Le musiche in programma
L’affermazione tradizionale secondo la quale il segreto primo del Lied di Franz Schubert consiste nella capacità del musicista di creare autentiche e purissime melodie quasi scaturenti di getto dall’interno della forma poetica, è senza dubbio da sottoscrivere: a patto però di non ridurre Schubert a mero inventore e distillatore di melodie memorabili (la storia della sua ricezione ci insegna invece che questo equivoco si è mantenuto a lungo). Pur nella sua prodigiosa, spontanea naturalezza, la melodia è soltanto un elemento costitutivo, e sia pure il più evidente, del Lied schubertiano: senza di quello, esso non sarebbe ciò che è. Ma è altrettanto vero che soltanto con quello non si avrebbero quei caratteri complessi, globalmente unitari e quindi tanto più efficaci ed eloquenti, che lo distinguono. Lo scavo compositivo, sia che si realizzi di colpo, con felice facilità, sia che invece richieda una più lunga maturazione, si indirizza in profondità, alla ricerca di una coerenza formale e stilistica di più ampio respiro, risultato della mediazione fra l’impulso poetico e la sua sintesi musicale. La melodia richiede un ritmo, il motivo o la frase un’organizzazione tonale, la sezione o la strofa un processo e uno sviluppo di relazioni e di trasformazioni. Una volta messa in moto, è il meccanismo musicale a dettare le proprie leggi, ora rispecchiando ora integrando di elementi sostanziali il percorso poetico.
Anche sul piano della melodia, del resto, la perfetta adattabilità al testo è un punto di arrivo più che di partenza: sovente ne è la traduzione simbolica, ossia un’interpretazione che si chiarisce nella sua perfetta adeguatezza (una adeguatezza che a noi appare, appunto, del tutto naturale) soltanto come fine di un processo. In questo senso considerare la funzione dell’accompagnamento pianistico quale semplice supporto della melodia, sfondo d’ambiente al suo inarcarsi con aerea traiettoria, o invece come mezzo che consenta di tradurre sul pianoforte immagini poetiche di stampo naturalistico o descrittivo, significa non soltanto perdere una parte fondamentale della sostanza del Lied, ma anche dimenticare che la grandezza e la novità del Lied schubertiano risiedono in larga misura nella scoperta dell’autonomia funzionale del pianoforte e nella fusione di linguaggio vocale e linguaggio strumentale. Una fusione che è il risultato della scomposizione e della ricomposizione degli elementi caratteristici di ognuno di essi, al fine di integrarli in una concezione del tutto nuova e mai tentata prima di totalità espressiva: la quale, senza preventive delimitazioni di campo, si esplica nelle piccole come nelle grandi forme, nella scrittura come nel timbro.
All’interno della produzione liederistica schubertiana, che comprende oltre seicento composizioni distribuite in un arco creativo ininterrotto dalla prima fanciullezza alla morte prematura, non sono molte le pagine su testi italiani. Pur rivestendo carattere occasionale, esse mantengono tuttavia un’identità riconoscibile e una purezza melodica speciale. Durante il suo apprendistato giovanile con Antonio Salieri, Schubert aveva avuto modo di familiarizzare con il mondo dell’opera italiana, e soprattutto con la poesia drammatica di Pietro Metastasio, il cui classico equilibrio tra chiarezza della forma e forza del sentimento Salieri additava a modello non meno della fervida eloquenza di Gluck. Gli esercizi scolastici di Schubert degli anni 1813-1816 promanano un’aura di amorosa consonanza con gli insegnamenti del maestro: un’eco di questa, calda e nobile, risuona ancora nelle quattro splendide canzoni italiane per voce e pianoforte del gennaio 1820, composte per Franziska
Roner von Ehrenwerth, la futura moglie di Josef von Spaun, uno degli amici più stretti della cerchia schubertiana. I testi delle prime due, a lungo attribuibili a Metastasio, sono in realtà di Jacopo Andrea Vittorelli (1749-1835), poeta veneziano d’adozione, stimato rappresentante di un’Arcadia ormai al tramonto: del primo, che qui ascoltiamo, Non t’accostar all’urna (Andante moto in do maggiore), Schubert fece una piccola scena drammatica di stile ornato, oscillante tra il recitativo e l’aria, nella cui grazia musicale s’accompagnano a tratti accenti preromantici. Sono invece tutti di Metastasio gli altri testi dei brani in programma; salvo quello di La pastorella, arietta per soprano e pianoforte da Il filosofo di campagna (atto secondo, scena 16) di Carlo Goldoni, musicato da Schubert nel gennaio 1817 in un Larghetto (in 6/8 e nella tonalità di sol maggiore) dalle delicate tinte pastorali. Poi Metastasio, dunque, e la sua incantata temperie espressiva. Mio ben ricordati (D. 688, n. 4), aria di Grandarte da Alessandro nell’Indie (atto terzo, scena 7), è un Andantino che si evolve con dolcezza dal si bemolle minore al si bemolle maggiore, sposando uno dei procedimenti più tipici dello stile liederistico schubertiano, Da quel sembiante appresi (D. 688 n. 3) è l’aria di Lisinga dal primo atto, scena 3, di L’Eroe cinese: due brevi strofe con ripresa per un Allegretto in si bemolle maggiore di stile un po’ scolastico e quasi neoclassico, ma fiorito e brillante.
Emozioni più partecipi si possono invece riscontrare nell’aria Vedi quanto adoro D. 510, dalla Didone abbandonata (atto secondo, scena 4), composta nel dicembre 1816. In questo Andante in mi bemolle maggiore di una certa ampiezza Schubert rievoca con appassionata adesione la vocalità svettante di eroi ed eroine di un altro teatro, fatto di personaggi ormai scesi dal piedistallo della storia ma non immemori del loro rango antico.
Karita Mattila, Tuija Hakkila
Accademia Nazionale di Santa Cecilia – Stagione di musica da camera 1999-2000