Franz Schubert – Musiche di scena per Rosamunde, favola drammatica di Lorenzo Arruga e Lorenza Codignola

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Il teatro evocato

 

Oltre alle musiche di scena per il dramma romantico Rosamunde, Fürstin von Zypern, Schubert compose per il teatro undici lavori, e altri sette ne lasciò incompiuti. E ciò in un lasso di tempo che va dal 1812 – Schubert aveva allora quindici anni – all’anno della morte, il 1828, e abbraccia dunque l’intero periodo creativo schubertiano, dall’apprendistato nel Convitto imperiale e regio di Vienna alla resa finale in seguito all’aggravarsi della malattia.

Una ventina circa di lavori drammatici (contando anche gli abbozzi) in una quindicina d’anni non sono pochi, neppure per quei tempi. Ma non solo per questo motivo è falso affermare che l’opera fosse un genere estraneo alla natura e agli interessi di Schubert: è anzi vero il contrario. E prima di tutto significativo che, dopo alcuni smaniosi assaggi durante gli studi in Convitto, non appena uscitone Schubert pensasse subito dì scrivere un’opera e di sottrarsi così all’impiego scolastico che lo attendeva; questo accadeva nel maggio 1814, con l’opera «magica e naturale» Des Teufels Lustschloss: nel bene e nel male, un prototipo dello stile drammatico schubertiano. Il 1815, poi, fu un anno di vera e propria mania operistica, con quattro titoli addossati l’uno all’altro; tutti Singspiele: Der vierjdhrige Posten (semiserio), Fernando (serio), Claudine von Villa Bella (il capolavoro, su testo di Goethe), Die Freunde von Salamanka (comico). Nessuno di questi lavori era stato commissionato; e nessuno venne eseguito, né allora né poi, durante la vita di Schubert. In ogni momento in qualche modo decisivo o cruciale della sua carriera, dunque, Schubert per prima cosa si affretta a metter su il progetto di un’opera. E così nel 1821, l’anno della separazione da Mayrhofer e dell’Alfonso und Estrella; nel 1822, sull’onda dell’entusiasmo dopo una ripresa del Fidelio e l’annuncio che Beethoven avrebbe composto una nuova opera, mentre Weber

trionfa col Franco cacciatore e poi con 1′Euryanthe, Schubert mette in cantiere (e vi lavora per tutto il 1823) un Singspiel (Die Verschworenen) e due opere (Rüdiger, incompiuta, e Fierrabras) e così sarà nel 1827, all’alba di una nuova fase della sua arte, con l’ambizioso Graf von Gleichen. Tutto ciò dimostra che Schubert bramava di affermarsi scrivendo opere, e non dubitava delle proprie capacità di riuscire. Anzi, possiamo aggiungere che per tutta la vita – e in certi anni o periodi con un accanimento speciale – Schubert pensò che ìl successo sarebbe venuto con l’opera e che essa, e solo essa, lo avrebbe definitivamente innalzato, anche di fronte al grande pubblico, al rango che gli competeva, sino a farlo risplendere «come un novello Orione nel cielo della musica» (così Joseph Hiittenbrenner, che ben riassumeva il pensiero degli amici; ma anche la convinzione di Schubert stesso).

Non fu così, notoriamente. Durante la sua vita, solo Die Zwillingsbrüder, un grazioso Singspiel scritto per esaltare le doti interpretative dell’amico Vogl, giunse sulla scena (Vienna, 1820); non contando come opere vere e proprie la fornitura di musica, peraltro di primissima classe, per Die Zauberharfe («gran pezzo spettacolare» per una beneficiata al Theater an der Wien, cui Schubert diede l’ornamento), per Das Zauberglöckchen (riadattamento de La clochette di Hérold, a cui Schubert contribuì con un duetto e un’aria) e per Rosamunde (questi lavori furono rappresentati a Vienna rispettivamente nel 1820,1821 e 1823 e costituirono dunque l’unica, ulteriore apparizione di Schubert in teatro).

 

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Perché la produzione teatrale di Schubert si rivelò una serie micidiale di delusioni e di fallimenti? A questa domanda si aggiunge la vecchia, irrisolta questione: quanto vale il teatro di Schubert? È possibile a noi riparare alle ingiustizie dei contemporanei che lo ostacolarono o ignorarono, e riportare alla luce almeno alcune delle opere di Schubert? E come allora dovremo offrirle, presentarle, valutarle?

L’affermazione, più volte ribadita, che il teatro di Schubert contenga della bella, talvolta bellissima musica, ma manchi di «senso del teatro», di drammaturgia e spessore drammatico, è a prima vista sicuramente vera. E ciò basterebbe forse a chiudere il discorso. Ma in effetti, se noi guardiamo più a fondo, ci accorgiamo che la questione è molto più ambigua e intricata. Quel teatro non nacque da condizioni astratte, ma da una situazione ben precisa e con ben precisi intenti: realizzare i desideri per piacere al pubblico viennese del tempo, incarnandone abitudini e tradizioni in fatto di teatro. Perciò è veramente triste che ogni volta Schubert o sbagliasse la mira o arrivasse al momento sbagliato, e fallisse comunque.

I lavori teatrali di Schubert, sia quelli portati a termine sia quelli rimasti incompiuti, si dividono in due generi: Singspiel e opera (fanno eccezione i tre lavori d’occasione, tutti rappresentati, che abbiamo ricordato sopra). Più precisamente, sei sono i Singspiele compiuti e tre le opere (tutte in tre atti, grossomodo di area romantico-fantastica: Des Teufels Lustschloss è un’opera magica, Alfonso und Estrella è una grande opera di stile italiano, Fierrabras un’opera cavalleresca). Ma se guardiamo alle opere incompiute, il rapporto si ribalta, significativamente: due Singspiele contro cinque opere, e di grande impegno, e sempre intese come momenti di svolta (da Adrast su testo di Mayrhofer del 1817-19 al Graf von Gleichen su testo di Bauernfeld, iniziato il 19 giugno 1827: che doveva essere, nel dominio del teatro, ciò che nel suo proprio terreno arrivò ad essere l’ultima Sinfonia in do maggiore: l’imboccatura di una nuova strada). E inoltre caratteristico, come si vede, che fin dall’inizio Schubert alternasse e talvolta anche sovrapponesse la composizione di Singspiele e di opere, quasi a voler tenere il piede in due staffe e non perdere l’occasione ove si presentasse propizia nell’una o nell’altra direzione.

Oggi per noi la differenza tra Singspiel e opera è anzitutto di carattere formale: mentre il Singspiel è composto di parti cantate e di parti recitate, l’opera è interamente cantata e musicata. Ma nella Vienna di Schubert non era affatto così. Se infatti il Singspiel era un genere consacrato da una tradizione già lunga e largamente popolare, a metà strada fra la Zauberoper e la commedia musicale farsesca, satirica o fiabesca, sotto il nome di opera si intendevano allora due categorie diverse: l’opera francese e italiana da un lato, ciascuna con il suo stile drammatico e vocale, l’opera austro-tedesca dall’altro, che era poi qualcosa di assai affine, per contenuti, al Singspiel borghese; almeno fintantoché non divenne con Carl Maria von Weber, opera romantica, nazionale e tedesca. Ma ciò, a Vienna, accadde a rilento, dopo l’arrivo del Franco cacciatore alla fine del 1821.

Fra tanti modelli, non esisteva per Schubert un modello unico da imitare, ma una congerie di tradizioni da sbrogliare. E ciò, unito a una totale inesperienza di teatro, complicava maledettamente le cose. Anche perché Vienna cambiava rapidamente i suoi gusti e si accendeva per sempre nuove apparizioni. Una di queste destinata a incidere profondamente sul costume e sugli usi teatrali fu quella di Rossini, a partire dal 1816. Essa provocò, fra il 1820 e il 1825, una vera infatuazione, una dilagante invasione, che lasciò poco spazio ai compositori tedeschi; innescando, al di là della moda, un notevole cambiamento di gusto nel pubblico dell’opera, che improvvisamente ma durevolmente si spostò dal piccolo mondo familiare e incantato della commediola recitata e cantata allo scatenato slancio vitale delle farse, o alle monumentali passioni delle tragedie, di Rossini, della sua musica tanto brillante quanto eloquente.

Pur ammirando Rossini (e quanto, come sappiamo anche dalla musica), Schubert non poteva certo servirsene per il teatro. E dove rivolgere lo sguardo allora? E vero che nel maggio 1814 era riapparso a Vienna il Fidelio (e si dice che Schubert rivendesse alcuni libri per procurarsi i soldi del biglietto); ma l’enorme successo di quella rappresentazione indimenticabile trascendeva l’opera in sé e premiava anzitutto lo sforzo titanico del suo autore, il pathos dei sentimenti e l’ampiezza del pensiero. D’altronde, Fidelio rimaneva comunque cosa gigantesca per Schubert, e dunque quasi inavvicinabile, neppure come aspirazione: a lui tanto estranea quanto da lui venerata.

Quando il deliro per Rossini fu sopraffatto dal clamore suscitato dal Franco cacciatore (1822), Weber rappresentò per Schubert una autentica speranza. Sbagliò, però, a credere che Weber davvero potesse caldeggiare a Dresda, dov’era direttore, un’esecuzione dell’Alfonso und Estrella, opera evidentemente inattuale e fuori stile in quel teatro (solo il cuore generoso di Liszt poté rischiare di proporla, trent’anni dopo, a Weimar); e soprattutto mancò di tatto nell’esprimere schiettamente le sue riserve sul1′Euryanthe, ospitata in gran pompa a Vienna nel settembre 1823, dichiarando all’autore stesso che gli pareva assai carente di quella ricchezza melodica che tanto lo aveva invece entusiasmato nel Franco cacciatore. Weber non glielo perdonò mai; del resto non si rividero mai più. Noi apprendiamo, da un episodio così amaro, che a Schubert dunque interessava la ricchezza melodica, anche a teatro. Non poteva non rimanere se stesso.

Di tutte queste presenze, trasformazioni, inquietudini, Schubert, dal suo osservatorio solitario, si rese conto solo in parte. Il suo modello, per quanto fantomatico, si identificava con il variopinto Singspiel viennese e in particolare con Mozart: ma saltando a piè pari dal Ratto dal serraglio al Flauto magico, escludendo proprio quella sintesi dei generi e delle forme teatrali che Mozart aveva attuato nelle tre opere italiane su libretti di Da Ponte. Neppure tra Singspiel e opera cambia molto nell’atteggiamento di fondo di Schubert compositore: a parte, certo, il volume e la quantità dell’intervento musicale. Non cambiano però il carattere intrinseco della musica, le sue qualità, le sue funzioni, e neppure i «contenuti»: soggetti magici e fiabeschi e cavallereschi, lardellati di inserzioni farsesche o sentimentali; idillio e commedia, amor romantico e amor coniugale, lotta fra bene e male, con puntature nel militaresco, nel pastorale, nell’orrido, nell’esotico. Il tutto nella capiente sfera del fantastico, dell’irreale, del soprannaturale, dell’inverosimile.

Eppure, con questi temi, a cui rimase ostinatamente fedele anche dopo la conoscenza dei brividi e delle aperture romantiche alla Weber, Schubert era convinto di poter conquistare Vienna. Come non desiderava oltrepassare i limiti del teatro viennese del suo tempo, così non aveva dubbi sulla rinascita delle sue opere: se solo gliele avessero fatte rappresentare. E volentieri si lasciava convincere che si trattasse solo di ritardi burocratici, intrighi di bassa lega, divieti della censura: inadempienze, insomma, delle istituzioni. Invece non solo non aveva calcolato bene i confini di quel teatro, ma si illudeva anche su coloro che lo frequentavano.

Viene spontaneo a questo punto chiedersi: Schubert giunse mai a elaborare una strategia drammatico-musicale per il suo teatro e ad applicarla con rigore? La risposta suona apparentemente negativa; ma lo è solo in parte. Gli imputati maggiori sono i librettisti, quattordici in tutto, per non aver creato le premesse giuste e gli spazi necessari all’espandersi della musica di Schubert. Non bisogna però dimenticare che nella maggior parte dei casi (e, purtroppo, soprattutto in quelli che ci fanno inorridire) Schubert era pienamente soddisfatto della scelta dei testi e li trovava corrispondenti ai suoi desideri, massime se provenivano dagli amici della sua cerchia; o quantomeno li accettava nella convinzione che non potessero nuocere né alla sua musica né all’impresa complessiva. Capì, certo, che il Goethe di Claudine era un’altra cosa; ma, come accadde nei Lieder, ciò non gli impedì di apprezzare anche il resto. Non pose mai condizioni, non avanzò pretese, non considerò mai la creazione di un’opera come qualcosa di straordinario, che esulasse da un semplice e familiare lavoro in comune, quasi una comunione di affetti e di idee, e richiedesse attenzioni speciali, preparazione o sapere. Si fidava dell’esperienza altrui e dell’altrui conoscenza. A lui non restava che scrivere musica.

La musica, appunto. Nel teatro di Schubert, legato alle condizioni (individuali e artistiche, più in generale socio-culturali) dell’epoca e del luogo, e racchiuso dai limiti (caratteriali e ambientali) che l’autore stesso si impose, credendoli invalicabili, la musica assolve a una duplice funzione: insieme evoca e narra. La forza evocatrice (di situazioni, ambienti, stati d’animo, atmosfere) è così sviluppata da divenire un segno distintivo personale, inconfondibile e costante: qui tutto è evocato, non rappresentato. E a tal fine non soccorre neppure la funzione narrativa. Essa, molto più accentuata nelle opere che nei Singspiele (e non solo per la semplice ragione che i Singspiele sono costituiti di brevi pezzi chiusi intervallati dal parlato, mentre l’opera è interamente musicata, e piena di recitativi e di ariosi), non segue infatti uno sviluppo o un percorso drammatico, connesso all’evento scenico e all’evolversi dell’azione, ma è retta da una logica propria, da una fitta rete di associazioni di carattere eminentemente musicale. In altri termini Schubert riempie di musica i tempi e i luoghi del teatro, senza preoccuparsi di renderli dinamici e teatrali. Essi vivono di se stessi e per se stessi, e prendono per così dire il volo verso orizzonti sconfinati dopo esser stati creati nell’ambito di una situazione teatrale. Si trascendono, quasi evaporando dal contesto drammatico. Così facendo, però, la musica ricrea il dramma, lo assimila e lo restituisce nelle sue proprie proporzioni e misure, e lo fa vivere conducendoci per mano in un mondo sonoro e poetico ordinato e organicamente concepito. E da ultimo a noi sembra di aver fatto un lungo viaggio in regioni sconosciute e appena collegate all’evento scenico, di averlo cioè lasciato e di aver camminato come in sogno, e di aver scoperto ora un altro mondo, al di là (o dietro; o dentro?) del teatro: conseguenza non del dramma che si è svolto sotto i nostri occhi, ma della parabola descritta dalla musica, in cerchi sempre più ampi e vaghi.

Lo stesso accade coi personaggi. Essi rimangono per così dire estranei alla vicenda e iniziano un corso di pensieri che la musica si incarica di trasportare in una dimensione puramente poetica, puramente lirica, puramente fantastica, puramente musicale. Come fa nei Lieder, anche qui Schubert parla con un linguaggio universale. Perciò i suoi personaggi non si identificano in una storia, in una situazione, in un tipo, e non ambiscono a essere definiti psicologicamente o caratterizzati individualmente, ma sono apparizioni simboliche, figure ideali, emozioni viventi, entità fantomatiche e irreali di un mondo soprannaturale, sovraindividuale, epifanie di sentimenti, che la musica, con i suoi mezzi illimitati, coglie, esprime, comunica, avvolge, evoca, espone, narra…

Se tutto ciò non corrisponde alla nozione abituale e convenzionale che noi abbiamo dell’opera, dobbiamo tuttavia riconoscere che niente può avvenire di tutto ciò al di fuori del teatro. Giacché l’azione, il dramma che si svolge per mezzo della musica, si produce solo nell’immaginazione del teatro, e ha bisogno, per realizzarsi, di quello spazio concreto e limitato. Al di fuori di esso, semplicemente non esisterebbe quel mondo incantato e magico, fiabesco e lirico, che si riconosce nella suggestione della scena: teatro come invenzione, teatro come inconscio, teatro come viaggio al centro dell’anima.

 

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Schubert accettò di scrivere all’ultimo mómento le musiche di scena per Rosamunde soltanto perché sperava di facilitare così il cammino alle due «vere» opere (un Singspiel e un’opera, al solito, per ogni evenienza) che aveva già composto in quell’anno, il 1823: Die Verschworenen e Fierrabras. Forse, l’attraeva anche collaborare con la vulcanica e influente Helmina von Chézy, l’autrice del libretto dell’Euryanthe di Weber, la «novità del giorno», che a Schubert non era piaciuta ma aveva riscosso un forte successo. E tanto era bastato per convincerlo ad accettare un tipo di commissione che aveva giurato a se stesso di non accettare mai più, dopo l’infelice esperienza della Zauberharfe: una beneficiata messa su all’ultimo momento, questa volta in onore di un’attrice, Emilie Neumann, da uno spasimante un po’ megalomane.

Helmina (cioè Wilhelmina) von Chézy, «nata baronessa Klenck» (come amava-sottolineare), era una specie di virago delle lettere, tanto «intellettuale» e salottiera quanto invadente e untuosa, che si dava delle arie e sapeva far fruttare le conoscenze di cui godeva: insomma, uno di quei tipi di femmina testarda, spregiudicata e temibile, che ruotano attorno agli artisti e si intrufolano nell’ambiente. All’inizio Schubert dovette rimanere, se non affascinato, colpito dalla decisione e dall’autorità di questa donna, che si vantava di esser riuscita a confezionare in soli cinque giorni (ed era vero) quel drammone romantico in quattro atti, con cori, accompagnamento di musica e danze, lavorando di fantasia sull’esile traccia di uno spunto preso a prestito da un dramma spagnolo. Svuotando i fondi di magazzino del più sfruttato repertorio cavalleresco e romantico-sentimentale, aveva messo insieme una storia mirabolante e farraginosa, con intrighi, travestimenti, scambi di persona, minacce, vendette, riconosci-menti e lieto fine; il tutto attorno al personaggio di una fanciulla, Rosamunde, abbandonata e ritrovata, messa alla prova e contesa fra Cipro e Creta.

Ciò è quanto ne sappiamo da fonti indirette: dato che il testo è andato perduto. Né sappiamo in che misura Schubert si vide assegnati compiti precisi, e quanto invece facesse di testa sua: di fatto, si limitò a inserire la musica nei punti di collegamento senza interferire nell’azione. Sappiamo invece che tutto avvenne in un clima di grande fretta e concitazione, con prove scarse, letture approssimative, coreografie quasi estemporanee. Schubert se la rideva, e non ebbe difficoltà ad adeguarsi: ma se riuscì a consegnare una parte della musica solo all’ultimo istante, per l’Ouverture non ebbe materialmente il tempo, e ripiegò su quella, ancora ineseguita, dell’Alfonso und Estrella.

La prima rappresentazione ebbe luogo al Theater an der Wien il 20 dicembre 1823. Ce n’è rimasto il resoconto scritto da Moritz von Schwind all’altro eminente schubertiano e amico Franz von Schober, ch’era assente da Vienna: «L’altro ieri fu data a Vienna un’opera della funesta Helmina von Chézy, Rosamunde von Cypern, con musica di Schubert. Ti puoi immaginare come siamo corsi noi tutti. Non ero uscito di casa in tutto il giorno, e così non potei nemmeno accordarmi con gli altri e andai da solo nel terzo ordine di palchi, mentre gli altri sedevano in platea. Schubert ha utilizzato l’Ouverture scritta per Alfonso und Estrella, perché la trova troppo sempliciotta per quell’opera e ne vuole fare una nuova. Con mia grandissima gioia essa fu bissata fra il plauso generale. Ti puoi immaginare come io seguissi la scena e la musica. Dopo il primo atto veniva un pezzo che, considerando il luogo in cui era inserito, risultò troppo poco brillante e un po’ troppo ripetitivo. Un balletto passò inosservato, e così pure il secondo e il terzo intermezzo. La gente è abituata ad applaudire subito dopo la fine dell’atto, e non riesco a capire come ci si potesse aspettare un contegno diverso: che prestasse attenzione a cose così serie e lodevoli. Nell’ultimo atto venne un coro di pastori e di cacciatori, tanto bello e naturale, che non ricordo di aver mai udito qualcosa di simile. Fu ripetuto fra gli applausi, e credo che darà la lezione che si merita al coro dell’Euryanthe di Weber. Furono applaudite anche un’aria, per quanto la Vogel [interprete di Axa, la nutrice] l’avesse cantata in modo grigio assai, e una breve scena bucolica. Di un coro sotterraneo fu impossibile sentire una sola nota, e i gesti del signor Rott [l’interprete di Fulgentius, il tiranno che minaccia Rosamunde] che nel frattempo cucinava un veleno, soffocarono i suoi timidi conati di venire alla luce».

La serata non fu un successo, anzi; ma fece un certo clamore. La stampa ironizzò fin dove poté sulle macchinose stramberie e oscurità della poetessa, e trattò il compositore dall’alto, ma con simpatia e rispetto. Qualcuno arrivò perfino a scrivere che un musicista così originale, quasi geniale, meritava opportunità migliori: infatti era pur sempre un debuttante in teatro! Per parte sua, Rosamunde scomparve dalle scene dopo la seconda rappresentazione. Helmina aspettò che passasse la tempesta; poi cominciò a pensare a un rimaneggiamento, d’accordo con Schubert, la cui «musica eccellente» aveva elogiato anche pubblicamente, e che ora le premeva di assicurarsi. Di questo tentativo rimasto infruttuoso (la seconda versione non vide mai la scena e andò in seguito anch’essa perduta) ci rimane una testimonianza quasi commoventi nella sua tenerezza, una lettera scritta «Madame» che traduciamo qui per la prirn volta:

 

Vossignoria Illustrissima!

Persuaso fin dal momento in cui l’ho letta del valore della Rosamunde, sono assai lieto che la Signori Vostra illustrissima abbia provveduto a correggere nel modo sicuramente più vantaggioso alcune manchevolezze insignificanti che soltanto a un pubblico invidioso potevano apparire così vistose e vituperabili, e considererei come un onore speciale per me poter conoscere un esemplare rielaborato. Quanto al prezzo della musica, non crede di poterlo stimare in una cifra inferiore ai cent fiorini convenzionali, senza nuocere a essa stessa Se però dovesse essere troppo elevato, vi pregherei che foste Voi a fissarlo, senza allontanarsi troppo dalla somma indicata, e di provvedere a comunicarlo in mia assenza all’indirizzo sotto indicato Con la più grande stima

 

Vs. devotissimo

Franz Schuber

 

Zeléz, 5 agosto 1824

Indirizzo: Franz Schubert, maestro di scuola Rossau nell’edificio scolastico a Vienna.

 

* * *

 

Sopravvissero invece la musiche di Schubert: dieci numeri, più l’Ouverture. Equi mente divisi fra brani strumentali e vocali. Dei primi, tre sono Intermezzi, ciascun alla fine di ogni atto: in si minore, re maggiore e in si bemolle maggiore; quest’ultimo, celeberrimo, è un Andantino poi riutilizzato nel Quartetto in la minore D. 804 (1824) e nelle Variazioni dell’Improvviso op. 142 n. 3 (1827). Due sono i Balletti (per secondo atto, in si minore, e per il quarto, in sol maggiore). I secondi comprendono invece la Romanza di Axa, la nutrice, dal terzo atto, il Coro degli Spiriti per voci maschili nello stesso atto, la «melodia» dei pastori dal quarto atto, seguita dal Coro dei Pastori per voci miste, e infine il Coro dei Cacciatori, sempre nel quarto atto. Quanto all’Ouverture, Schubert non ne compose mai appositamente una e impiegò, come si è detto per l’esecuzione quella di Alfonso und Estrella; successivamente, essa venne a sua volta sostituita dall’Ouverture del Singspiel Die Zauberharfe, che da allora rimase per ser pre associata alle musiche di scena della Rosamunde, fino ad oggi, anche nelle esecuzioni in concerto. E ne porta il titolo. Rosamunde è un caratteristico esempio di ciò che si può intendere per «musica teatrale» di Schubert: una musica in sé compiuta che fa aggio sul dramma e lo conforma alle proprie leggi. Perciò un’operazione come quella tentata in questa sede, che per così dire parta dalla musica per risalire al dramma, ha non solo una sua giustificazione ma anche un suo scopo: ristabilire l’ordine delle cose, le priorità e le gerarchie fra gli elementi che costituiscono l’insieme di dramma e musica, per noi, oggi. Prendendo a riferimento Schubert, il «suono» della sua musica, in teatro.

Naturalmente ciò è più facile nel caso di Rosamunde, che non è un’opera o un Singspiel ma un dramma – per di più perduto – sorretto dall’intervento della musica; o meglio, determinato dalla musica. Ricostruire il dramma sprofondandosi attivamente nelle suggestioni della musica, è ciò che in parole povere si è tentato: in modo da proiettare nel dramma, sino a ricomporlo, pensieri, stati d’animo, riflessioni, sensazioni, aspirazioni, associazioni, scoperte, interrogativi, dubbi, certezze … Tutto ciò proviene dalla musica di Schubert, da essa viene evocato e narrato. Ora qui si cerca anche di rappresentarlo.

Daniele Gatti, Ferruccio Lozer / Orchestra e Coro del Teatro della Fenice
Gran teatro La Fenice

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