tanti altri, anche il rimpianto di non aver mai potuto udire una delle più stupefacenti creazioni del suo genio.

Sarebbe toccato a Robert Schumann, dieci anni dopo, rendersi protagonista del ritrovamento della Sinfonia in do maggiore e di una recensione di essa che, pubblicata sulla sua rivista «per l’apertura dell’anno 1840», è ancora oggi il commento più appropriato e affascinante alla «inimitabile partitura». La storia è nota. Recatosi a Vienna nel gennaio 1839, Schumann fece visita a Ferdinand Schubert e fra i numerosi manoscritti inediti del fratello ch’egli custodiva rinvenne una Sinfonia di cui nessuno aveva mai sentito parlare. «Chissà per quanto tempo ancora» – racconta Schumann – «essa sarebbe rimasta in quell’angolo oscuro e polveroso, se io non avessi subito persuaso Ferdinand Schubert a spedirla alla direzione dei concerti del Gewandhaus di Lipsia, o anche allo stesso artista che vi presiede». Era costui Felix Mendelssohn Bartholdy, il quale subito s’incaricò di eseguirla, il 21 marzo 1839, di fronte a un pubblico ammirato e generalmente consenziente. Non pertanto la strada al giusto riconoscimento della Sinfonia fu spianata, e poco le valse la pubblicazione curata nel 1840, sempre a Lipsia, da Breitkopf & Haertel, il più importante editore musicale del tempo. Dopo le esecuzioni lipsiensi, infatti, Mendelssohn la portò nel ’42 a Londra: ma qui l’orchestra della Società Filarmonica si rifiutò di eseguire il Finale, che ai primi violini parve noioso (eufemismo che forse nascondeva una obiettiva quanto ingrata difficoltà di esecuzione); di peggio avvenne nel ’44 a Parigi, dove l’orchestra della Società dei Concerti diretta da Habeneck si fermò sconcertata dopo il primo tempo. Vienna aveva conosciuto sul finire del ’39 i primi due movimenti, eseguiti dalla Filarmonica con l’inserzione, a mo’ di intermezzo e secondo la moda del tempo, di un’aria d’opera, per l’esattezza dalla Lucia di Lammermoor. Sull’autorevole giornale «Allgemeiner Musikalischer Anzeiger» si lesse fra l’altro: «Dopo i due movimenti di questa Sinfonia nessuno può mettere in dubbio il fatto che Schubert avesse una profonda conoscenza dell’arte della composizione; ci sembra però che egli non sapesse padroneggiare con altrettanta sicurezza le masse tonali. Così questa Sinfonia è una specie di schermaglia di strumenti, da cui non riesce ad emergere un disegno efficace. A dire il vero c’è un filo rosso che si snoda attraverso l’intero lavoro, ma è troppo stinto perché si possa individuarlo sempre con precisione. A mio parere quest’opera sarebbe stato meglio lasciarla dov’era». A parte il pessimo gusto dell’ultima frase, non c’è dubbio che questa recensione cogliesse, in trasparenza e per così dire al negativo, alcuni dei tratti essenziali del capolavoro, che vanno individuati proprio nella novità e nell’arditezza della concezione formale e tonale, tanto poco «efficace» dal punto di vista dei valori consolidati dalla tradizione sinfonica, classica e beethoveniana, quanto risoluta nello sperimentare e fissare nuovi canoni estetici nel campo delle grandi forme strumentali.

Il 31 marzo 1824 Schubert scriveva all’amico pittore Leopold Kupelwieser, allora a Roma, una lunga confessione, abbastanza impressionante se si pensa che a dettarla era un giovane di appena ventisette anni che non esitava a dirsi «la creatura più infelice e sventurata del mondo» (evidentemente riferendosi non soltanto alle tremende conseguenze della sifilide contratta due anni prima); dopo essersi trattenuto a lungo sulla miseria della sua condizione esistenziale, Schubert metteva al corrente l’amico dei progressi del suo lavoro: «In fatto di Lieder non ho scritto granché di nuovo; in compenso mi sono esercitato con numerosi lavori strumentali: ho composto due Quartetti e un Ottetto, e ho in mente di scrivere un altro Quartetto [alludeva ai tre ultimi e grandi Quartetti per archi, quello in la minore op. 29, quello in re minore La morte e la fanciulla, e quello in sol, che avrebbe scritto solo nel 1826, e al prodigioso Ottetto in fa maggiore per archi e fiati, quasi un cartone di Sinfonia]. Soprattutto voglio in questo modo prepararmi la strada verso la grande Sinfonia». Se si tien conto che la Nona Sinfonia di Beethoven, la «grande» Sinfonia per antonomasia, era nata giusto fra il 1823 e il ’24, queste parole assumono un significato ancor più pregnante: nel senso che Schubert non soltanto vedeva i lavori strumentali fin lì composti e progettati come una sorta di trampolino di lancio verso il cimento massimo della creazione di una Sinfonia, ma anche intendeva questo cimento come il risultato dell’ascesa verso le più alte vette dell’arte, individuate nella forma più nobile, impegnativa e complessa che a un musicista cresciuto in stretto contatto coi classici potesse figurarsi. La Sinfonia in do maggiore è questo risultato, raggiunto non sulla falsariga dell’imitazione di Beethoven ma nella lenta, caparbia riflessione sulle possibilità di una diversa, più articolata e ampia, organizzazione linguistica e formale. Se la tappa decisiva nel cammino verso la grande Sinfonia arrivò a realizzarsi soltanto dopo la morte di Beethoven, ciò fu anche la conseguenza di uno sblocco psicologico dovuto al venir meno della presenza, fisica e incombente, del gigante tanto venerato quanto temuto, e insieme della consapevolezza alfine raggiunta di esserne il più diretto e qualificato erede: l’unico in grado di seguirne a breve distanza l’insegnamento e le grandiose aspirazioni, sia pure con mezzi, materiali e fini differenziati.

La mediazione di Schumann è a questo punto decisiva. Egli per primo colse quel misto di fedeltà alla tradizione – i valori dello stile organico classico – e di tensione verso l’ampliamento e la trasformazione dei mezzi espressivi – la nuova distribuzione degli elementi melodici, ritmici, tonali, costruttivi, e formali – che contraddistingue la grande Sinfonia in do maggiore, veramente un unicum nella storia della sinfonia ottocentesca. E anche questa unicità non sfuggì all’occhio acuto di Schumann: «Chi non conosce la Sinfonia in do maggiore conosce ben poco di Scbubert; e questa lode può sembrare appena credibile se si pensa a tutto quello che Schubert ha già donato all’arte. Oltre a una magistrale tecnica della composizione musicale, qui c’è la vita in tutte le sue fibre, il colorito sino alla sfumatura più fine, v’è significato dappertutto, v’è la più acuta espressione del particolare e soprattutto infine v’è diffuso il romanticismo che già conosciamo in altre opere di Franz Schubert. E questa divina lunghezza della Sinfonia… questo sentimento di ricchezza diffuso ovunque ricrea l’animo… Questa Sinfonia ha dunque agito su di noi come nessuna ancora, dopo quella di Beethoven».

Se Schumann avesse potuto sapere a quali fraintendimenti e infelici interpretazioni avrebbe condotto l’espressione «divina lunghezza», probabilmente l’avrebbe ritrattata. Eppure si tratta di un’espressione felicissima. Le proporzioni per l’epoca amplissime e la stessa estensione dell’organico ai tromboni (ben tre) denotano già esteriormente la Sinfonia in do maggiore come un’opera di grandiosa concezione. Ma quel che più conta è che il grandioso e la «lunghezza» non nascano soltanto da una fecondità di ispirazione e da una vastità di intenzioni certo notevolissime, ma soprattutto da un’idea e da una disciplina formale che racchiudono la ricchezza dell’invenzione melodica e lirica in unità strutturale ferrea, organicamente compiuta da cima – la vasta e solenne Introduzione da cui germina la proposta tematica fondamentale – a fondo – la colossale costruzione in forma di sonata del Finale. Quest’idea apre la strada verso una concezione della forma tanto profondamente nuova quanto densa di significati per i compositori successivi, e perfino in versanti opposti (Brahms da un lato, Bruckner dall’altro). Alla nozione di contrasto e di sviluppo drammatico propria di Beethoven subentra qui il principio dello svolgimento ciclico, basato sulle metamorfosi e le trasfigurazioni di un motivo elementare, che appare all’inizio, intonato grandiosamente da due corni. È questo motivo, una vera «idea originaria» tipicamente schubertiana, a conferire unità a tutti i movimenti; palese o latente, esso riappare ovunque in forma sempre cangiante ma riconoscibile; risuona nel primo movimento («Allegro ma non troppo») nel possente richiamo dei tromboni, vi riemerge in forma di Corale nella Coda, alleggerito nel secondo tema in mi minore, nel basso – affidato a violoncelli e contrabbassi – dell’ «Andante con moto». È qui che il motivo dei corni conosce nuove avventure: al lirismo di episodi quasi gentilmente popolareschi si alternano, quasi in un’antifona, le imperiose affermazioni della massa dei fiati, lasciando però spazio, nella parte centrale, alle effusioni liriche del dialogo fra oboe e violoncello, e a un passaggio «in cui, come da remote distanze, ci giunge il richiamo del corno, e tutto tace come se frammezzo all’orchestra si muovesse leggero un visitatore celeste», come disse Schumann.

La vastità di proporzioni e l’energia ritmica caratterizzano anche lo Scherzo, con il quale Schubert abbandona ormai del tutto le cadenze di danza e le movenze popolaresche che spesso, anche nelle grandi forme strumentali, avevano trovato in questa sede formale espressioni relativamente serene. Lo Scherzo è a modo suo un robusto ponte verso lo slancio imperioso del Finale, dove il tema iniziale è ripreso e dilatato sino all’ebbrezza dionisiaca. La forma di sonata è qui forzata ai suoi estremi limiti, prima nella moltiplicazione degli episodi tematici (essi sembrano sospendersi in indugi e attese che presuppongono nuovi, più incisivi ritorni), poi, dopo un tentativo di coesione nella Ripresa, attraverso le nuove accensioni e gli ultimi, sublimi e patetici, ripensamenti della Coda. Niente più resta ora da dire: e il tripudio di suoni con cui la Sinfonia si conclude riattestandosi sull’iniziale do maggiore non è un gesto convenzionale, ma la conquista e il coronamento di una mèta spirituale eterna.

Zubin Mehta / Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Ente autonomo del Teatro Comunale di Firenze, Stagione Lirica 1985

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